Il seguente articoli è apparso sul numero 17 anno 97 di Umanità Nova
via discarding images (come tutti i frammenti di miniature qua presenti)
Retate in Stazione Centrale a Milano, più di centocinquanta fermati. Il giorno dopo, a Roma, un uomo 53enne, Nain Maguette, a cui i media e il comandante dei vigili capitolini si riferiscono come “ragazzo”, senegalese che vende qualche merce su di un telo dietro al Colosseo muore durante un’altra retata. Forse un attacco cardiaco, forse una caduta dovuta ai vigili urbani. Non importa il come: importa il perchè. E il perchè è semplice: vi è un’oggettiva unità di intenti e d’azione tra le principali forze politiche del paese, e dei loro mandanti padronali, nel condurre una guerra, totale, spietata e con sempre meno veli nei confronti dei poveri. Dei poveri in generale con la politica economica che, in un modo o nell’altro, scarica l’ennesima crisi ciclica sulle spalle degli sfruttati, dei poveri d’origine straniera in particolare con la criminale politica di chiusura delle frontiere, dell’istituzione di tribunali speciali, in spregio agli stessi principi costituzionali di cui sono tutti grandi difensori, delle retate. La sicurezza, la legalità, il decoro: cumuli di morti nel Mediterraneo, pozze di sangue sul selciato nelle nostre città.
I leader della Lega annunciano ruspe e fanno sparate folkloristiche. Al più in qualche comune sotto il loro governo fanno qualche ordinanza scritta talmente male da essere annullata dal TAR. Il PD approva i decreti Minniti e li attua. La Lega festeggia ogni barcone affondato, il PD versa ipocrite lacrime e non fa nulla per fare aprire i corridoi umanitari, unico modo per bloccare le stragi nel Canale di Sicilia. Si fanno fotografare mentre firmano accordi con questo o quel despota dei paesi di transito o di origine dei flussi migratori. Il Movimento Cinque Stelle, propone le stesse cose. E dove è al governo, come a Roma, è mandante dei raid contro gli ambulanti, giustificandoli con il decoro e la “tutela pesaggistica”. I suoi quadri propongono di bloccare la distribuzione dei pasti caldi ai senzatetto. Solo un infame può avere una pensata simile.
Nel frattempo il PM Zuccaro, della procura di Catania, si rende noto alle cronache nazionali blaterando di legami tra le ONG impegnate nel soccorso dei barconi al sud di Malta, dove la criminale agenzia europea Frontex ha deciso di non spingersi, e gli scafisti libici. Poi ritratta e infine rilancia dicendo che deve indagare ma non ha elementi probatori. Non si capisce allora perchè non se ne stia stato zitto fin da subito, a indagare come è il mestiere per cui è profumatamente pagato vorrebbe. Ma il tacere non fa bene alle carriere dei magistrati, è risaputo da quasi trenta anni. Meglio darsi alle sparate per poi, al massimo, perdere i processi, o più probabilmente, come in questo caso, neanche iniziarli. Intanto organizzazioni che già operano tra mille difficoltà si ritrovano delegittimate pubblicamente e Lega Nord e Cinque Stelle fanno a gara a rilanciare le dichiarazioni dell’infallibile PM. Di Maio, pentastellato e primo ministro in pectore per la Casaleggio Associati, parla delle ONG come di taxi del Mediterraneo.
I probi cittadini si uniscono all’infamia facendo il tifo per questo o quello, PD o 5S o Lega, a seconda dei propri gusti su Facebook o su Twitter, o sul divano guardando qualche schifezza quale Quinta Colonna. Pieni di ignoranza sbavano all’idea dell’invasione da contrastare oppure, se ignoranti eruditi si mettono a parlare citandoti statistiche-che-dimostrano-razionalmente che i morti sono triste necessità perchè le risorse, i soldi, il territorio, questo e quello. In realtà semplicemente odiano i proletari, in molti, troppi, casi odiano sé stessi. E odiano particolarmente i proletari se questi non sono bianchi. Taluni hanno il coraggio di dirlo: sono i più francamente razzisti. Votano Lega o Forza Nuova o qualche altro partito di servi dei servi dei servi. Altri no, mica ce l’hanno il coraggio di dire apertamente “io odio i negri perchè penso che siano subumani”. E allora votano PD o Cinque Stelle e si inventano voli pindarici per giustificare la loro opinione infame e contemporaneamente mantenere la propria identità di uomini o donne civilizzati e funzionali. Parlano con in bocca cadaveri: aiutiamoli-a-casa-loro, il-piano-del-malvagio-Soros e altre amene supercazzole. Parlano sui cadaveri.
La loro sbandierata razionalità è in realtà l’abominevole ragione strumentale, buona per i calcoli da bottega – perchè questa è la mentalità di questi soggetti: da bottegai – pessima per tentare di comprendere come stanno realmente le cose. Figuriamoci per cambiarle.
Pensano di contare qualcosa, stolti!, ma sono, sono sempre stati e saranno, carne da cannone al pari dell’ultimo profugo che tenta la traversata su una carretta. La guerra è ciclica: un ciclo riempiamo gli arsenali e un ciclo riempiamo i granai, un ciclo macellati e un ciclo macellai.
Si sono inventati, summa dell’idiozia, la perniciosa distinzione tra veri-profughi e migranti-economici. Secondo lorsignori cittadini civili, non razzisti e che mica vogliono essere mischiati con l’elettore grufolante della Lega, i primi, povere vittime, fuggono dalle guerre e quindi hanno diritto ad avere la nostra pietà, a essere perennemente vittime e in quanto tale soggette alle decisioni che prenderanno i professionisti del bene. I secondi invece, ah, i secondi!, no. Osano migrare da un paese più povero alla ricerca di migliori condizioni economiche, ovvero di vita in un sistema basato su rapporti mediati dal denaro? Stessero a casa loro, mica sono i nostri figli, belli, diplomati (o laureati) e sopratutto bianchi, che vanno a lavorare Londra, Berlino, Cristchurch o Melbourne. E guai a chiamare migranti-economici questi ultimi: sono expats, termine inglese oramai sempre più in voga anche qua.
Il razzismo è strutturale e funzionale al mantenimento di una società basata sul dominio l’espropriazione dei frutti del lavoro da parte dei padroni.
Il cittadino-civile che sbraita che non si possono e non si devono fare entrare i famigerati migranti-economici è lo stesso che parla positivamente multiculturalismo, la più sottile e pericolosa forma di razzismo che crea barriere religiose e culturali tra i proletari che abitano e vivono sullo stesso territorio, che giustifica le più schifose forme di oppressione patriarcale in base alle differenze culturali e a una male interpretata tolleranza.
Noi no. A noi non interessa la multiculturalità, pessimo attrezzo pretesco. Chi si trova a dovere fuggire da casa sua, perchè devastata dalla guerra o perchè periferia economica del mondo, è nostro eguale in quanto sfruttato, in quanto proletario. E per questo noi saremo solidali con esso, alla faccia di Salvini, Di Maio e Minniti.
Questo articolo è stato pubblicato su Umanità Nova numero 13 anno 97. È una risposta al comunicato del Collettivo Anarchico Incubo Meccanico, riprodotto al fondo di questa pagina, in merito al mio scorso articolo sul rapporto tra anarchismo, tecnologie e transumanesimo. Il comunicato del C.A. Incubo Meccanico aveva già ricevuto un‘ottima risposta da parte di Enrico Voccia sul numero 12 di Umanità Nova.
Innanzi tutto chiariamo una cosa: al contrario di quanto sostiene il Collettivo Anarchico Incubo Meccanico nel suo comunicato il dibattito sulle pagine di Uenne c’è stato e le posizioni erano ben differenziate, si vedano, banalmente, i pezzi del nostro compagno Marco Celentano.
Secondariamente ringrazio Incubo Meccanico per la sua risposta che non fa altro che confermare le mie tesi sul primitivismo, non tanto quelle esposte nel mio articolo da voi citato tanto quanto quelle esposte nel pezzo “Appropriarsi della scienza – Farla finita con il primitivismo” del novembre 2015. Il fatto stesso che il Collettivo nel suo comunicato inizi parlando di “natura umana”, scrivendo questa espressione in grassetto, dimostra chiaramente il fatto che il primitivismo altro non sia che una visione mistica. Certo potete tranquillamente definire la natura umana in senso biologico ma la questione rimane la stessa: e quindi? Esiste una natura perfetta, non modificabile, invariata, fissa, ipostatizzata? No. L’Homo sapiens, e non solo, ha sempre operato la trasformazione tecnica della natura per migliorare le proprie condizioni di vita. Per altro gli stessi comportamenti, in forme differenti, li si osserva anche nei primati che usano strumenti, ovvero tecniche. Il fatto che si sostenga che il transumanesimo e’ incompatibile con un armonioso e equilibrato rapporto con l’ambiente dimostra solamente quanto la mistica primitivista sia pregna di visioni apocalittiche, completamente incapace di immaginare qualcosa che non sia una mortifera impotenza spacciata per radicalità. L’utilizzo di una tecnologia dipende dalle strutture sociali: la tecnologia potrà essere realmente utile per l’emancipazione solamente dal momento in cui si liquideranno le strutture classiste e statali che ingabbiano l’uomo e i prodotti del suo ingenio nei cicli di accumulazione di capitale e, di conseguenza, di mercificazione dell’esistente, qui comprendendo anche la distruzione degli ecosistemi.
Quindi si: i primitivisti sono dei reazionari negando la la necessista’ storica della liberazione dal capitale e dal dominio e la capacita’ di operarla e proponendo una visione mistica e idealizzata di un supposto «stato di natura» a cui l’uomo dovrebbe tornare. Non solo: nel comunicato di Incubo Mecccanico vediamo abbozzata una vera e propria mistica del dolore, spacciato per naturale e quindi giustificato come necessario. Nulla da invidiare alla cattolica mortificazione delle carni.
Viene scambiata la scienza per un moloch composto da una collezione di nozioni quando in realtà essa è un metodo sorto dal superamento delle visioni offerte per un millenio abbondante dalla patristica cristiana. Eh, che brutta la scienza che ci ha permesso di comprendere che è la terra a girare intorno al sole e non il contrario! Che cosa malvagia la genetica che ci ha permesso di dimostrare in modo inconfutabile che la specie umana non è divisa in razze e che non si trova al centro del creato, facendo gradualmente stracci dell’antropocentismo! O tempora, o mores!, dove sono andati i vecchi costumi di una volta quando i negri erano negri, il genere era legato al sesso biologico e si prestava fede ai preti? Viene da chiedere ai primitivisti: avete intenzione di darvi alla necromanzia per resuscitare un dio morto e decomposto? Evidentemente si. E d’altra parte la mistica del dolore e della morte accomuna il primitivismo alla varia pretaglia. Il “prostrarsi alla scienza di una parte del “movimento” anarchico” poi è davvero una cosa che non si può sentire. Ma uno scritto di Kropotkin o di Reclus costoro lo hanno mai aperto? Malatesta, chi era costui? Bookchin? Non pervenuto allo studio. Una domanda sul perchè uno dei simboli classici dell’anarchismo sia una fiaccola impugnata da un proletario se la saranno mai posta? Ferrer l’avranno mai sentito nominare?
Ribadiamo: i primitivisti sono dei reazionari che si ammantano di vesti neroverdi in luogo di quelle porporate. E sono, essendo reazionari, anche autoritari: mentre né io né altri compagni che si occupano del legame tra anarchismo e scienza ci sogniamo di imporre tecnologie a chicchessia voi auspicate di imporre una vita di merda a chiunque. E si, ribadisco: vita di merda. Provate a fare stare un diabetico senza microinfusore di insulina e vedete quanto ci mette a infilarvi una canna di pistola in bocca: il tempo di rendersi conto che sta per morire male. Provate a togliere la respirazione assistita o un peacemaker a chi ne ha bisogno. Vi salterebbe addosso chiunque abbia a cuore la sopravvivenza con uno standard di vita accettabile e dignitoso di chi si è trovato svantaggiato da una condizione clinica.
A quanto pare per costoro la morte, la sofferenza fisica, l’abbruttimento sono da salvaguardare in quanto naturali, sono sacri, intoccabili. Qualcunno vuole campare “libero e selvaggio senza tecnologie”? Prego, si accomodi. Non saremo di certo noi a impedirglielo. Ma non vengano a imporre di soffrire a chi invece vorrebbe vivere bene grazie ai frutti dell’ingenio umano. Facile esaltare la naturalità della morte e della sofferenza dall’alto del proprio privilegio di persone in buone salute, vero? Morire per un’idea, si, ma di morte lenta!
Io e chi si occupa del legame tra scienza e anarchismo viene accusato di essere peggio dei nazisti. Ma pensano coloro che vogliono buttare a mare la scienza medica di essere molto differente con i suoi progetti di eugenetica passiva e generalizzata da un Karl Brandt? La differenza sta nel fatto che questi almeno aveva il coraggio di rivendicarsi i propri crimini, di dire chiaramente «solo chi e’ in salute, fisica e mentale, merita di vivere». Molti primitivisti forse neanche si rendono conto di proporre, nei fatti, un gigantesco progetto di eugenetica passiva, di proporre la lenta agonia di chi ha bisogno di respirazione assistita o di farmaci. O almeno spero che non se ne rendano conto: altrimenti non resterebbe che considerarli come dei criminali al pari di chi impedisce, in nome del proprio profitto, l’accesso alle migliori cure a chi ne abbisogna.
E ribadiamo: il primitivismo e’ regressivo sulla questione di genere. La tecnologia e la scienza sono quelle che permettono a chi si trova in una condizione di disforia di genere di operare modifiche sul proprio corpo grazie a interventi chirurgici e assunzione di ormoni. Gli si vuole negare questa libertà, la libertà di intervenire sul proprio corpo, di vivere una vita più piena, più felice. Lo si vuole costringere a essere alieno a se’ stesso, al pari della rumaglia clericale.
Non parliamo poi delle tematiche antispeciste: gia’ prima rilevavo come la negazione della metodologia scientifica riporti immediamente a una visione antropocentrica ma posso tranquillamente, e senza timore di smentita, aggiungere che il primitivismo renda completamente impossibile un rapporto interspecie che non sia basato sull’asservimento degli animali non umani. L’antispecismo si basa necessariamente su una base tecnologica che permetta la fine dello sfruttamento animale. Senza agricoltura intensiva, o senza agricoltura tout court, per forza di cose si e’ costretti ad ammazzare animali per scopi alimentari.
La questione di classe neanche la nominiamo: senza tecnologia si e’ costretti a lavorare come muli alla macina, si e’ costretti alle piu’ abiette forme di sopravvivenza, ovvero al contrario della vita.
La seguente traduzione di questo articolo (o forse meglio dire saggio breve) apparso orginariamente su CrimethInc, diviso in due parti verrà pubblicata su Umanità Nova numero 11 e numero 12 anno 97.
Qua invece il podcast della chiaccherata fatta sulle frequenze di Radio Black Out, nel programma Anarres
Introduzione
Il seguente testo, apparso con firma PG a dicembre 2016 sul sito di CrimethInc, importante network anarchico americano, analizza l’identità politica di Donald Trump e della sua cricca. La tesi principale del testo è che la presidenza Trump non rientra nei canoni del fascismo storicamente inteso ma rappresenta l’affermazione dei valori della whiteness, l’identità bianca che attraversa una forte crisi dovuta all’evoluzione del sistema sociale della cui la whiteness stessa è stata garante: il sistema di dominio democratico e capitalista negli Stati Uniti d’America. Ne presentiamo la traduzione, a cura di Luca Phi e Lorcon, in quanto è un testo estremamente interessante che permette di muovere una critica da posizioni rivoluzionarie a quel filone di pensiero che relega tutte le politiche di destra nella macrocategoria del “fascismo”, a-storicizzando questo termine e contemporaneamente, seppure spesso in buona fede, fornendo un paravento all’ideologia democratica intesa come combinazione tra stato di diritto e sistema economico basato sulla merce e l’accumulazione di capitale. Il termine whiteness è stato reso in italiano con “identità bianca” ma è un termine di difficile traduzione in quanto dentro di esso si annida un intero mondo: prendendo spunto dai temi dei cultural studies della seconda metà del ventesimo secolo ci si è cominciato a porre il quesito di come un’insieme di popolazioni, di origine e cultura eterogenee, siano arrivate ad autoidentificarsi come “bianchi” e di come questa autodefinizione sia legata alle condizioni materiali, di come, insomma, sia storicizzabile il concetto di identità bianca.
Il fascismo è obsoleto, l’identità bianca è qua per restare
Da ben prima della recente vittoria elettorale di Donad Trump si è levato un coro crescente di voci su di un possibile ritorno del fascismo. Per quanto il Trump sia terrificante è importante non livellare qualsiasi critica nei suoi confronti e, nonostante il suo epiteto favorito, “assolutamente disgustoso”, gli si adatti come un guanto l’accusa di fascismo è inaccurata.
Dal momento in cui siamo interessati a produrre analisi che permettano di costruire una resistenza effettiva, e non solamente a polemizzare in modalità Twitter, è nostro compito esaminare quale modello del pensiero di destra Trump stia seguendo.
La mia ipotesi è che il fascismo è stato reso definitivamente irrilevante dalla Seconda Guerra Mondiale e dal periodo immediatamente successivo in cui è stato completamente assorbito dalla democrazia capitalista. Dal 1945 in poi, ovvero da quando le armate alleate smantellarono lo stato nazista e reclutarono gli elementi nazisti considerati come utili, il fascimo non è stato niente altro che una retroguardia in un sistema che è intrinsecamente definibile come democratico. Il futuro, ovviamente, può essere pieno di sorprese ma è necessario ben altro di una vittoria di Trump per rendere il fascismo necessario in un paese al centro dell’ordine mondiale capitalista come gli Stati Uniti d’America.
Uno dei pochi partiti contemporanei realmente neo-fascisti che è apparso sulla scena nell’ultimo decennio è Alba Dorata in Grecia. Fedeli al modello originario dei partiti fascisti Alba Dorata combina una struttura partitica con una struttura paramilitare presente nelle strade, recluta i suoi uomini tra la polizia e i militari per creare strutture fedeli al partito, si connette con la frazione capitalista della borghesia e con la criminalità organizzata con l’obiettivo di creare un doppio potere in grado di attuare sia intimidazioni che di superare il sistema di bilanciamenti istituzionali delle istituzioni democratiche e dei media di massa. In molti hanno pensato che Alba Dorata avrebbe potuto prendere direttamente il potere e hanno di conseguenza immaginato un ritorno del fascismo. Alba Dorata prediceva lo stesso scenario, nella sua ignoranza del proprio stesso ruolo all’interno di un sistema democratico. Fin quando il partito neofascista ha agito nel senso di spingere l’opinione pubblica a destra, creando capri espiatori per la crisi sociale greca, uccidendo immigrati e attaccando anarchici e altri rivoluzionari è stato tollerato.
Ma dal momento in cui il partito ha rivelato la propria sincerità nei mezzi scelti per accedere al potere e ha dimostrato la propria volontà di usare la violenza verso elementi non marginali della società [1] il potere democratico è entrato in campo: la dirigenza del partito è stata arrestata e il partito stesso è stato parzialmente escluso dai dibattiti che definiscono quale è il discorso pubblico acettabile. Il fascismo non ha nessuna possibilità nei confronti degli stati democratici e una qualsiasi gang di neo fascisti che non riesce a comprendere che il suo ruolo è solo quello di essere uno degli strumenti disponibili nella scatola degli atrezzi del potere democratico è destinata a fallire.
In Spagna, un altro dei paesi europei maggiormente colpiti dalla crisi, i partiti neo-fascisti o critpo-fascisti sono collassati negli anni recenti e in Italia e Regno Unito l’estrema destra ha seguito un modello che appoggia sulla partecipazione ai meccanismi democratici. Da un punto di vista strutturale il partito progressista e populista SYRIZA ha più in comune con il modello fascista di quanto non abbia in comune il Partito Repubblicano di Trump: connessioni organiche con gruppi extraparlamentari con una grossa capacità di mobilitazione, unificazione di discorsi di estrema destra ed estrema sinistra, una visione socialista-nazionale, patriottismo e militarismo [2]. Non è definibile come fascista qualsiasi visione di destra. Il fascismo è un fenomeno complesso che vede la mobilitazione di un movimento popolare sotto la direzione gerarchica di un partito mentre vengono create connessioni con le strutture poliziesche e militari, con l’obiettivo di conquistare il potere con mezzi democratici o militari. Di seguito vengono aboliti le procedure elettorali con lo scopo di garantire la continuità di un sistema a partito unico, viene creato un nuovo contratto sociale con la classe lavoratrice nazionale, da un lato inaugurando standard di vita più alti rispetto a quelli garantiti nel precedente sistema liberal-capitalistico e dall’altro garantendo ai capitalisti una rinnovata pace sociale. Vengono poi eliminati i nemici interni che sono stati accusati di avere destrabilizzato il precedente regime. Trump ha dimostrato disprezzo per le convention democratiche minacciando di intimidire gli elettori e suggerendo che potrebbe non accettare una sconfitta elettorale ma il suo modello di conservatorismo non abolisce in nessun modo i meccanismi fondamentali della democrazia.
Da qua a quattro anni saremo soggetti a un nuovo circo elettorale. Trump ha fatto appello sopratutto a poliziotti e guardie di confine ma non ha cercato di portare la polizia in una struttura paramilitare e parastatale per cementificare il proprio potere. Ha strizzato l’occhio al movimento delle milizie e solleticato il Ku Klux Klan ma non ha fatto nulla per centralizzare questi gruppi in un forza paramilitare sotto il suo stesso controllo. Ha promesso un nuovo contratto sociale per i lavorati ma non farà mai passi in quella direzione e, qualsiasi siano le sue intenzioni, si dimostrerà impossibilitato nel garantire alla classe dominante pace sociale. Renderà più difficile la vita per quelli che identifica come nemici della società, musulmani e immigrati, ma non li eliminerà.
Nei fatti non c’è nulla di fascista in Trump
L’ascesa al potere di Trump è legata a una forza sociale che ha predato il fascismo e lo ha superato. Rimane da capire esattamente quale tra i modelli di conservatorismo che l’insolente egomaniaco vorrà implementare ma il suo incoraggiamento per l’identità bianca come meccanismo reazionario per il controllo sociale è assolutamente chiaro. Nei secoli intercorsi tra Cristoforo Colombo e George Washingtone nei laboratori delle piantagioni irlandesi e brasiliane, nelle deportazioni di massa operate dalla Spagna nella riduzione in schiavitù delle masse africane, l’idea di razza bianca è stata creata per categorizzare e controllare i soggetti di un ordine mondiale che si stava globalizzando.
Di fronte alle insurrezioni che vedevano gli schiavi africani, gli europei soggetti a impauperimento costretti a migrare oltre Atlantico e gli indigeni sotto attacco combattere insieme contro i propri comuni nemici il potere coloniale ha emanato leggi tese alla creazione di un cerchio concentrico di barriere religiose, culturali, economiche, giudiziare, istituzionali e biologiche per rompere la solidarietà tra gli oppressi [3]. L’identità bianca è diventata la proiezione dei valori dell’Illuminismo Europeo, la nuova normatività e coloro che non rientravano in questa definizione sono stati sottoposti a un processo di razializzazione e forzati a occupare gli scalini più bassi della gerarchia sociale. Coloro che non accettavano il loro posto nel nuovo ordine-del-mondo sono stati fatti sparire, in un modo o nell’altro. Storicamente il razzismo è un fenomeno globale unitario ma è stato usato differentemente in differenti angoli del modno. Nelle colonie che poi sono divenute gli Stati Uniti d’America l’identità bianca ha avuto un ruolo paramilitare vitale fin da subito.
Una piccola minoranza di proprietari fondiari che brutalmente sfruttato la propria forza lavoro e portato avanti una costante guerra genocida nei confronti delle popolazioni native ha dato ruolo a una strato medio della popolazione, povero ma privilegiato, di combattere le proprie guerre e di rimanere costantemente vigile verso rivolte e sconfinamenti.
I privilegi, a seconda del punto di vista, erano insignificanti o fondamentali. Questi privilegi includevano il privilegio psico-sociale di essere considerati umani, che non era male per dei poveri provenienti da un’Europa dove l’aristocrazia non aveva mai utilizzato la categoria di “umanità” e raramente, se non mai, ha cercato di stabilire un’identità comune con i propri subordinati, diversamente da quanto fece la nozione di identità bianca.
Un’altro importante privilegio è stato quello del diritto ad avere proprietà. Per la maggior parte dei bianchi questo signficava una o due cose: avere il diritto di vendere la propria forza lavoro in cambio di un salario o avere il diritto ad accedere alle terre rubate ai nativi dove avrebbero potuto creare fattorie per pochi anni prima di cadere nella spirale del debito per poi vendere la propria terra ai grandi proprietari fondiari, migrare verso ovest e ripetere il processo. Descrivere questo processo non ha l’obiettivo di genere simpatia per i “bianchi” ma di illustrare come facilmente, ieri come ora, le masse possono essere illuse. Economicamente non era considerabile un grande affare per la maggior parte dei bianchi ma lo diventava se si considerano le forme di sfruttamento e dispossessamento riservate per gli africani e i nativi americani. Il diritto astratto alla proprietà raramente si è trasformato in un reale arricchimento personale ma garantiva il diritto di non divenire proprietà di qualcun altro e di non avere la proprie intera comnità dispersa e obliterata in un atto di conquista.
Roxanne Dunbar-Ortiz ha documentato il ruolo chiave dei rangers bianchi che è stato giocato nella costante e totale guerra contro i nativi nel suo Indigenous Peoples’ History of the United States e il ruolo dei bianchi poveri nelle pattuglie che sorvegliavano gli schiavi africani [4] e davano la caccia ai fuggitivi, pattuglie che si sono poi evolute nelle moderne forze di polizie, è esposto in libri quali Our Enemies in Blue.
Simultaneamente i poveri di origine europea che rompevano con l’idea di identità bianca per combattere in modo solidale con gli altri oppressi venivano puniti con tutta la forza della legge e qualsiasi forma di meticciamento tra bianchi e altri veniva scoraggiato se non criminalizzato.
L’identità bianca odierna continua a svolgere il suo ruolo paramilitare in un modo diffuso, informale, completamente differente rispetto a quanto potrebbe manifestare un movimento fascista.
La diversità ideologica – alcuni direbbero confusione – e le molte contraddizioni del movimento delle milizie riflette la mancanza di un’organizzazione centralizzata.
Quello che è più chiaro di questi gruppi di cittadini armati – che definiscono alternativamente gli immigrati di origine latino americana, i musulmani o il governo federale come il proprio principale nemico – è che in molti cittadini appartenenti alla classe medie e alla classe lavoratrice si sentono chiamati a proteggere e a servire [slogan delle forze di polizia in molti stati, n.d.t.]. Chi gli abbia esattamente dato mandato non è chiaro ma quasi unanimemente si identificano come bianchi o, nel caso di pochi neri e latini presenti nel movimento, con la propria americanità, una forma di identità che è fin dalle sue origine una forma maggiormente inclusiva di identità bianca [pensiamo ai famosi house niggers denunciati da Malcom X n.d.t.].
La questione dell’identità razziale ha giocato un importante ruolo nell vittoria di Trump. Al di là del fatto che un numero disproporzionato di bianchi voti repubblicano gli studi hanno dimostrato come l’identificazione come bianchi e il settirsi minaciati da altri gruppo [razziali n.d.t.] è stato un fattore segnante per la maggiore probabilità di una persone di origine europea di esprimere il proprio supporto elettorale per Trump [5]. Nonostante la narrativa della vittimizzazione impostata dal miliardario Trump – che i media hanno ampiamente diffuso – sia francamente patetica l’identità bianca negli Stati Uniti è certamente di fronte una crisi. È in crisi non perchè “i bianchi stanno diventando una minoranza” o altre fantaparanoie suprematiste ma perchè negli ultimi decenni la funzione paramilitare dell’identità bianca è stata largamente assorbita dal crescente potere che il governo può dispiegare con giudici, prigioni e le burocrazie che governano lo sviluppo urbano. Quello che ieri doveva essere fatto con una folla di linciatori ora può essere ottenuto con la burocrazia e, paradossalmente, un uomo nero [Obama, n.d.t.] può avere la responsabilità di tutto l’apparato.
Non penso che la presidenza Obama abbia cambiato la situazione per la popolazione afroamericana negli Stati Uniti eccetto che da un punto di vista psicologico che io, in quanto bianco, nonsono nella posizione di considerare. È chiaro comunque che i razzisti dell’intero paese siano usciti dall’armadio nel momento in cui Obama ha preso l’incarico alla Casa Bianca. I media hanno spesso suggerito che gli appelli di Trump ai bianchi siano stati efficaci a causa della situazione economica: la classe lavoratrice bianca si è sentita minacciata dal momento in cui la sua posizione sociale e i suoi privilegi declinano, e così la storia procede.
È mia opinione che è la funzione paramilitare costitutiva dell’identità bianca che è in crisi e questo ha mobilitato un gran numero di voti dei bianchi per Trump. Il fatto che gli afroamericani siano diventati più poveri sotto la presidenza Obama ha fatto si che una parte degli afroamericani stessi si sia tenuto lontano dalle urne.
Le milizie di frontiera [formazioni paramilitari autonome che pattugliano il confine con il Messico n.d.t.] sono un’espressione della mentalità paramilitare. Un’altra espressione, il movimento pro-polizia che si è diffuso dopo l’insurrezione di Ferguson, contiene un istruttivo paradosso: la resistenza contro le violenze poliziesche è stata fonte di grande instabilità per il governo statunitense e ha anche messo in discussione lo storico diritto sacralizzato della polizia di uccidere gli afroamericani. I reazionari bianchi hanno risposto alla chiamata alle armi per difendere un sistema oppresivo e, in generale, questi attivisti pro-polizia sono stati associati con il campo trumpista. Hanno condotto attacchi contro i manifestanti di Black Lives Matter e hanno provato a ricostruire l’immagine rovinata della polizia. Ma sono anche entrato in conflitto con la polizia stessa. Al contrario di quanto sostenga il white-washing pacifista di alcuni supposti, sedicenti e autonominatisi leader di Black Lives Matter sparare ai poliziotti è sempre stato parte della resistenza urbana degli afroamericani, prima, durante e dopo Ferguson. Per quanto i medio parlino di Martin Luther Kings e non di Robert Williams [organizzatore del movimento per i diritti civili in Nord Carolina che aveva creato delle milizie di autodifesa delle comunità nera, n.d.t.] la resistenza afroamericana negli ultimi trecento anni ha spesso avuto avuto una tendenza orientata all’autodifesa e all’autonomia più che verso l’integrazione democratica e le tensioni tra queste tendenze possono essere viste ancora oggi tra i differenti strati sociali delle comunità afroamericane.
D’altra parte è pur sempre vero che sono di più i poliziotti coinvolti in scontri a fuoco con bianchi [7] e che vi è stata un incremento delle imboscate contro la polizia da parte di bianchi di destra. Spesso color che hanno organizzati questi agguati hanno espresso il desiderio di difendere tramite i loro attacchi i valori tradizionali e l’America. Molti reazionari che difendono l’identità bianca sono convinti che vi sia un governo sempre più autoritario che gli impedisce di svolgere il loro compito storico. Quando la società americana sembrava stabile e i “valori americani” trionfanti a livello globale, alla fine della guerra fredda, l’apparente obsolescenza dell’identità bianca provocava ben poca preoccupazione. Ma con l’aumento della precarietà economica, le grandi proteste di afroamericani, latinoamericani e popolazioni indigene che si diffondono in tutto il paese e l’instabilità sistemica che generano una crescente ansia la popolazione bianca si trova ad aspettare una chiamata alle armi che non arriva. I tradizionali portavoce di entrambi gli schieramenti dell’élite politica – i reazionari vecchi maniera nostalgici della segregazione razziale così come i progressisti illuminati con la loro muta di cavalieri bianchi – non parlano di questa crisi. Nei fatti i liberali al governo possono anche pensare di disarmarli, talmente obsoleti sono diventati.
Per quanto i conservatori parlino ancora favorevolmente a proposito del possesso privato di armi è passato molto tempo dall’ultima volta che sono stati mobilitati i cittadini a causa di minacce, interne o esterne. I bianchi sono in crisi non perchè stanno perdendo i loro privilegi economici ma a causa del crescente potere delle strutture statali che usurpa le funzioni paramilitari, storicamente loro prerogativa.
E, per finire, i reazionari che osservano la realtà tramite le lenti distorte delle proprie fantasie razziali deluse non sono aiutati dal fatto che il simbolo di questo dispiegamento di potere statale, Obama, è stato probabilmente il più autoritario presidente di sempre se misurato in termini di programmi di sorveglianza, omicidi tramite droni, deportazioni, persecuzione di whisteblower [coloro che hanno divulgato segreti di stato, come Chelsea Manning, n.d.t.] con gli strumenti giudiziari dell’Espionage Act del 1917, informatori dell’FBI, il supporto a film che ritraggono la tortura come necessaria nella così detta Guerra al Terrore, protezione delle prigioni segrete della CIA dalla supervisione giudiziaria eccetera. Per quanto lo stato non detenga al momento il monopolio dell’uso della forza per sua natura aspira a conquistarlo. Un governo che deve controllare una società volatile in cui le più gravi contraddizioni sono interne – per esempio l’avere colonie interne in luogo che esterne – coloro che sono al potere non esiteranno a mobilitare parte della popolazione come pramilitari.
Ma come le istituzioni crescono in potere e risolvono le contraddizioni che precedentemente le minacciavano lo stato tenderà a disarmare la popolazione e a trasformare i linciaggi in questioni burocratiche.
I cittadini avranno sempre meno possibilità di partecipare alla democrazia, e per quanti i cinici possano considerare gli omicidi e il vigilantismo come una forma di attivismo civico, la storia delle democrazie da Socrate a Birminghan confermano questa visione. Il servizio militare che, al di là di qualsiasi eufemismo, significa uccidere i nemici dello stato è sempre stato il marchio più evidente del cittadino. Così come le grandi aziende hanno adottato metodi dal movimento cooperativo con lo scopo di creare salariati più felici i governi, talvolta, lasciano che i propri cittadini giochino a fare poliziotti e boia se questo li fa sentire maggiormente potenti. Ma più il potere diventa razionalistico e più difficile diventa gestire la partecipazione di non specialisti che non hanno avuto un’istruzione che permetta loro di padroneggiare gli strumenti della burocrazia e per i bianchi patriottici che affrontano il Tramonto dell’America e si immaginano come i discendenti dei pionieri, cavalieri a fianco delle polizie questo è un fallimento. Questa è la natura della crisi dell’identità bianca. Prima di Trump il movimento del Tea Party ha iniziato a parlare di crisi dell’identità bianca ed è stato premiato con un certo supporto elettorale. Trump ha semplicemente indicato in modo più esplicito questa ansia e le ha datto una piattaforma più ampia. Che i repubblicani o altri provino ad organizzare questi cittadini paramilitarizzati per aiutare lo stato a vincere l’attuale fase di instabilità è tutto da vedere, nonostante il cinismo dei politici democratici ci fa pensare che il presidente non è affatto sincero nei suoi discorsi di odio fatti durante la campagna elettorale. Continuerà a incoraggiare il bigottismo ma difficilmente incoraggerà o permetterà ai suprematisti bianchi di coalizzarsi in un potere parallelo a quello dello stato. I crimini d’odio razziale aumenteranno ma coloro che li commetteranno rimarranno disorganizzati.
Se vi sarà una crescita o una centralizzazione dei gruppi paramilitari coloro che negli USA non vogliono vivere in una società razzista basata sui vigilantes dovranno seriamente riflettere sulla questione dell’autodifesa. La soluzione del Partito Democratico – evitare il conflitto diretto, affidarsi alla polizia e sperare per un cambiamento elettorale dopo quattro anni – non è affatto una soluzione. È una soluzione dalle gambe corte in quanto quattro anni sono un tempo troppo lungo per rimandare questioni quale la sopravvivenza e la dignità, perchè l’idea di un’amministrazione democratica che renda migliori le cose è sinceramente questionabile, e perchè gli stessi poliziotti che teoricamente dovrebbero proteggerci e contenere i supporter di Trump spesso hanno legami con il movimento delle milizie.
In ogni caso anche se i repubblicani avessero perso le elezioni Ferguson ha reso evidente che la questione dell’autodifesa è ancora fondamentale [8] sopratutto per gli afroamericani, ma anche per tutti i non bianchi, per i poveri e per coloro che vogliono resistere al potere dello stato.
Un suprematista bianco potrebbe facilmente chiedersi: “A che cosa servono le folle di linciatori quando ci sono i poliziotti?”. Questo non vuol dire volgarizzare e sminuire le pratiche terroriste che i paramilitari e i vigilantes implementano con crescente frequenza ma illustrare come il razzismo non viene da gruppi marginali della società ma è la base e il cemento delle istituzioni che ci controllano. L’autodifesa è la questione cruciale che i media e i politici si rifiutano di prendere in considerazione e che noi dobbiamo con urgenza trasformare in una pratica natura.
Una risposta di massa alla vittoria di Trump ha bisogno di prendere in considerazione il tema dell’identità bianca. Deve essere chiaro che dopo cinquanta anni dalla supposta vittoria del Movimento per i Diritti Civile la proposta progressista di un’identità bianca sensibile e tollerante non è una soluzione ma solo un modo per posporre il problema.
L’identità bianca deve smascherata per quello che è ed estirpata. A questo è qualcosa che nessun partito politico può fare.
Quale politico potrebbe vestirsi culturalmente con il mantello di George Washington sapendo che questi era il più grande proprietario di schiavi del suo tempo, l’architetto della campagna genocida verso le Sei Nazioni, che lo nominarono il “distruttore di città”?
L’identità bianca è stata creata per distruggere la solidarietà tra gli oppressi e per incoraggiare la lealtà verso i padroni. Nelle lotte di mezzo secolo fa l’identità bianca ha operato sia a destra che a sinistra. Tra i conservatori significava indossare lenzuola bianche e per i progressisti significava controllare l’agenda politica dei riformisti del Movimento tramite finanziamenti e copertura mediatica selettiva. Con l’ondata dell’insurrezione che si è accesa a Ferguson i costumi sono cambiati ma i ruoli sono gli stessi. L’industria del counseling per bianchi con sensi di colpa è l’armata degli alleati passivi, dei rinforzi dell’identità bianca. Nelle strade di Ferguson e di altre città abbiamo visto come si completi la funzione paramilitare di disarmare le persone di colore e prevenire che i bianchi prendano direttamente parte alle ribellioni dove le divisioni razziali tendono a scomparire.
Nei giorni precedenti alle elezioni in molti si sono dati alla frenetica attività sui social media dicendo che i bianchi che hanno assunto posizioni astensioniste lo hanno fatto in base a una posizione privilegiata in quanto la vittoria di Trump avrebbe danneggiato principalmente le persone di colore.
Questa non è stata niente altro che una vergognosa manipolazione fatta in favore del Partito Democratico ed è stata svelata dallo stesso risultato elettorale: le stesse persone di colore non si sono sentite motivate dai potenziali e supposti benefici di una possibile vittoria della Clinton e in moltissimi non hanno votato.
Gli attivisti da social network – in larga maggioranza bianchi con una buona educazione che hanno avuto accesso al potere dichiarandosi alleati di gruppi di oppressi suppostamente omogenei – non rappresentano le comunità di non bianchi. Così come chiunque altro loro parlano solamente per sé stessi, in linea con i propri interessi, e i risultati delle elezioni dimostrano che i loro sensi di colpa da bianchi sono una parte fondamentale del loro discorso politico. Chi annuncia una preferenza elettorale in base ai propri sensi di colpa, tesi a rafforzare la propria identità, è chi era nelle strade di Ferguson a lavorare fianco a fianco della polizia per restaurare l’ordine. Sono gli stessi che erano sui social media a promuovere un Partito Democratico elitista.
La natura della loro partecipazione ai conflitti sociali va espressa chiaramente prima che mobilitino nuovamente la loro potente e paralizzante retorica.
I bianchi possono compiere il loro compito storico senza usare un linguaggio razzista e quando un suprematista bianco parla per bocca di un capo della polizia afroamericano o tramite un sindaco afroamericano, dicendo alle persone di abbandonare le proteste e tornare a casa questi sta riproducendo un sistema basato sul razzismo.
L’identità bianca è una questione di guerra. Ci sono migliaia di possibili forme di ammutinamento ma tutte si basa sul riconoscere che è in corso una guerra.
Scenari globali differenti
Dobbiamo considerare la possibilità che la presidenza Trump si riveli né più né meno come una classica presidenza repubblicana. Non è mai un uomo solo che governa, ma semmai una burocrazia tentacolare. C’è più continuità che cambiamento nel cambio da un’amministrazione ad un’altra. Perfino in un colpo di stato volto a sostituire una democrazia con una dittatura c’è una sorprendente continuità istituzionale. Trump è una figura roboante, ma non può governare da solo. Anche se avesse l’intenzione di portare a compimento tutte le promesse elettorali, non può fare nulla che le istituzioni esistenti non siano progettate per fare e può fare ben poco senza il supporto del partito Repubblicano.
Naturalmente queste non devono essere viste come parole di conforto. Come ci rivelò il processo ad Adolf Eichmann, una burocrazia è una cosa totalmente mostruosa, che allo stesso tempo può emettere documenti d’identità o caricare intere popolazioni su carri bestiame, praticare l’eutanasia o utilizzare le camere a gas. Per aprire un varco nella politica d’urto che caratterizza questo periodo, vale la pena far notare che gli Stati Uniti hanno già costruito un muro sul confine messicano e che per gli immigrati musulmani senza soldi entrare nel paese è già estremamente difficoltoso. Nella sua prima settimana da presidente eletto, Donald Trump ha già iniziato a fare marcia indietro su certe promesse chiave della sua campagna elettorale, nel passaggio dall’essere vincitore delle elezioni alla necessità di dover formare un governo. Sta vivendo lo stesso processo nel quale sarebbero passati Hillary Clinton, Bernie Sanders o Jill Stein se avessero vinto loro. La mia tesi semplicemente è che, per prepararci alla presidenza Trump, dovremmo distinguere tra gli orrori vistosi della campagna elettorale di uno showman misogino e razzista e gli orrori silenziosi di uno stato chiamato a prendere decisioni politiche.
Quindi prevedere i risultati della presidenza Trump basandosi sui proclami elettorali è un affare rischioso, ma d’altro canto le elezioni sono uno dei pochi momenti nei quali lo stato ci mostra un’anteprima dell’evoluzione delle proprie strategie e negli USA il tempo che intercorre tra la vittoria alle elezioni e l’insediamento è particolarmente lungo. Per questo se c’è anche solo una possibilità che la speculazione su queste promesse elettorali può aiutarci ad arrivare maggiormente preparati, vale la pena tentare. Avendo già trattato il tema del suprematismo bianco, vorrei affrontare le seguenti questioni: democrazia, geopolitica, sfruttamento economico ed ecocidio. Direi che, negli ultimi dieci anni, molti dei più importanti movimenti sociali sono stati cooptati o sconfitti con mezzi democratici e questa cosa non verrà meno neanche in un mondo dove gli Stati Uniti saranno governati da Trum
E’ comprensibile il motivo per cui molta gente vorrebbe rivendicare la parola “democrazia”, nonostante tutte le inesattezze storiche o le amnesie che questa pretesa comporta (specialmente quando si parla di “recuperarla”, come se la democrazia fosse sempre stata qualcosa di differente rispetto a ciò che è oggi). Il potere al popolo può essere un concetto allettante, soprattutto se non si spacchetta il significato di ognuna delle due parole – potere e popolo – e, in generale, è sempre più facile comunicare con le persone utilizzando un linguaggio mainstream. Per la maggior parte della gente, democrazia è semplicemente sinonimo di libertà. Le critiche alla democrazia vengono espresse con sempre maggiore frequenza, mentre le tattiche comunicative populiste dei movimenti democratici di base hanno fallito più e più volte. Degli enormi movimenti orizzontali sono stati reistituzionalizzati in Grecia, Spagna, Egitto ed altrove, mentre politici progressisti, o più semplicemente intelligenti, hanno reindirizzato alle urne le richieste di cambiamento e di un miglioramento della democrazia. Le chiamate alla democrazia funzionano come una leva o come una catena di montaggio lungo la quale i movimenti orizzontali extraparlamentari possono essere raggruppati e rispediti indietro nella fornace della democrazia rappresentativa ed istituzionale. Non si tratta di un fenomeno prettamente di sinistra. I destrorsi di Italia e Regno Unito hanno utilizzato il referendum popolare, uno strumento perfino più democratico del voto, per imporre le loro agende. Negli Stati Uniti, in un certo numero di stati, gli ultra conservatori hanno usato il referendum per discriminare le persone queer e transessuali o per limitare l’accesso alla pratica dell’aborto. Nei fatti, il movimento del Tea Party, i cui resti Trump ha mobilitato per la corsa verso il potere, era in un certo qual modo un movimento democratico di protesta che faceva appello ai valori fondanti del governo degli Stati Uniti innalzando grida contro la corruzione della classe politica.
La natura anfibia del concetto di democrazia ed il fatto che sia l’estrema destra che l’estrema sinistra la reclamino a gran voce dovrebbe essere motivo di preoccupazione. Ed è probabilmente questa la ragione per la quale si prova a dipingere la candidatura di Trump come un fenomeno fascista. In un contesto di transizione da un presidente nero ad uno apertamente razzista, sembra pertinente chiedersi come mai la gente è ancora innamorata di un sistema di governo che sorse in una società basata sulla schiavitù. Questo spiegherebbe come mai la destra ami così tanto la democrazia, ma che dire delle persone che dicono di opporsi al capitalismo, al suprematismo bianco e all’ecocidio? Nel futuro immediato continueranno le istanze per la democrazia continueranno a far nascere, motivare e quindi istituzionalizzare i movimenti sociali. Ma lo shock causato alle figure istituzionali dalla vittoria a sorpresa di Trump apre una finestra su di un futuro alternativo. Solo perché la democrazia è l’attuale strategia dominante per mantenere il potere e tenere sedato il popolo, questo non vuol dire che sarà sempre così. Quando l’insicurezza degli investitori ha causato il crollo dei mercati all’indomani della vittoria di Trump, diversi mezzi di comunicazione occidentali hanno rimarcato, senza condiscendenza e senza dare giudizi, la dichiarazione dell’agenzia di stampa statale cinese Xinhua: la vittoria di Trump ci mostrava come la democrazia era rotta. Durante la campagna elettorale, più di un giornale di media importanza negli States ha evidenziato l’assurdità di una parte del sistema elettorale, suggerendo che una tecnocrazia sarebbe stata più razionale. Così, visto che gran parte delle nostre vite sono già organizzate da istituzioni tecnocratiche, perché non sbarazzarsi dello spettacolo di un manipolo di politici che non è qualificato a fare assolutamente nulla? Parallelamente a questo scetticismo crescente, gli investitori di tutto il mondo hanno sicuramente notato come lo stato cinese centralizzato ha superato la crisi e prevenuto lo scoppio della gigantesca bolla immobiliare molto meglio di come abbiano fatto gli stato occidentali democratici. Per ora, con Trump che ha abbandonato le sue posizioni più estremiste e con gli investitori che hanno iniziato regolarsi, parrebbe che si sia placato il chiacchiericcio ardito sulla svolta autoritaria, ma rimane comunque un possibile scenario per il futuro. Fino a che gli investitori riusciranno a fare soldi nel sistema attuale, rifiuteranno cambiamenti estremi, ma se il modello americano di democrazia liberale non riuscirà a rendere il mondo più sicuro per il capitalismo durante le prossime crisi, gli appelli alla democrazia diverranno anacronistici e pure controproducenti.
Questo ci porta alla questione della geopolitica, dove la presidenza Trump sta già portando i suoi frutti. E’ improbabile che Trump riesca ad abolire il NAFTA; per farlo avrebbe bisogno della cooperazione di tutto il partito repubblicano, che nel complesso è saldamente neoliberista fondamentalmente come qualsiasi altro partito al mondo che abbia più del 10% dei consensi. Pare anche che il TTIP con l’avvento della presidenza Trump sia già morto, ma vi sono buone probabilità che si rimangi le promesse elettorali e resusciti una zona di libero scambio nel Pacifico prima che la Cina monopolizzi la regione con il suo accordo, il RCEP. Ai protezionisti non restano che un paio di misure simboliche da mettere in atto prima di rischiare di distruggere le economie di cui dispongono. Più larga è un’economia, e più essa è integrata a livello globale, tanto più in un sistema capitalista. Se Trump tenterà una guerra commerciale con la Cina rovinerà l’economia statunitense. L’unica soluzione praticabile nell’attuale sistema è la velocizzazione di questa corsa al successo, riducendo le barriere commerciali (come le protezioni ambientali), tagliando i costi del lavoro ed aumentando la produzione. Oggigiorno è molto più realistico proporre l’abolizione del sistema industriale e delle economie basate sulla valuta che parlare di riformare o limitare il capitalismo. Pertanto Trump non ha molte opzioni. O seguirà questo programma o distruggerà l’economia degli Stati Uniti mandando la disoccupazione alle stelle se per pura ostinazione continuerà a voler rompere con l’establishment politico. Prevediamo che sarà un altro presidente amico del libero scambio che al massimo implementerà un sistema di incentivi per aumentare leggermente la produttività nazionaleSe Trump riuscirà a mantenere la sua promessa razzista e ad espellere un numero perfino maggiore di immigrati latini rispetto al passato ( e questa è una grande sfida, perché Obama è stato il maggior deportatore di immigrati, frantumando ogni record precedente e rimandando 2,5 milioni di persone nei loro paesi, cifre nove volte superiori rispetto alle stesse di vent’anni fa), questo causerà un enorme innalzamento delle difficoltà economiche nei paesi nei quali le persone farebbero ritorno. L’approccio di Trump con Russia e Cina merita un esame scrupoloso. In uno dei pochi punti dove fino ad ora ha dimostrato coerenza, ha prefigurato un disgelo nelle relazioni con il Cremlino. Nei confronti della Cina ha usato un linguaggio bullesco nel descrivere i suoi piani per affrontare quello che è il principale concorrente economico degli Stati Uniti, tacciandoli di essere dei manipolatori di valuta; ma ha anche avuto un atteggiamento incostante nel supportare gli alleati chiave nella regione, suggerendo che Giappone e Corea del Sud debbano cavarsela da soli. Il suo sostegno spuntato a Taiwan è probabilmente un riflesso della sua totale ignoranza della natura delle relazioni diplomatiche con questo paese. Trump è un isolazionista duro e puro, quindi è difficile predire la sua politica estera, ma la macchina militare americana abbisogna di proiettare più forze nel mar cinese del sud e di farlo nella maniera più efficace possibile, per contrastare l’espansione dello stato cinese, dato che quella è una zona di primaria importanza per la nuova economia più grande del mondo. Se non ci fosse un impegno totale verso questa priorità, che una presidenza Clinton avrebbe ereditato senza dubbio, non sarà possibile evitare il cambiamento degli equilibri di potere nella regione.
Possiamo considerare un dato acquisito il fatto che due paesi non possono terminare le reciproche ostilità fino a che i loro interessi geopolitici confliggono. Al massimo potrebbe migliorare la comunicazione tra le diplomazie. Gli Stati Uniti e la Russia son o impegnate in un aspro conflitto per la supremazia regionale sin da quando l’Unione Europea e la NATO sono cresciute fino al punto da poter attirare nazioni come l’Ucraina e la Georgia, che la Russia naturalmente conta di tenere entro la propria orbita (nel caso della Georgia stabilendo relazioni politico-economiche più strette con Washington piuttosto che unendosi con organizzazioni territoriali occidentali). L’unico modo per porre fine al conflitto sarebbe che Mosca o Washington decidano di non perseguire più strategie di dominio nell’Europa orientale ed in Medio Oriente. E Mosca attualmente gode di una posizione di forza, quindi non avrebbe motivo di farlo. Dalla fine della guerra fredda, nessun governo al mondo è stato obbligato ad allinearsi con una delle due superpotenze. Possono fare come l’Egitto, che corteggia sia Russia che Stati Uniti ricevendo in cambio enormi quantità di finanziamenti militari e, dato che è meno dipendente da un singolo potere, gode di una certa autonomia per perseguire i suoi interessi regionali. La Turchia ci fornisce un ottimo esempio di come uno stato una volta considerato un alleato succube possa ora stringere alleanze e ridisegnare la mappa regionale, destabilizzando la situazione e contrastando le pretese degli Stati Uniti di essere l’unico architetto globale. In questa competizione la Russia e (in un’altra parte del mondo) la Cina hanno un vantaggio enorme, perché a questo punto non hanno bisogno di essere più forti degli Stati Uniti, ma devono semplicemente continuare a crescere e ad estendere la propria influenza, in quanto per gli States mantenere il controllo della situazione rappresenta un’attività esponenzialmente più dispendiosa.
Se il piano di Trump per la Siria può fornire indicazioni, parrebbe intenzionato a ridurre le pretese statunitensi in Medio Oriente, permettendo ad Assad di rimanere in sella e concentrandosi sul meno ambizioso obiettivo di sradicare l’ISIS. Un simile approccio in Asia vorrebbe dire garantire l’integrità territoriale di Giappone e Corea del Sud ma senza cercare di controllare l’espansionismo cinese né sostenere apertamente quelle zone di esclusiva economica che favoriscono gli alleati occidentali. In altre parole, Trump potrebbe avere l’intelligenza (secondo una prospettiva sciovinista) di rallentare le strategie da guerra fredda sempre più costose ed inefficaci volte al predominio mondiale da ottenersi militarmente e decantate come fossero vangelo sia dai repubblicani che dai democratici. Hillary Clinton compresa.
Il pensiero che un magnate immobiliare turpe ed immaturo abbia accesso all’arsenale nucleare è terrificante, ma una presidenza Clinton che avrebbe visto gli Stati Uniti provare a mantenere il loro dominio militare in un mondo che ha reso certe pretese sempre meno possibili avrebbe avuto molte più possibilità di scatenare una guerra nucleare. Non dovrebbe essere una sorpresa che in una società folle, una persona sana di mente può causare il danno maggiore.
Non abbiamo ragione di credere che Trump farà il pistolero o che l’establishment repubblicano riuscirà ad imbrigliare il proprio candidato e a garantire la continuità della politica estera americana. Dovremmo perlomeno considerare tutte le possibili implicazioni delle proposte di Trump, ma se continuerà a reclutare militanti neocon all’interno della sua amministrazione, la sua presidenza finirà per assomigliare a quella di George W.Bush in materia di politica estera, finendo per imbarcarsi in iniziative malconsigliate per espandere il dominio a stelle e strisce che nella realtà si tradurrebbe in una crescente instabilità. La sua scelta definitiva del segretario di stato potrebbe darci qualche indicazione inerente al sentiero che deciderà di percorrere, o potrebbe continuare a rompere gli schemi. E’ persino probabile che un gabinetto Trump possa essere meno stabile di quanto normalmente siano stati quelli dei suoi predecessori.
E’ importante affrontare per bene la tematica dello sfruttamento economico, proprio perché non c’è niente di sorprendente da dire a riguardo. Al di la della retorica protezionista di Trump, nessuno dei due candidati è mai stato intenzionato a mettere un freno alla roulette dell’ipersfruttamento e del precariato alla quale è sottoposta la maggior parte della popolazione mondiale. E nessuno al di fuori del circuito politico è stato in grado di fornire con efficacia una critica di questo stato di cose. Fino a che non affronteremo la cosa, una processione nauseante di Tsipras e Trump guiderà alla vittoria l’insicurezza economica, non cambiando nulla nei fatti.
L’ecocidio con Trump procederà più velocemente di quanto avrebbe fatto con Hillary Clinton, anche se mi viene difficile scorgere l’importanza di settare il conto alla rovescia dell’orologio che segna la fine del mondo sul 10 invece che sul 9. Possiamo tranquillamente considerare morti alla nascita tutta una serie di accordi internazionali sui cambiamenti climatici, il che è anche una buona cosa, considerando che sono stati una barzelletta sin dal momento del loro concepimento. Per dirla in termini crudi: quando il problema è la riduzione dei gas serra in atmosfera (lasciando da parte le questioni altrettanto importanti riguardanti la preservazione di quanto più spazio selvaggio possibile in modo da creare delle zone cuscinetto) l’attenzione del mondo viene orientata verso gli sforzi per aumentare i gas serra in atmosfera in maniera più lenta. Come facciano delle persone dotate di intelligenza a dedicarsi ad una tale farsa non è dato sapere, anche se gli amministratori delegati delle ONG ambientaliste in tutto questo hanno guadagnato dei soldi facili. Nessuna istituzione in nessuna parte del mondo ha dimostrato la capacità di iniziare anche solo a fare il primo passo per fermare il cambiamento climatico e l’estinzione di massa e, con la vittoria repubblicana nel paese più responsabile del disastro ambientale, ora nemmeno fingeranno più di provarci. Ma ora la farsa è finita e la scelta è chiara: i governi e il capitalismo contro il pianeta e gli esseri viventi.
Perchè la sinistra ha la sua parte di colpa
E’ vero che i termini cambiano di significato nel tempo, ma vi sono un sacco di ragioni per credere che la sinistra giochi ancora esattamente questo ruolo, nonostante le tentazioni orizzontalistiche dei suoi partigiani più radicali. Questo non significa affatto che sia l’unico ruolo delle persone che partecipano alle politiche radicali di sinistra. Anzi, direi che è un elemento chiave che li trattiene in quell’alveo. Un’analisi critica della sinistra, che riconosca l’importanza dei tempi di recupero nel processo del controllo sociale, è necessaria se vogliamo dare un senso alle mancate opportunità, alle vittorie estemporanee, ai crolli demoralizzanti e alla perdita di slancio degli ultimi anni – sconfitte che appartengono a noi tutti. Di fronte all’attacco di una destra aggressiva, le nuove idee valgono di più delle solite sconfitte. Il tempo del pragmatismo è passato. Nei vasti campi dei movimenti anti austerità, ambientalisti, no borders e contro la violenza poliziesca, i pragmatici hanno poco o nulla da dire, a causa dei loro tentativi di trovarsi a metà strada con le istituzioni o di cercare il cambiamento all’interno delle strutture di potere esistenti.
Trascendendo dalla semantica, uno dei motivi per rigettare la sinistra è proprio la necessità urgente di una rottura totale con le strutture di potere esistenti. Dobbiamo capire che le aziende, i governi e le istituzioni che sono responsabili di sorveglianza, cambiamenti climatici, guerre, frontiere, schiavitù del salario, debiti, sfratti e così via sono nemici del pianeta e di chi lo abita. Se il patto col diavolo è una scommessa rischiosa, il patto con le istituzioni che detengono il potere è una tragica perdita di tempo. In un mondo dove i ricchi e i potenti pisciano sistematicamente sulle nostre teste dicendoci che sta piovendo, abbiamo un disperato bisogno di formarci una coscienza antagonista. Ancor più che di una coscienza di classe abbiamo bisogno di una coscienza di esseri viventi – visto che il proletariato, figlio bastardo del capitalismo, tende a riprodurre i valori da cui ha tratto le proprie origini.
La storia del ventesimo secolo ci insegna che la classe è soprattutto un meccanismo unificante piuttosto che il motore di una dialettica rivoluzionaria. Basando l’identità stessa dello sfruttamento sulla produzione industriale, sull’occupazione, sulla crescita economica e sull’integrazione all’interno dell’occidente civilizzato, la politica di classe ha fornito un denominatore comune tra lavoratori e governanti, utilizzato da capitalisti e statisti illuminati per smantellare la ribellione anticapitalista attraverso i sindacati, una complessificazione delle strutture di proprietà e di gestione e anche attraverso l’identità e i doveri dei cittadini. La crisi ecologica, l’eredità continua di colonialismo e schiavismo e gli estremi dell’alienazione prodotti dalle tecnologie social convergono per segnalare che il problema dello sfruttamento non può essere affrontato semplicemente cambiando i nostri rapporti con i mezzi di produzione, dato che il problema nasce dalla logica stessa della produzione. Nella prima parte dell’articolo ho sostenuto che il solo fatto di essere di pelle bianca crea identificazione con la democrazia, con la civilizzazione occidentale, con il progetto di colonizzazione e dominio ed è questo che dobbiamo rigettare. Così come il suprematismo bianco non si può riformare ma solo rompere definitivamente con esso, allo stesso modo una rottura con la sinistra creerebbe una distanza di sicurezza dalla fedeltà alle istituzioni esistenti che più volte hanno sconfitto le nostre lotte.
È nel momento in cui i movimenti sociali radicali e autorganizzati sono a corto di idee sul futuro che le formulazioni di sinistra dapprima respinte riemergono per indirizzare le forze verso un ennesimo fallimentare tentativo riformista. D’altro canto è quando i movimenti riescono a conquistare le strade e ad ottenere qualche vittoria prima inimmaginabile che i tentativi riformisti accusano una battuta d’arresto. Questi momenti di stasi, di incertezza strategica, sono di vitale importanza per i movimenti anticapitalisti: quando scopriamo che occupare fabbriche e case, creare assemblee in ogni quartiere e bruciare stazioni di polizia e banche in ogni città non è sufficiente per rimettere il potere nelle nostre mani, è questo il momento in cui possiamo riscoprire collettivamente cosa la rivoluzione davvero richieda.
In realtà noi saremmo in grado di organizzare le nostre vite libere da ogni autorità coercitiva, ma dobbiamo avere la pazienza e la perseveranza per trasformare i nostri modelli rudimentali di autorganizzazione in reti complesse all’interno delle quali tutte le necessità della vita quotidiana possano essere soddisfatte. E dovremo difendere continuamente queste iniziative dai tentativi di repressione o cooptazione. La stagnazione che seguirà le nostre prime vittorie potrebbe essere il momento in cui emergeranno dei movimenti realmente rivoluzionari, ma fino ad ora quel momento è diventato un punto di svolta nel quale la gente rinuncia all’autorganizzazione, rimane con le mani in mano e consegna le proprie speranze al partito politico progressista del momento. E quando questi partiti non portano a termine il compito, la destra dilaga. Sia in Spagna che in Grecia un gran numero di persone che avevano rifiutato la politica di partito, ma che ancora si consideravano parte della sinistra, sono stati sedotti da SYRIZA, Podemos e da politici come Ada Colau. Questo tendeva ad avvenire quanto non si avevano più prospettive, quando le precedenti esplosioni di resistenza sociale ancora non erano riuscite a rovesciare le strutture di potere oppressive. In Argentina, Brasile e Bolivia i governi progressisti hanno assorbito ed istituzionalizzato quelli che sono stati dei movimenti sociali incredibilmente attivi, combattivi e fecondi, aprendo la strada ad un raddoppio delle politiche neoliberiste e a progetti di sviluppo capitalista.
Negli Stati Uniti, dove l’affluenza alle urne è più bassa, la fedeltà al partito non così spiccata e la sinistra è rappresentata più dalle ONG che da qualsiasi partito, le dinamiche sono state differenti. Sotto una presidenza conservatrice, la sinistra diffusa si concentra su singoli progetti di riduzione dei danni, come tentare di diminuire il numero di immigrati morti su un confine disegnato appositamente per uccidere. Con l’avvicinarsi delle elezioni, le ONG e i democratici presenti in queste associazioni rivedono rapidamente gli ordini del giorno per mobilitare gli attivisti nella campagna presidenziale per la vittoria democratica che – dopo anni di presidenza repubblicana – assume le fattezze del male necessario. Sotto una presidenza centrista (democratica, per esempio), i conflitti tra gli elementi autorganizzati (dagli anarchici ai non affiliati) e i detentori del potere (le ONG, il partito e degli autonominatisi leader locali) risalgono in superficie quando i primi provano ad affrontare i problemi usando metodi di democrazia diretta, mentre i secondi consigliano pazienza, impongono modelli di protesta meramente simbolici e usano media e polizia per dividere i loro oppositori, separando una massa di elettori silenziosa ma legittima dagli “agitatori esterni”.
Questo modello ha più punti in comune con le macchine partitiche del diciannovesimo secolo che con i raffinati metodi di recupero della socialdemocrazia che si stanno affinando in Europa, ma si rivela comunque molto efficace e continuerà ad esserlo fino a che le persone non avranno i mezzi per distinguere dei sinceri ribelli dagli attivisti professionisti e dagli operatori di partito che abitano a sinistra. La situazione nordamericana ci mostra come un fermo rifiuto delle politiche di partito non sia sufficiente. I giocatori più attivi nella pacificazione dei conflitti sociali vicini all’ebollizione appartengono alla sinistra extraparlamentare e non hanno intenzione di unirsi in partito come hanno fatto Podemos, SYRIZA e il MAS boliviano. E’ sufficiente che impediscano assalti al partito Democratico e ai suoi sforzi riformatori per far si che i movimenti sociali non riescano a creare l’autonomia di cui avrebbero bisogno, e grazie alla pioggia di soldi e alla continua definizione del paesaggio del conflitto da parte del complesso industriale facente riferimento al no-profit, gruppi di due o tre organizzazioni espulse dal partito Democratico o da qualche grossa ONG possono diventare i portavoce involontari della strategia di pacificazione. Sinistra e destra sono come le due mani dello Stato, ma non sono affatto uguali. In spagnolo, tener mano izquierda significa essere sottile, astuto, evitare conflitti diretti. Da un punto di vista statalista, lo scopo della sinistra è quello di cooptare ed istituzionalizzare movimenti popolari ribelli. Questo è il motivo per cui la destra può permettersi di stipulare patti segreti con l’Iran, flirtare con la Russia o svelare le identità delle spie governative senza grosse conseguenze, mentre la sinistra viene continuamente scrutinata per scovare segni di tradimento. La lealtà della sinistra è sempre messa in discussione, e per provarla bisogna che la sinistra stessa porti più prigionieri possibile al tavolo delle trattative. Negli Stati Uniti l’estrema destra è responsabile di più omicidi domestici che tutta la sinistra ed i jihadisti messi insieme, ma non sono trattati come terroristi. Invece, i media e la polizia ce li mostrerà come degli estremisti che sono stati spazzati via, evitando di parlarne in maniera sistematica. Chi invece tenta di ribellarsi contro l’ordine costituito o critica i pilastri del potere statale viene trattato da terrorista e sbattuto in carcere per decenni anche se – come nel caso di Marius Mason – non si è mai fatto male a nessuno.
La sinistra esiste per imbrigliare la rabbia degli oppressi. Quando nella rivoluzione francese si andò troppo oltre, le teste rotolarono e i Giacobini, che hanno provato a guidare la rabbia popolare piuttosto che sopprimerla, sono stati ghigliottinati per i loro eccessi. Chi detiene il potere è fin troppo consapevole di quanto sia pericoloso promettere giustizia alla plebe. Il movimento sindacale fece un vero e proprio miracolo stendendo un trattato di pace tra capitale e lavoro – molte delle prime leggi che legalizzarono il sindacato menzionavano specificatamente il bisogno di uno strumento che potesse permettere la risoluzione pacifica dei conflitti sul lavoro. Questo trattato di pace è divenuto obsoleto e presto i poteri dominanti ne vorranno redigere uno nuovo.
Negli States la disgregazione e la distruzione delle comunità nere attraverso politiche federali di sviluppo urbano e la cosiddetta guerra al crimine hanno creato un nuovo trattato di pace per le relazioni razziali, tenuto insieme da tolleranza e cecità da parte dei bianchi (basato sulla convinzione che se chiudo gli occhi il razzismo sparirà) e dall’altra parte dall’ascesa di una sparuta minoranza di neri che ha raggiunto posizioni di vertice nel governo (mentre in precedenza erano esclusi dalle scelte governative ma avevano raggiunto un buon grado di autonomia economica in molte città). Questo trattato di pace sta iniziando a cadere a pezzi e, grazie ad un lungo periodo di daltonismo liberal, la continuità storica è stata spezzata ed oggi solo alcuni radicali riescono a vedere il filo rosso che vede la schiavitù come modello su cui il sistema attuale è basato (le persone di centro solitamente rispondono: cosa? Stai ancora parlando di questo?). Le figure chiave del partito democratico, che sta subendo un rimpasto interno, stanno elaborando il lutto della sconfitta elettorale, traendone una lezione: si sono allontanati troppo dalla sinistra ed ora devono concentrarsi per fare di nuovo presa sulla “classe lavoratrice”, che è un vergognoso eufemismo per indicare i bianchi che non hanno avuto un’educazione universitaria. Qualunque altro partito al loro posto avrebbe fatto lo stesso. A causa della massima pressione democratica per raggiungere la vittoria elettorale, solo un partito outsider con nessuna possibilità di predominio immediato può rompere questo schema fornendo una voce indipendente, dato che la loro critica sarebbe basata su uno status di minoranza continua. Invece di costruire un nuovo slancio solo per vederlo istituzionalizzarsi una volta di più, o peggio ancora, redarre un nuovo trattato di pace tra un sistema suprematista bianco e i suoi vari soggetti – tra possidenti e posseduti – dovremmo pensare in termini di sopravvivenza, autodifesa, rottura e rivoluzione. E’ difficile pensare a un momento storico nel quale le pressioni psicologiche della moderazione siano state più controproducenti. I canali istituzionali esistenti per riformare il sistema non possono fornirci nulla.
Le battaglie del futuro non potranno riguardare la capacità di far nascondere i suprematisti bianchi, il promuovere tecnologie che – estrapolate dal contesto – causino meno inquinamento, apportare correttezza politica e uguaglianza superficiale nelle istituzioni patriarcali o cercare di bilanciare i bisogni di capitale e lavoro. I problemi che Trump ha reso spaventosamente visibili erano già tutti li. Dobbiamo abbandonare ogni illusione di avere interessi in comune con il sistema dominante, attaccare l’oppressione e lo sfruttamento dalle fondamenta ed iniziare a costruire il mondo che vogliamo, senza compromessi con un sistema che ci ha sempre visto come risorse da sfruttare e come mezzi per raggiungere un fine.
Il seguente articolo è uscito su Umanità Nova numero 3 anno 97. Inoltre ne abbiamo parlato su Anarres – il pianeta delle utopie concrete, trasmissione informativa di Radio Blackout (appena l’audio sarà disponibile lo caricherò).
Questo articolo si inserisce nel dibattito avviato da Marco Celentano e da Enrico Voccia sulle colonne di Umanità Nova [1] in merito alla questione del sovrumanesimo e del transumanesimo. Sono del parere che il dibattito sulla questione del sovrumanesimo sia già stata risolta dagli articoli dei nostri due compagni ma penso che il discorso inerente al transumanesimo vada ulteriormente sviluppato.
Come ha giustamente sottolineato Enrico Voccia nel suo articolo sulla quarta fase della rivoluzione industriale, riprendendo le analisi degli annalisti, le modifiche di modi e rapporti di produzione non sono questioni che si danno nell’arco di un giorno. Concordo fondamentalmente con questa visione, pur prendendo atto che alcuni processi tecnologici e sociali hanno subito un’accelerazione, e penso che dovremmo riflettere su come la quarta fase della rivoluzione industriale si stia già dando qui e ora, compresa in alcuni aspetti che possiamo definire transumani. Prendiamo, ad esempio, l’economia dei big data e la sua base tecnica: l’interfaccia uomo-macchina digitale. I primi elaboratori utilizzavano tastiere e stampanti per restituire un output, stampanti sostituite ben presto da schermi di sempre maggiore complessità (dai vecchi schermi CRT al fosforo agli attuali LCD e LED), ora l’apparecchio maggiormente utilizzato a livello di massa per l’interazione uomo-macchina sono gli smartphone che hanno ulteriormente sviluppato le capacità di interfaccia: è vocale, gestuale (sia touchscreen che tramite cattura di movimenti mezzo fotocamera), il feedback è immediato, interfaccia di input e di output sono integrate, e la comunicazione passa sempre più tramite l’immagine.
Ovviamente non possiamo ancora parlare di integrazione dell’interfaccia con il corpo umano, i nostri smartphone non comunicano direttamente con la nostra corteccia cerebrale. Ma nei fatti l’economia dei big data, soprattutto per siti come Facebook o Instagram e altri social network, è basata sulla raccolta di dati grezzi, l’esperienza sensibile quotidiana dell’utente, che vengono da questo rielaborati tramite le sue capacità cognitive, sopratutto quelle inerenti alla sfera emotiva, e poi drenati dalle aziende dei big data. Queste opereranno una maggiore raffinazione delle informazioni per poi rivendere il prodotto finito ai loro clienti sotto forma di pubblicità mirate[2]. Il tema dell’interfaccia uomo-macchina è quindi un tema iper-attuale. È ovvio che gigantesche forze economiche spingeranno ancora maggiormente nella direzione di un’integrazione uomo-macchina.
Possiamo dire che ci troviamo davanti a una forma di“transumanismo debole”: la capacità di interazione uomo-macchina è aumentata ma non assistiamo ancora a modifiche del corpo umano in questa direzione. Eppure ci si muove in questa direzione: si pensi ai sistemi di interfaccia applicati alle protesi per persone invalide. Le moderne protesi, quelle di alta gamma per lo meno, come quelle usate dagli atleti para olimpici, elaborano i segnali nervosi che arrivano ai moncherini e permettono di usarli per controllare i movimenti delle protesi stesse. Esperimenti di bio-hacking[4] hanno permesso a ricercatori di ottenere una capacità di visione notturna e le interfacce tra le aree del cervello deputate all’elaborazione dell’immagine e del suono con apparecchi esterni esistono da qualche anno.
Intendiamoci non è affatto detto che in un domani prossimo potremo assistere al mind-uploading, ovvero la capacità di trasferire la propria personalità all’interno di elaboratori, i limiti tecnici attuali sono ancora enormi (basti pensare che il nostro cervello è analogico mentre gli elaboratori attuali sono digitali), ma la direzione intrapresa è quella.
La questione di fronte a questi cambiamenti enormi diventa: come porsi?
Chi si ritrova nel campo primitivista rifiuta in toto queste tecnologie in nome di un concetto di natura umana. Come avevo già scritto il primitivismo è insitamente reazionario [4], rifacendosi a una mitica età dell’oro e a all’idea di natura. L’idea di natura, compresa l’idea di natura umana, è un’idea prettamente culturale, in quanto tale è soggetta a una lenta diversificazione ed evoluzione nel tempo. L’idea di natura umana che aveva un cristiano medioevale è differente rispetto a quella dell’età dei Lumi come è differente rispetto a quelle attuali. Non è un caso che taluni recenti lavori in campo primitivista, pensiamo a “La riproduzione artificiale dell’umano” di Escudero, abbraccino completamente le tesi più reazionarie e regressive in merito alle questioni di genere. E appunto anche sulle questioni di genere si è sviluppata, fortunatamente, l’interessante filone del cyberfemminismo con interessanti discussione del rapporto tra generi e tecnologie transumaniste (o post-umane) in senso emancipatorio.
Perchè il transumanesimo ha un grande potenziale emancipatorio, nella sua versione più“forte”, quella che vede la possibilità di mind-uploading, porrebbe le basi materiali della possibilità di trascendere la morte. Anche in una versione “debole” prevede un notevole aumento della longevità e un grande salto qualitativo per condizioni di vita.
Ma qua si pone il problema, che è un problema essenzialmente sociale: chi controllerà questi mezzi?
Stante gli attuali rapporti sociali chi gioverà di queste tecnologie sarà chi potrà permetterselo. Già adesso è fatto assodato che la speranza di vita progredisce parallelamente al reddito[5], l’introduzione di queste tencologie, in un contesto di generale aumento della sperequazione [6], porterebbe ad un sempre maggiore divario nelle speranze di vita, sia in termini di longevità che di qualità, tra classi sociali.
È quindi evidente che la capacità di miglioramento tecnico delle condizioni di vita potrà andare di pari passo solo con un cambiamento strutturale, sistemico, della società.
La riflessione necessaria che si pone è quella dell’utilizzo in senso rivoluzionario delle tecnologie, siano esse legate all’ambito dei big data o all’ambito biomedicale, senza rifugiarsi in concezioni regressive e ricordandosi che l’essere umano può evolvere anche in senso biologico.
Il seguente articolo è stato pubblicato su Umanità Nova n. 1 anno 97
Dopo avere ammorbato per un paio di mesi il dibattito negli ambienti liberal anglosassoni, ancora intenti a chiedergli il perchè di Trump e Brexit, è approdato, con il consueto provinciale ritardo, sulle sponde dei media italiani e dell’agone politico il dibattito sulla così detta “post verità”.
Questo nuovo oggetto di dibattito altro non è che un termine che racchiude al suo interno tante questioni: il diffondersi di bufale virali, il populismo, l’influenza sui social network sulla politica, la perdità di credibilità (e di introiti in alcuni casi) dei media tradizionali – e unidirezionali – come giornali e telegiornali.
E ancora una volta in questo dibattito nasce la costante tensione paternalistica del campo liberale-progressista: il problema non sono le storture della società che viviamo – a ben vedere dati strutturali e non deviazioni – ma il fatto che una quota sempre maggiore di individui non si senta più di fare affidamento sui partiti liberali.
Intendiamoci: i partiti più grettamente reazionari fanno ampio uso di una politica basata sull’emotività immediata e sulla diffusione di menzogne per scopi di propaganda: dagli immigrati che prendono 35 euro al giorno ai vaccini che fanno male, dal “piano Kalergi” alle scie chimiche, dal grande complotto giudaico alla negazione del global warming, dalle bufale sulla Kienge ai terremoti indotti. Non è niente di nuovo: ricordiamoci che una delle prime “bufale” estremamente influenti sul dibattito pubblico scientificamente prodotte a scopo politico di cui è possibile ricostruire storicamente la genesi sono i “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”. Il fatto che dopo oltre centosessanta anni quella bufala continui a tenere banco ci dovrebbe dare la cifra del fatto che non sono i social media il problema. Eppure fioccano le proposte di controllo della rete.
Ma anche un altro fatto di questo dibattito colpisce l’attenzione: coloro che stanno portando avanti, con toni che volte rasentano l’isteria, questa tematica sono gli stessi media che hanno diffuso a spron battuto notizie false, imprecise e tendenziose.
Prendiamo, ad esempio, il concentrato La Stampa-Repubblica-L’espresso e le decine di quotidiani locali da esso controllati, su cui si leggono editoriali e corsivi di acutissime riflessioni sulla post-verità. Eppure non è che questi quotidiani siano poco avvezzi a diffondere notizie imprecise, manipolate e artefatte. Il direttore della Repubblica, tal Luigi Calabresi, ha dato spazio per anni, quando ricopriva lo stesso incarico presso la gazzetta aziendale della famiglia Agnelli – conosciuta anche come la Stampa, o in gergo, la Busiarda – ad un tal Massimo Numa, giornalaro con l’incarico di seguire la cronaca politica di movimento, famoso per la completa malafede con cui si arma al momento di scrivere articoli, o meglio di rielaborare le veline della magistratura. Oppure di come per la Repubblica lavorino come penne di punta dei noti plagiatori come Rampini[1] o come Saviano[2], famoso questo per avere inventato da zero saggi spacciati per mustread sulla criminalità organizzata.
Vogliamo dare una veloce occhiata ai giornali locali afferenti al gruppo Espresso? Un concentrato di notizie raffazzonate, mal scritte, imprecise, una gestione delle pagine facebook del giornale che definire squallida è poco. I maggiori responsabili della xenofobia, del giustizialismo, del razzismo, della paranoia securitaria sono le varie gazzette locali che da anni producono strilli su questi argomenti per poter vendere più copie. Al contempo le ammiraglie editoriali del gruppo a cui appartengono pubblicano accurate analisi e vibranti condanne dei partiti populisti e xenofobi chiedendosi come abbiano fatto a rafforzarsi. I casi sono due: o si soffre di psicosi dissociative o si è in malafede.
Non parliamo poi del Corriere della Sera che, tra un editoriale su Beppe Grillo e un appello a votare Si per il referendum costituzionale, fa firmare colonne di analisi a personaggi come Angelo Panebianco [3] che, con i dovuti toni e le dovute formalità, propongono di andare a bombardare i barconi in partenza dalla Libia – ma sia mai che qualcuno scriva “cazzo” su una bomba – per poi dibattere per due settimane su quanto sono stati cattivi e antidemocratici i collettivi studenteschi bolognesi a contestarlo.
I giornali come Libero e il Giornale non li consideriamo nemmeno, ma rileviamo per lo meno il loro buon gusto nel non dibattere di post-verità.
Insomma ce ne è abbastanza per far sorgere un legittimo dubbio: che gli autonominatosi gatekeeper-fondamentali-per-la-democrazia in realtà non temano la concorrenza nel seminare balle?
In questo articolo, apparso sul numero 35 anno 96 di Umanità Nova, proveremo a dare una visuale a volo d’uccello sugli scenari che si sono aperti con l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America; scenari che si annunciano complessi sia sotto il profilo della politica interna che sotto il profilo della politica estera.
Esteri
Lo scenario di politica estera che si delinea è molto più complesso rispetto a quanto appaia a prima vista. Al netto delle semplificazioni propagandistiche portate avanti da molti media non è affatto scontato che si distendano significativamente i rapporti tra Federazione Russa e USA. La politica internazionale non è questione di liti tra bambini dell’asilo ma di condizioni materiali. Gli interessi statunitensi e russi sono contrapposti in molti scenari: nel Baltico e nel Mare del Nord, comprendendo in esso anche il Mare Artico, tutte aree oceaniche ricche di risorse fossili, nel Medio Oriente e nel Nord Africa, nel Caucaso e nell’Asia Centrale. Certo vi potrebbe essere un accordo sull’Ucraina: riconoscimento de iure, il riconoscimento de facto c’è già, della sovranità russa sulla Crimea in cambio di un minore appoggio agli indipendentisti russofoni in Ucraina e magari accordo con Kiev patrocinato dagli USA per riconoscere una semi-autonomia al Donbass. D’altra parte per Mosca la partita ucraina si giocava principalmente sulla Crimea e lì ha già vinto. Per la Siria la presenza di una serie di altri attori rende estremamente più difficile un accordo di lunga durata: la Turchia gioca oramai in modo molto più indipendente rispetto al passato [1], Israele pur considerando Assad il suo “miglior nemico” ha tutto l’interesse che il vicino siriano rimanga in preda alla frammentazione, l’Arabia Saudita e altre petromonarchie sono oramai in rotta di collisione sia con la Russia che con gli USA, sia per la questione irakena, dove gli USA hanno accettato l’ampliamento della sfera d’egemonia iraniana, sia per la questione del prezzo del petrolio. Se la decisione saudita di non tagliare la propria produzione e di mantenere basso il prezzo del greggio a livello globale ha danneggiato pesantemente l’economia russa causando una generale crisi dei consumi[2], che forse sta lentamente rientrando, ha danneggiato anche l’economia americana colpendo nel corso del 2015 il settore dei prodotti di scisto[3]. Questo settore è strategico per gli USA, che negli ultimi anni hanno teso verso l’autosufficienza energetica, ma è ancora più strategico per l’amministrazione Trump: questi ha basato la campagna elettorale sul rilancio della manifattura rilancio che non può che passare dal settore energetico. Ma Arabia Saudita e Stati Uniti sono doppiamente legati su più fronti a partire da quello militare in quanto gli stati arabi del Golfo sono fondamentali per la capacità di proiezione militare americana sia in Medio Oriente che nell’Oceano Indiano. Anche se petroemiri e petromonarchi hanno puntato sopratutto sull’elezione di Hillary Clinton, come dimostrano le decine di milioni di dollari di finanziamento alla Fondazione Clinton, dovranno ingoiare dei rospi e lavorare con Donald Trump. Forse la chiave di un nuovo partenariato strategico potrebbe essere la rinegoziazione dell’accordo sul nucleare iraniano, annunciato da Trump durante la campagna elettorale, accordo che aveva incrinato i rapporti anche tra USA e Israele. A proposito di accordi internazionali: Trump potrebbe rimettere in discussione anche la politica di Obama di apertura verso Cuba bloccando la politica del disgelo inaugurata dall’uscente amministrazione democratica. D’altra parte un 30% della comunità latina negli USA ha votato per Trump ed egli ha vinto anche in Florida dove vi è un’importante comunità di Cubani ferocemente anticastristi.
Poi vi è la partita del Pacifico. Per mettere in pratica la politica di rilancio industriale degli USA l’amministrazione Trump si dovrà necessariamente scontrare con gli interessi di molti stati asiatici del Pacifico. Ovviamente la Cina: questa è il principale concorrente manifatturiero degli Stati Uniti e ha interessi divergenti in molti campi. Le ultime amministrazioni democratiche, i due mandati di Obama, non a caso si sono concentrati sul contenimento dell’Impero di Mezzo. Ma, attenzione, la Cina possiede anche una considerevole quota del debito pubblico statunitense e sta attuando una politica di penetrazione pluriennale nell’America Latina[4] e questo inserisce ulteriore complessità nella partita.
Inoltre una politica di rilancio industriale nazionale negli USA significa anche scontrarsi con gli interessi dei propri alleati nel Pacifico: Corea del Sud, Giappone, Taiwan ma anche con gli interessi delle Filippine e con quelli del Vietnam. Vi è inoltre la questione indiana: l’India e gli USA hanno da anni un ottimo rapporto mentre le relazioni sino-indiane sono pessime, così come quelle indo-pakistane. Ma l’india esporta verso gli USA e non esporta solamente merce: esporta lavoratori altamente qualificati. Una stretta sull’immigrazione, come quella promessa da Trump, colpirebbe l’India ma si possono sempre rilanciare gli accordi bi-laterali in merito già esistenti[5] per salvare le apparenze senza cambiare la sostanza. In ogni caso l’India, che teme da anni la politica del “filo di perle” messa in atto dalla Cina, e gli USA avranno necessità di stringere ulteriormente i legami in quanto bisognosi di appoggio reciproco.
Inoltre vi è la questione dei rapporti atlantici. Le sanzioni alla Russia volute dall’amministrazione Obama, e che un’eventuale amministrazione Clinton avrebbe riconfermato se non addirittura inasprito stanno danneggiando l’economia manifatturiera europea, che ne risulta molto più danneggiato di quella russa. Se vi fosse una distensione per lo meno sulla questione Ucraina tra Russia e USA sicuramente molti in Europa tirerebbero un sospiro di sollievo. Ma probabilmente sarebbe un sospiro momentaneo: se permane la congiuntura economica che vede un basso prezzo delle commodities energetiche il potere d’acquisto russo continuerà a risultare danneggiato. In ogni caso una distensione dei rapporti tra Russia e USA sarebbe positivamente accolta da paesi come l’Italia, la Francia e la Germania ma molto meno dai paesi baltici, che hanno giocato sulla paura dell’orso russo per ottenere fondi economici. In ogni caso i rapporti atlantici saranno difficili: se con un’amministrazione Clinton i paesi europei si sarebbero trovati in difficoltà con la politica dei falchi anti-russi e male avrebbero digerito richieste di ulteriori sanzioni alla Russia o di maggiore impegno in Siria con l’amministrazione Trump le cancellerie del vecchio continente avranno a che fare con una controparte americana che è fondamentalmente un’incognita e con cui facilmentre sorgeranno contrasti su questioni a prima vista secondarie ma che in ambito diplomatico possono essere importantissime. In ogni caso l’elezione di Trump segna il probabile tramonto di ogni ipotesi di TTIP.
Interni
La campagna elettorale ha mostrato che moltissime contraddizioni sono presenti negli USA, comprese quelle che alcuni si illudevano di avere superato. A ben vedere quanto successo nelle ultime settimane altro non era che fuoco sotto la cenere: gli ultimi due anni visto tornare in scena le proteste delle comunità afro americana, il 12 % della popolazione, con il movimento Black Live Matter, così come sta emergendo un nuovo protagonismo delle comunità native nelle lotte ambientali, come dimostrano l’esemplare lotta di Standing Rock, North Dakota, contro la costruzione di un oleodotto e le centinaia di proteste contro la pratica del’estrazione di olio di scisto e le conseguenze ad essa collegata come l’estensione delle pratiche di land grabbing. Vi è poi la questione dei lavoratori immigrati che non hanno i documenti in regola. Gli ultimi due anni della presidenza Bush avevano visto significative mobilitazioni dei lavoratori d’origine straniera, sopratutto latini, compresa la grande giornata di boicottaggio e sciopero del primo maggio 2006, in risposta all’intensificarsi della pressione nei confronti di questi lavoratori. Durante la presidenza Obama queste proteste sono in buona parte rientrate, possiamo ipotizzare che questo sia dovuto alla capacità del Democratic Party di cooptare al suo interno l’associazionismo e la così detta società civile disarticolando nei fatto i movimenti qualora questi non si diano forme organizzative che garantiscano l’autonomia d’azione, ma le deportazioni di clandestini sono continuate. D’altra parte i lavoratori senza documenti sono fondamentali per certi settori economici come l’agricoltura negli stati confinanti con il Messico e per settori di servizio a bassa specializzazione quindi questi lavoratori devono rimanere ricattabili e più facilmente sfruttabili. Un muro al confine con tra California e Messico esiste già e ha fatto molti morti. Quel muro è stato voluto dall’amministrazione Clinton a metà anni novanta. In Texas squadre di poliziotti e di vigilantes privati pattugliano a loro volta il confine dove, per altro, sono presenti anche sistemi di recinzione. Trump Non costruirà un muro lungo tutta la frontiera ma inasprirà i controlli e la pressione nei confronti dei lavoratori di origine straniera. Darà più poteri alla polizia, anche ai vigilantes privati, che pattugliano il confine.
Altro fronte che si annuncia caldo è quello delle lotte ambientali. Trump e il suo entourage sono notoriamente dei negazionisti sulla questione del riscaldamento globale e quindi rispondono direttamente agli interessi dell’industria dei combustibili fossili. Negli USA l’estrazione di idrocarburi di scisto sta creando gravi danni ambientali e vi è stato un impulso alla costruzione di nuovi oleodotti. Se già sotto l’amministrazione Obama vi era stata una certa repressione, basti vedere come si è evoluta la lotta a Standing Rock, possiamo ipotizzare che sotto l’amministrazione Trump questa repressione non farà altro che peggiorare. D’altra parte Trump e i suoi consiglieri si sono detti più volte favorevoli al potenziamento degli apparati polizieschi e della sorveglianza digitale. In campagna elettorale il presidente eletto si è detto anche favorevole all’espansione della pratica dei controlli su chi acquista armi creando liste compilate su criteri segreti di persone a cui dovrà essere impedito di accedere ad armamenti. Della deriva autoritaria data da queste pratiche avevamo già scritto [5]. Al contempo potremo vedere ringalluzzite sia le milizie di estrema destra che il sempre più pervasivo apparato poliziesco. Questo è stato costantemente potenziato nel corso degli ultimi trenta anni, l’amministrazione democratica di Obama aveva messo alcune pezze di facciata, ma nei fatti si può tranquillamente parlare di polizia militarizzata [6]. Chi ne farà le spese ovviamente saranno i movimenti sociali: quelli ambientali ma anche movimenti come Black Live Matter, entrambi hanno già avuto modo di avere a che fare con una polizia ultra militarizzata che non si fa problemi ad usare gas lacrimogeni e ad effettuare caroselli con le autoblindo, così come i movimenti che attuano forme di lotta economica, come quello per la paga minima oraria a 15 USD. Per chi pratica organizzazione in senso intersezionista, coniugando questioni ambientali, di genere, di classe, di pratiche antirazziste, è evidente come il futuro governo statunitense riuscirà ad essere ancora più classista, razzista, sessista e devastatore dell’ambiente di quelli immediatamente precedenti, emanazione diretta dei settori più retrivi del capitale.
Non è un caso che nelle ore immediatamente successive all’elezione di Trump un numero non quantificabile ma altissimo di individui sia sceso in strada. Se alcuni potevano essere fans della Clinton moltissimi altri sono persone che non hanno votato, vuoi perchè astensionisti strategici vuoi perchè schifati anche dagli altri candidati, nelle città della costa Ovest sono scese in strada anche sezioni del sindacato rivoluzionario IWW e collettivi anarchici. Intendiamoci: una vittoria della Clinton sarebbe stata invisa a tutti coloro che agiscono in senso autogestionario e radicale ma è stato colto fin da subito come le politiche di Trump tendano ad un peggioramento immediato delle condizioni di vita degli sfruttati.
La politica come febbre tifoide e malafede
Ovviamente non possiamo farci sfuggire le reazioni entusiaste all’elezione di Trump che vi sono stati da parte di taluni qua in Italia. Lasciamo da parte i vari Salvini e concentriamoci maggiormente su quei settori di politica come pentastellati e neostalinisti. Se i primi vedono personaggi come Trump come il candidato anti-estabilshment (ricordiamo: un palazzinaro speculatore erede di una famiglia di palazzinari speculatori) i secondi invece si eccitano all’idea che questo rappresentate della parte più reazionaria della borghesia statunitense troverà un accordo con il campione della borghesia reazionaria russa, Putin, oramai assunto a status di idolo. La logica vorrebbe che ripetere che gli accordi in politica se si trovano, ed è ancora tutto da vedere se così sarà, si trovano sulla testa di qualcuno. Purtroppo da quelle parti sono affetti o da febbri che inibiscono le capacità cognitive o da malafede per cui è necessario ripetere anche che quel qualcuno sulla cui testa verrà trovato l’accordo saremo noi: gli sfruttati. A questi figuri che già parlano del complotto del gran villain Soros come motore delle manifestazioni contro Trump, che cianciano di manifestanti pagati, di pullman organizzati, di tentativo di rivoluzione colorata va ricordato il buon vecchio principio dell’autonomia di classe e che coloro che sono scesi in strada a Portland ben sanno chi è Trump, chi sono i suoi comitati elettorali locali e quali politiche portano avanti. Frattanto i liberals italiani versano amare lacrime per la sconfitta della loro campionessa, la democratica Clinton che ha sostenuto tutti gli interventi militari, compreso il disastroso intervento in Libia, e ben addentellata con certi settori della finanza, e si consolano nell’idea che è colpa degli altri: colpa dei poveri ignoranti che hanno votato Trump, colpa del populismo, parola che oramai vuole dire tutto (e quindi nulla). Ovviamente non viene minimamente preso in causa il fatto che anni di politiche di macelleria sociale con il bollino liberal abbiano allontanato, non verso la destra ma molto più spesso verso l’astensione (ahinoi passiva), fette sempre crescenti di quello che un tempo era stato l’elettorato di riferimento di questi partiti.
lorcon
[1]Mentre questo articolo è in stesura è stata diramata dalle agenzie la notizia che la coalizione a guida USA non appoggerà la nuova offensiva turca in Siria.
Il seguente articolo è stato pubblicato sul numero 32 anno 96 di Umanità Nova
La campagna elettorale per le presidenziali statunitensi di questo anno è caratterizzata dall’essere sicuramente una delle più squallide di sempre. Mentre ci si concentra sui dati estetici – come lo squallore di molte dichiarazioni di Trump – si perdono di vista alcuni punti che invece, ad un’analisi meno superficiale, risaltano.
Il dato che emerge con più forza è la profonda crisi delle strutture partitiche dell’Unione. Il processo delle primarie ha visto Trump vincere sugli altri candidati repubblicani alleandosi con il Tea Party e attivizzando fasce di elettorato allontanatesi dal GreatOld Party, quelle legate all’alternative right, o rendendosi appetibile per nuovi gruppi, quelli legati alla confusionaria ideologia del dark enlightment. Hillary Clinton ha vinto le primarie del Democratic Party sconfiggendo il rooseveltiano di sinistra, unico senatore statunitense a dichiararsi socialista, Bernie Sanders, fin dalle prime fasi impostosi come unico altro candidato alternativo credibile alla Clinton. In questo processo le strutture dei due partiti sono entrate in crisi. Il Republican Party si sta ancora chiedendo come è possibile che suoi esponenti di punta siano stati spazzati via da Trump, che al GOP non è mai stato organico, il Democratic Party è a prima vista più coeso ma le sue strutture sanno che la redde rationem è dietro l’angolo. I leaks delle mail del il comitato elettorale del Partito Democratico hanno dimostrato quello che già si sapeva: la burocrazia del partito ha fatto di tutto per sconfiggere Sanders dicendo apertamente che se c’era da brogliare e falsificare il processo delle primarie questa era l’unica cosa da fare. Il partito dei Clinton vince le primarie ma il Democratic Party ne esce destrutturato: probabilmente con le elezioni dell’otto novembre il processo andrà ulteriormente avanti.
Bernie Sanders aveva avvicinato al Democratic Party fasce di elettorato giovanile, sostanzialmente era riuscito a recuperare una buona parte di coloro che parteciparono ad Occupy Wall Street ed a stabilire saldi legami con i sindacati. Inoltre il suo nome è stato appetibile per tutti i leftist-liberals che non amano la Clinton a causa della sua politica fortemente guerrafondaia. Difficilmente molti di quelli che avevano appoggiato Sanders faranno convergere il loro voto su Clinton: troppo differenti le proposte politiche, troppo differente l’immaginario di riferimento.
La frammentazione ed il sostanziale collasso delle due burocrazie di partito porteranno ad un probabile aumento di sfiducia dell’elettorato statunitense. Se già il tasso di astensione è storicamente tra i più alti nel mondo occidentale, è probabile che a novembre crescerà ulteriormente e che vi sarà un ulteriore tracollo dei votanti nelle prossime elezioni di middle-term nel 2018.
Altro dato che emerge è il livello di competitività tra i due candidati. D’altra parte i loro programmi sono assai distanti: isolazionista, disposto ad un accordo con la Russia, teso al rilancio della manifattura made in USA quello di Trump; fortemente interventista, teso al contenimento attivo della Russia, tecnocratico-finanziario quello di Hillary Clinton. Appunto sulla questione tecnocrazia e burocrazia si sta giocando un’importante partita.
I due “candidati rivelazione” di queste elezioni, Bernie Sanders e Donald Trump, hanno fatto entrambi riferimento ad un immaginario che critica la burocrazia tecnocratica che è stata l’asse portante degli ultimi decenni negli USA. Questo tema è presente sottotraccia dagli anni quaranta, ovvero da quando James Burnham pubblicò The Managerial Revolution. In questo libro, che prende le mosse dalla seminale opera di Rizzi sul collettivismo burocratico, l’autore, esponente di spicco della quarta internazionale migrato su posizioni conservative, traccia le basi per la critica dei conservatori statunitensi alle strutture socio-politiche contemporanee, ovvero lo stato social-democratico emerso dal New Deal. Lo stato social-democratico negli USA è morente da decenni ma è stato sostituito non da un mondo modellato sulle bieche fantasie di Ayn Rand ma bensì da un sistema economico-politico dominato da grande industria manageriale e dalla tecnoburocrazia delle agenzie federali. La cosa buffa è che Trump è fondamentalmente un palazzinaro-finanziere che in questo mondo criticato dall’alternative right ha aumentato le già cospicue ricchezze familiari. Ora strizza l’occhio all’alt-right fondata sul pensiero di Burnham. Bernie Sanders, d’altra parte, è un politico di lungo corso che vuole il rilancio pacifico dello stato sociale rooseveltiano e critica l’evoluzione tecnoburocratica del complesso militar-industriale. Come se fossero state solo dighe, inflazione e ponti e non anche il volano economico della Seconda Guerra Mondiale a togliere definitivamente dal pantano l’economia statunitense dopo la crisi del ’29.
Quello che ci dimostrano l’inaspettato successo di Sanders, che ha quasi vinto le primarie democratiche, e di Trump, che ha sbaragliato i candidati più interni all’estabilishment repubblicano, è che vi è una profonda scollatura tra le istituzioni statunitensi e i cittadini.
Altra questione largamente ignorata ma fondamentale: l’alleanza tra tecnocrati dell’apparato militare-industriale e le chiese evangeliche della Bible Belt non ha retto. Se questa alleanza aveva espresso la dinastia Bush e supportato con molte energie Reagan, ora è entrata in crisi. D’altra parte in crisi è andato proprio il progetto geopolitico su cui questa alleanza puntava: il Nuovo Secolo Americano non si è avverato. Le Guerre del Golfo e l’intervento in Afghanistan si sono arenati in quasi tre lustri di guerriglia, la posizione nel Pacifico è stata messa in discussione dalla Cina, la Russia ha ripreso forza, la crisi del 2008 ha fatto il resto. Tanti saluti al mondo unipolare immaginato dai Cheney e dai Rumsfield: chi porta avanti questa visione è ormai più hillary Clinton che l’attuale Republican Party.
Donald Trump pensa di poter riportare gli USA ad una politica isolazionista che permetta un disimpegno dal teatro mediorientale: gli idrocarburi possono arrivare dai prodotti di scisto statunitensi e canadesi e dal cortile di casa centro-sud americano, alla peggio si possono riaprire le miniere di carbone. La sfida vera per lui è il rilancio della manifattura statunitense nonché il conseguente contenimento della Cina e dei paesi a rapido sviluppo industriale del sud-est asiatico. In questa ottica un accordo con il Cremlino è possibile ed auspicabile.
Hillary Clinton invece, come dicevamo, è profondamente anti-russa e questo avrà ripercussioni sull’Europa. Per quanto tempo ancora i paesi principali dell’Unione Europea, Germania, Italia, Francia, che hanno tutti e tre interessi a rilanciare accordi accordi commerciali, energetici e politici con Putin reggeranno il bordone alla politica statunitense in Siria ed Europa Orientale? In un articolo su Limes (agosto-settembre 2016) ci si chiedeva se davanti alla proposta statunitense a guida Clinton di ulteriori pesanti sanzioni alla Russia per le questioni Ucraina e Siria le classi dominanti europee saranno disposte a piegare ulteriormente il capo per “doveri di alleanza”. Di più: nell’articolo si paventava direttamente una crisi euro-atlantica che nei fatti rimetterebbe in discussione la NATO nella sua forma attuale. Questioni interessanti e fondamentali che dovrebbero occupare il dibattito molto più delle dichiarazioni pro-Clinton di qualche star dello spettacolo.
Il quadro che emerge da questa tornata elettorale è quello di una società divisa. Se Trump gioca la carta del razzismo e strizza soventemente l’occhio al suprematismo bianco, la Clinton ed il blocco di potere mediatico aggregato intorno a lei utilizza i più classici topoi dell’èlitismo liberal per screditare i supporter del suo avversario. L’elettorato di Trump viene rappresentato come composto da burini razzisti illetterati ed impoveriti, un esercito di desperados bianchi che minaccia l’utopia multiculturale – ovviamente il fatto che negli USA il razzismo sia un fenomeno strutturale viene taciuto – che secondo alcuni sarebbe stata costruita in questi otto anni di presidenza Obama. Non è così: la base elettorale di Trump è interclassista ed eterogenea. Vi sono frazioni di classe dominante, industriali che vedono come una manna le possibilità di eliminare vincoli ambientali, pezzi del settore dell’Information Technology che afferiscono all’ideologia del dark enlightment, ceto medio in via di impoverimento e membri della working class attirati dal programma di rilancio dell’economia proposto dal miliardario. Come collante un diffuso sentimento di diffidenza e di aperta ostilità nei confronti dell’ideologia liberal del politically correct che nasconde i problemi sotto il tappeto. Come ha efficacemente scritto qualcuno se si volesse utilizzare una metafora clinica Trump è un sintomo mentre la Clinton rappresenta la patologia. Una campagna elettorale quindi che si gioca tutta sul filo delle politiche identitarie.
Vinca la Clinton, come probabile, o vinca Trump il quadro rimarrà fosco: entrambi i candidati rappresentano gli interessi della classe dominante, seppur di due frazioni differenti. Per inciso, sono stati amici di famiglia per anni. La decomposizione del corpo sociale avanza: il gap di reddito si ampia costantemente, la violenza poliziesca è aumentata progressivamente negli ultimi anni, la sorveglianza di massa è sempre più capillare, la crisi ambientale è dietro l’angolo.
Post Scriptum: su questi temi in http://tinyurl.com/zjwewlj è possibile ascoltare il podcast dell’intervento all’autore del presente articolo su Anarres, trasmissione di approfondimento informativo di Radio Blackout.
Il seguente articolo è apparso sull numero 31 ano 96 di Umanità Nova
Gennaio-marzo 2010: una serie di danneggiamenti alle dorsali in fibra ottica sottomarine che passano dall’Egitto rallenta il traffico dati dall’Europa al sud-est asiatico e al medio-oriente. I danni seguiti a questi danneggiamenti, le cui cause furono probabilmente dei sabotaggi, non sono mai stati chiariti.
In ogni caso, questa serie di eventi porta alla nostra attenzione un fatto “nascosto” ma di fondamentale importanza per comprendere l’economia contemporanea: internet è un sistema fisico e non un’entità astratta. Già la definizione di internet dovrebbe far riflettere: insieme delle reti telematiche interconnesse tra di loro. Internet altro non è un’insieme di sub-reti regionali e macroregionali connesse tra di loro in specifici punti: centinaia di migliaia di chilometri di cavi in fibra ottica, alcuni lunghi migliaia di km, che passano sotto gli oceani e i mari, di doppino in rame, antenne per i collegamenti radio, anche satellitari. L’insieme delle dorsali di fibra ottica rappresenta l’ossatura vera e propria della rete e, non a caso, sono chiamate backbone (“colonna vertebrale”), collegando tra di loro i diversi paesi e, quindi le sottoreti nazionali o regionali.
Queste infrastrutture sono fondamentali per il funzionamento dell’economia globale, spesso sono gestite da consorzi di attori pubblici e privati, su di esse passa tutto il traffico dati, compreso quello telefonico, e sono considerate infrastrutture strategiche. La capacità di controllo da parte degli attori statali di queste infrastrutture assume un’importanza a livello geopolitico e la capacità di controllo da parte di attori privati è nella dimensione strategica della pianificazione d’impresa e nella costruzione di economie di scala. Sulla pianificazione dei punti di passaggio di queste dorsali non pesano solamente fattori puramente economici per l’interesse di gruppi di imprese ma pesa anche, e in una certa misura sopratutto, anche l’interesse di attori statali di primo piano.
A queste considerazioni preliminari e non esaustive vanno aggiunte altre questioni: Internet per come è stato concepito non è una rete a-gerarchica e l’intervento o meno nella gestione e costruzione di queste infrastrutture influisce sulla forma che assumano le grandi aziende del mercato dei big data in quanto sta determinando l’emergere di fattori di integrazione verticale nel settore.
Iniziamo, per sommi capi, dalle basi: come funziona internet e come il web, compreso nel suo aspetto di economia politica, è descrivibile da un punto di vista della topografia delle reti?
La struttura del web si basa sui root nameserver, ovvero i server che sono i server DNS principali che forniscono gli aggiornamenti a tutti i DNS dei singoli operatori. Dato che il web si basa sulla possibilità di fare corrispondere l’url di una risorsa web, ad esempio google.com, con il suo indirizzo numerico, che è l’indirizzo utilizzato realmente dai calcolatori, ad esempio 216.58.198.46 si capisce l’importanza di questa struttura. I root nameserver sono attualmente 13 e, oltre al traffico web (http e https) gestiscono anche il traffico mail (imap, smtp e pop3).
L’intero web, ma non Internet nel suo complesso, e tutta l’economia ad esso legata dipendono da questi 13 server, gestiti sia da attori pubblici statunitensi che da consorzi di imprese. Alcuni di questi server sono locati in specifici datacenter, alcuni dei quali collocati in installazioni militari o comunque militarizzate, ma, negli ultimi anni, per fornire una maggiore resilienza alla rete alcuni di essi sono forniti in anycast, ovvero un singolo server è di fatto distribuito in più paesi su macchine distinte. In ogni caso un attacco coordinato, per quanto sarebbe complesso da progettare ed eseguire, sull’insieme dei 13 root nameserver risulterebbe fatale per il web in quanto i DNS dei singoli provider non sarebbero più aggiornati.
Anche i provider che portano la connessione ai privati hanno delle loro reti che sono organizzate in modo gerarchico tramite una successione di gateway tramite quali transitano i dati che vanno da/per le macchine dei singoli utenti verso le macchine collocate all’esterno della rete del provider.
Da un punto di vista della topografia delle reti come è descrivibile il web? Spesso si sente dire che il web è strutturalmente a-gerarchico, quasi casuale, ma non è così.
Il web non è una rete che cresce casualmente e in cui i nuovi nodi, i nuovi siti internet, si collegano casualmente ad un numero di nodi casuale. Quando un nuovo nodo viene inserito nella rete questo si andrà a collegare, con molta probabilità e a causa di scelte commerciali, a dei nodi già esistenti e già con un certo numero di collegamenti. È il modello di crescita adottato dalle reti ad invarianza di scala. Ne consegue che verranno a formarsi degli hub, ovvero dei nodi che hanno un maggior numero di collegamenti ad altri nodi.
“Il modello ad invarianza di scala ha due leggi fondamentali:
Crescita: in ogni dato intervallo di tempo aggiungiamo un nuovo nodo alla rete. Questa fase evidenzia il fatto che le reti si formano un nodo alla volta
Collegamento preferenziale: assumiamo che ogni nuovo nodo abbia due link per connettersi ai nodi già presenti. La probabilità che scelga un certo nodo è proporzionale al numero di link da questi posseduto. Ossia: data la scelta fra due nodi, di cui il primo ha due volte i link del secondo, le probabiltà che la scelta ricada sul primo sono esattamente doppie.”[1]
Ne consegue che un sito web già grosso, con molti collegamenti che puntano a lui, ha molte più probabilità di un sito web piccolo con pochi collegamenti di essere linkato da un nuovo sito.
Da quella che sembra un’affermazione banale ne deriva una semplice verità: il web non è una rete a-gerarchica. Anzi, è una rete con la presenza di alcuni forti hub che in prospettiva sono destinati a crescere. Una rappresentazione della rete che tenga conto di quanti link ha un sito o della quantità di traffico da esso generato ci mostrerebbe che alcuni siti sono abnormi, dei veri e propri attrattori. Confrontando le mappe in ordine cronologico si noterebbe che i grossi siti si sono di norma ingranditi in misura molto maggiore a quelli minori.
Insomma: il web porta con se delle dinamiche di concentrazione economica, e quindi di potere, che non possono essere ignorate ne tanto meno nascoste.
Inoltre negli ultimi anni è emersa un altro importante fattore: i maggiori attori del mercato dei big data, Google e Facebook in testa, stanno investendo direttamente nella realizzazione di nuove dorsali in fibra ottica. Perché questo fatto emerge come fatto di fondamentale importanza e non può essere visto solamente come una normale diversificazione dell’attività imprenditoriale?
Facebook negli ultimi quattro anni si è impegnata nel progetto Asia Pacific Gateway, dorsale sottomarina di cavi in fibra ottica che è finalizzata a connettere Giappone, Sud Corea, Filippine, Cina, Taiwan, Vietnam, Tahilandia, Hong Kong, Malesia e Singapore. Una dorsale di importanza fondamentale per il numero di utenti e mercati coinvolti, comprese le piazze finanziarie di Singapore e Hong Kong, tra le maggiori al mondo, e per le aree geografiche in cui si inserisce da un punto di vista geopolitico: la dorsale infatti connette, o meglio aumenta la banda di connessione già esistente, l’Asia continentale con il Giappone e il sud-est asiatico, un’area popolosa e densa di punti passaggio obbligati per la logistica delle merci che da queste aree manifatturiere viaggiano per i mercati di destinazione via container (gli stretti della Malesia, di Singapore e Indonesia), che per i traffici petroliferi via nave che dal medio-oriente vanno verso la Cina e Vietnam. Insomma una dorsale che si inserisce in un’area geografica il cui controllo è fondamentale per gli assetti geopolitici globali, e in cui intervengono importanti attori statali (Cina, Stati Uniti, India). Ma perché un’azienda dei big data come Facebook è intervenuta su un’opera infrastrutturale? È semplice diversificazione di impresa oppure è un movimento di integrazione verticale?
Qualche parallelo storico: durante la seconda rivoluzione industriale, negli Stati Uniti, comincia a emergere chiaramente il modello di impresa a integrazione verticale. A titolo di esempio: la Carnegie Steel, uno dei più grandi produttori mondiali d’acciaio dell’epoca, crea dei rami d’impresa che vanno ad integrare nella stessa società non solo la produzione d’acciaio ma anche le infrastrutture che rendono possibile l’acquisizione di materie prime e la distribuzione del prodotto finito: miniere di carbone e di minerale ferroso ma anche ferrovie e navi. La Carnegie in questo modo acquisisce un maggiore controllo dell’intero indotto e stabilizza la sua posizione. Le stesse dinamiche dell’epoca, sopratutto per quanto riguarda le ferrovie, si possono osservare anche nelle imprese di Rockfeller e Morgan, e, in generale dei famigerati robber barons dell’epoca. Un mercato che in generale ha adottato il modello ad integrazione verticale è quello petrolifero in cui le società posseggono pozzi estrattivi, oleodotti per il collegamento a raffinerie e terminal, navi petroliere e la rete dei distributori sul territorio.
Quale è il modello di business di Facebook o di Google? In estrema sintesi è la raccolta di dati generati degli utenti e la loro messa a valore rivendendoli a clienti affinché questi possano creare pubblicità mirate[2]. Le infrastrutture che rendono possibile questo sono le reti telematiche e, in particolare, le dorsali in fibra ottica. Quindi nel caso di attori del mercato dei big data che investono in infrastrutture telematiche di grande portata siamo di fronte ad un caso non solo di diversificazione di impresa (vendere quote di banda delle dorsali a provider e altre aziende) ma anche di integrazione verticale: le dorsali servono ad aumentare la capacità di acquisire dati da parte dell’azienda di big data che ha investito in esse.
Google addirittura ha creato il Project Link, finalizzato a creare centinaia di kilometri di dorsali in fibra nelle aree urbane in forte espansione in paesi come l’Uganda e il Ghana, tutte economie emergenti e appetibili per il mercato dei big data ma che hanno scarse infrastrutture telematiche. Il dato interessante di questo progetto è che non riguarda solamente le dorsali ma anche la fornitura diretta di connessioni all’utenza privata. Altro progetto degno di nota, sempre di Google, è quello denominato AWC, ovvero sia l’implementazione di campi eolici e infrastrutture per la distribuzione di energia elettrica perché internet si regge sull’energia elettrica e la crescita della capacità di generazione e distribuzione dell’energia elettrica è fondamentale per l’espansione delle reti.
Allo stesso modo in cui Carnegie, Rockfeller e i robber barons del 19° secolo procedevano all’integrazione verticale delle loro imprese costruendo nuove infrastrutture ora i grandi attori del mercato dei big data, Google, Facebook, ma anche aziende di servizi di clouding, come Microsoft con Azure, stanno agendo per espandere le infrastrutture telematiche globali.
Questo nuovo scenario apre anche altre questioni: quale sarà il rapporto tra questi attori privati che costruiscono enormi infrastrutture strategiche, non solo per loro stesso ma per l’intera economia globale, e gli attori statali che dovranno garantire la sicurezza di queste stesse infrastrutture (le dorsali sono facilmente attaccabili) e che saranno terreno di scontro bellico, perché anche i dati militari passano su internet, e non a caso le forze armate statunitense sono dati di reti esclusivamente loro in collegamento satellitare, al pari del classico terreno “reale”?
Sopratutto davanti a imprese che forniscono servizi tipicamente considerati di alto livello, al vertice rispetto all’infrastruttura sottostante, che entrano a gamba tesa nella definizione dell’infrastruttura come si definirà una questione fondamentale come quella della net neutrality?
[1] BARABÀSI, Albert-Làszlò, Link, Torino, Einaudi, 2004, p. 95.
[2] Si potrebbe anche dire che il modello di business dei big data, sopratutto quello di siti come Facebook o Istagram e altri social network, è basato sulla raccolta di dati grezzi, l’esperienza sensibile quotidiana dell’utente, che vengono da questo rielaborati tramite le sue capacità cognitive, sopratutto quelle inerenti alla sfera emotiva, e poi drenati dalle aziende dei Big Data. Queste opereranno una maggiore raffinazione delle informazioni per poi rivendere il prodotto finito ai loro clienti sotto forma di pubblicità mirati. In futuro la merce potrebbero anche essere altri dati sensibili: si immagini l’entrata nel mercato delle assicurazioni sanitarie private di soggetti come Google che è in possesso di una quantità enorme di dati privati di un individuo, dati raccolti non solo tramite il motore di ricerca ma anche tramite un servizio mail oramai diffusissimo come Gmail. Oltre ai social network o fornitori di servizi tentacolari come Google o Microsoft (sistemi operativi, ricerche sul web, servizi di clouding, servizi mail, servizi topografici) vi sono poi anche altre grosse imprese come E-Bay o Amazon, Airbn, o (ex) start-up in rapida crescita come Foodora che operano tramite le reti telematiche per fornire beni materiali come beni di consumo voluttuari, servizi abitativi e cibo ma che sono parte integrante dell’economa dei big data. Si potrebbe quindi affermare che il modo di produzione che sta emergendo tende a trasformare gli individui in macchine che raccolgono e generano dati che verranno poi messi a valore. Insomma: la sussunzione definitiva della vita all’interno delle logiche di mercato.
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