Energia e rivoluzione industriale

Il seguente articolo è stato pubblicato su Umanità Nova numero 20 anno 96

Energia e rivoluzione industriale10341684_10152220982138218_6785141664726746815_n

Con questo mio articolo voglio riprendere l’interessante riflessione sull’energia avviata da Marco Tafel con il suo articolo “Quanta? Quale?”: la questione della dipendenza energetica e di come questa sia legata all’organizzazione della società. Una storia poco scritta della contemporaneità è quella della storia delle infrastrutture energetiche. La prima rivoluzione industriale, quella dei motori a vapore, si fondò sulla disponibilità di carbone e iniziò un ciclo a feedback positivo in cui la maggiore disponibilità di combustibile permetteva di estrarne ancora maggiormente: una delle prime grandi applicazioni del motore a vapore fu l’azionamento delle pompe che permettevano di tenere asciutte le miniere di carbone. Da lì il passo alla primitiva meccanizzazione dell’estrazione, con i montacarichi azionati a vapore, e del trasporto con le prime locomotive, fu breve. Insomma: maggiore era la quantità di carbone estratto e maggiore diventava la velocità di estrazione di altro combustibile. Questo feedback positivo si interruppe solo nella tarda seconda metà del ventesimo secolo, con l’esaurimento delle maggiori vene carbonifere in Europa occidentale o con la completa sostituzione con un combustibile più economico: il petrolio. Allo stesso modo la seconda rivoluzione industriale, quella del motore elettrico, maggiormente performante a parità di combustibile immesso e con minori costi di mantenimento e costruzione rispetto a quello a vapore, è stata potenziata dalla messa a valore del petrolio e dei suoi derivati, che hanno un potere calorifico maggiore rispetto al carbone.

11008052_1068777023136278_6160242365124724365_nMa i giacimenti di petrolio sfruttabili, così come quelli di gas naturale, sono meno diffusi rispetto a quelli di carbone e questo ha portato ad una crescente necessità di infrastrutture: gas/oleodotti, navi petroliere e gasiere. Parliamo di infrastrutture molto più complesse rispetto a quelle richieste dal carbone e con maggiori implicazioni geopolitiche: basti pensare che il famigerato accordo Sykes-Picot è basato sulla necessità da parte di Regno Unito e Repubblica Francese di garantirsi linee logistiche sicure per il rifornimento delle coste del mediterraneo con il petrolio estratto in Siria e Iraq da importare poi nei rispettivi paesi[1]. Per quanto il famoso aneddoto del righello sulla carta geografica ben rispecchi la concezione coloniale, quel righello era mosso e impostato dalla necessità di controllare una delle commodities più importanti al mondo. Allo stesso modo grande fu l’importanza delle linee logistiche per il rifornimento energetico durante la seconda guerra mondiale: cosa sarebbe successo se la Germania hitleriana al posto di lanciarsi nell’attacco all’URSS si fosse lanciata nell’assalto alle zone ricche di giacimenti di petrolio in Mesopotamia? E cosa sarebbe successo se al posto di impantanare l’armata di Paulus a Stalingrado lo stato maggiore tedesco l’avesse utilizzata per prendere il controllo del Caucaso russo? Nel secondo conflitto mondiale l’importanza della logistica energetica diventa uno dei punti focali del conflitto. La guerra totale impone linee logistiche estremamente lunghe, con tutti i problemi che nella scienza militare questo comporta, e necessità di energia.

Questi grossi interrogativi strategici furono alla base delle tre guerre mediorientali avvenute in parallelo alla seconda guerra mondiale: la Gran Bretagna, per mettere in sicurezza le fonti primarie di petrolio prima e per garantire una via di rifornimento all’URSS in caso di crollo sul fronte caucasico dopo, prima occupò repentinamente la Siria formalmente governata da Vichy, poi invase l’Iraq da poco indipendente e il regno di Persia, che in quel momento avevano governi a cui l’Asse non dispiaceva affatto, che ventilavano seriamente il blocco della fornitura petrolifera alla Gran Bretagna e la chiusura del corridoio verso i territori sovietici. L’URSS, confinando direttamente con quei territori, partecipò direttamente alle operazioni militari che ebbero come conseguenza l’occupazione inglese di Teheran, l’abdicazione dello Scia Reza Pahlavi in favore del figlio Mohammed e la blindatura della fornitura energetica attraverso la costituzione della Anglo-Iranian Oil Company. Contemporaneamente il presidente Roosevelt e il re dell’Arabia Saudita firmavano personalmente il primo accordo che garantiva una sicura fornitura petrolifera agli USA da parte del regno wahabbita.
Tornando alla più stretta contemporaneità si pensi al peso delle scelte legate agli oleodotti North e South Stream per gli assetti geopolitici di tutta l’Europa e del Mediterraneo.

Il controllo delle linee logistiche dei combustibili fossili sono di pari importanza rispetto al controllo dei giacimenti stessi.

Normalized_Rorschach_blot_10La terza rivoluzione industriale, quella basata sulla telematica e sull’informatizzazione dei processi produttivi, ha poi ulteriormente acuito la necessità di energia. Il processo di decolonizzazione dei decenni immediatamente precedenti ha inoltre intaccato la capacità degli stati maggiormente industrializzati di controllare estrazione e linee di rifornimento dell’energia: questa è, a mio parere, la ragione principale della corsa al nucleare per scopi civili a partire dagli anni cinquanta e sessanta, ulteriormente acuita dopo i due shock petroliferi del ’72 e del ’79[2]. Non che l’uranio venga dal nulla ma un conto sono le risorse da investire per controllare un’area con miniere da cui estrarre uranio da importare in quantità relativamente discrete e un conto è controllare non solo le aree da cui estrarre combustibili fossili da importare costantemente ma anche i gas/oleodotti da tenere in sicurezza necessari per garantire il costante rifornimento. Certo, esistono le riserve strategiche, i depositi di combustibile fossile più o meno lavorato che ogni stato mantiene sul proprio territorio, ma queste riserve sono bastanti per pochi mesi. È facile capire come questo insieme di infrastrutture necessarie per l’uso delle risorse fossili sia estremamente fragile, si estende e ramifica per migliaia di kilometri, e aumenti la vulnerabilità dell’importatore finale.

Basti pensare al famoso shock petrolifero degli anni settanta o a quello che sta succedendo nell’ultimo anno con il prezzo del greggio tenuto al minimo; per altro ci sarebbe da fare un’ulteriore riflessione di come il prezzo del petrolio possa rimanere basso, anche nei periodi in cui non lo appare, scaricando i costi ambientali sulla società tutta. Anche le attuali scelte geopolitiche statunitensi sono segnate dalla necessità di smarcarsi dal pantano mediorientale raggiungendo un’autosufficienza energetica mediante i prodotti di scisto[3].

La seconda rivoluzione industriale e il ciclo economico di tutto il novecento si sono basati sulla costruzione di una capillare, gestita in modo centralizzato, rete di distribuzione dei combustibili fossili e dell’energia da essi ricavata.

La quarta rivoluzione industriale sarà ancora più energivora ma potrebbe contenere al suo interno i germi della dissoluzione della centralizzazione energetica. L’emergere di internet ha generato una economia di scala che ha delle profonde conseguenze su moltissimi piani: quella dei big data. Come si lega questo con la questione energia? Intanto le reti telematiche consumano moltissima energia elettrica in quanto sono basate essenzialmente sulla trasmissione di segnali elettrici. Secondariamente: i big data, sopratutto quelli legati ai social network, stanno trasformando interamente e sottilmente gli stessi esseri umani in macchine che mettono a valore le loro stesse relazioni sociali. Paradossalmente l’economia dei big data fonda un’ampia parte dei suoi processi produttivi su energia ricavata da fonti differenti rispetto a quelle abituali: noi non andiamo ad elettricità. I nostri smartphone si, ma essi sono solamente il tramite che mette in comunicazione il nostro cervello con la rete. Il nostro cervello funziona tramite energia chimica. In realtà l’intero paradigma dell’Internet of Things, strettamente correlato con i big data, presuppone, per svilupparsi al suo massimo stadio, un completo ripensamento del paradigma della produzione di energia basata su combustibili fossili. Non è un caso che un imprenditore come Elon Musk stia investendo nella ricerca di una soluzione, come il progetto delle batterie Powerwall, che diminuirebbe moltissimo la dipendenza da reti di distribuzione energetica a gestione centralizzata, creando batterie collegate a pannelli solari ad alto rendimento sia per uso domestico che per uso veicolare. Ma anche altri aspetti della rivoluzione industriale in corso prevedono un aumento dei consumi energetici che i combustibili fossili non sarebbero in grado di garantire nel lungo termine: l’automazione non solo dei processi produttivi ma anche di quei lavori intellettuali, dal trading azionario automatizzato basato su algoritmi genetici a certi lavori giurisprudenziali per l’elaborazione di contratti, dall’analisi automatica delle immagini alle blokchain. Tutto questo prevede l’aumento delle capacità computazionali e di conseguenza un diverso modo di concepire la messa a valore delle risorse energetiche.

E in questo si inserisce anche un altro importante aspetto dell’attuale rivoluzione industriale: le nanotecnologie. È evidente che una macchina molecolare non possa essere alimentata dalla normale rete di distribuzione energetica e le batterie a ioni di litio hanno dei precisi limiti fisici nelle possibilità di miniaturizzazione. Anche qua si dovrà andare verso altri modi di sfruttare l’energia chimica: dall’ossidoriduzione degli idrocarburi in grosse centrali ad olio combustibile all’ossidoriduzione del glucosio, o chi per esso, in elementi energetici di dimensioni cellulari, o anche minori.

Questo significa che da qua a pochi anni vedremo i combustibili fossili andare in soffitta? No, affatto: il picco petrolifero è più lontano di quanto si pensasse e le tecnologie sopracitate sono ancora in via di sviluppo. Inoltre gli idrocarburi di scisto, per quanto penalizzati dal basso prezzo del greggio hanno profondamente modificato la geopolitica energetica. E non scordiamoci di un fatto: il petrolio non è solo energia ma anche materia prima fondamentale per le materie plastiche. Le risorse fossili convenzionali diventano sempre più difficili da controllare a causa della sempre maggiore instabilità sistemica dovuta all’amento di conflitti macroregionali e il nucleare a fissione ha mostrato tutte le sue possibilità catastrofiche. Se è vero, come ricordano alcuni, che il nucleare a fissione ha fatto meno morti dei combustibili fossili è anche vero che il nucleare ha la sgradevole caratteristica di poter potenzialmente, e Chernobyl e Fukushima ce lo ricordano, creare incidenti catastrofici che nel giro di poche ore rendono completamente inabitabili interi territori. Per questo non può essere una valida alternativa ai combustibili fossili. Inoltre ha dei costi di gestione altissimi.

Una società basata interamente sulla telematica come quella che si sta delineando ha due basi imprescindibili: la quantità di banda disponibile e la quantità di energia trasformabile in forma utilizzabile. In questo si può delineare un possibile scenario basato sull’energia disponibile da un lato sul nucleare di nuova generazione, basato sulla fusione e non sulla fissione, per i grandi apparati e su una miriade di fonti energetiche che si basano su solare, eolico, chimico. Sottolineo che non sto sostenendo che vi sarà una scomparsa della produzione manifatturiera a favore della produzione cognitiva ma che la produzione manifatturiera verrà ulteriormente automatizzata: per quanto ne dicano certi teorici le reti telematiche sono qualcosa di molto fisico: cavi, computer di varie dimensioni e apparati di alimentazione.

Attenzione: il rischio di un’illusione accelerazionista, in cui tutte le contraddizioni attuali vengono automaticamente risolte in un ipotetico eschaton immanentizzato, è dietro l’angolo. Se è vero che questo nuovo ipotetico paradigma tamponerebbe la crisi ambientale dovuta al modo di produzione profondamente irrazionale in cui viv11062715_1552006671731600_3560229771383029280_niamo, è vero che potrà anche portare a nuove e più sottili forme di dominio.

All’interno di questo nuovo paradigma sarà necessario, nel senso più stretto del termine, aumentare la capacità di incidere nella realtà da parte di chi si pone in una prospettiva rivoluzionaria di superamento radicale dell’esistente. Non può esistere un capitalismo razionale, non può esistere un capitalismo dal volto umano: il capitalismo è per sua natura basato sulla messa a valore dell’esistente, sul valore di scambio e non su quello d’uso e permarrebbe la necessità di uno stato come ente regolatore della moneta e garante della pace sociale. Anzi: la necessità di mettere completamente a valore l’intera esistenza sociale, l’intera esistenza di ogni individuo, sarebbe l’apogeo dell’alienazione.

Uscire da una società basata sull’accumulazione e sul dominio dell’uomo sull’uomo è possibile solo in senso rivoluzionario. Non c’è scappatoia di sorta: nostro è il compito di appropriarci di queste tecnologie e utilizzarle per costruire una società a nostra misura. Le potenzialità della scienza dei sistemi complessi, la cibernetica, sono immense e non possiamo lasciarle nelle mani di un meccanismo basato sulla strutturale alienazione dell’uomo.

lorcon

[1] https://www.foreignaffairs.com/articles/middle-east/2016-05-17/pipelines-sand

[2]https://en.wikipedia.org/wiki/File:Nuclear_Energy_by_Year.svg e https://en.wikipedia.org/wiki/Nuclear_power_by_country

[3] http://www.limesonline.com/shale-gas-e-rivoluzione-energetica-leta-del-petrolio-non-e-ancora-finita/47049

Informazioni su lorcon

Mediattivista, laureato in storia contemporanea con attitudine geek, nasce nel sabaudo capoluogo (cosa che rivendica spesso e volentieri) e vive tra Torino e la bassa emiliana. Spesso si diletta con la macchina fotografica, lavora come tecnico IT, scrive sul suo blog e su Umanità Nova.
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