UrbEx Officine Meccaniche Reggiane

In quel di Reggio Emilia a nord rispetto alla stazione FS abbiamo quelll’enorme monumento Re.2000_propagandaalla deindustrializzazione che sono i capannoni abbandonati dell Officine Meccanche Reggiane (o OM Reggiane). Da importante centro industriale della prima metà del novecento dove venivano costruiti aerei militari (tra cui i famosi Caproni) materiale ferroviario e grandi strutture, bombardata dagli alleati e teatro di una strage compiuta dall’esercito badogliano il 28 luglio del 43 a danno dei lavoratori e delle lavoratrici in sciopero, a polo delle lotte operaie dei primi anni cinquanta (la famosa occupazione e il famosissimo trattore autocostruito R60) alla normalizzazione voluta dall’intero arco costituzionale negli anni 50 e 60 fino alla nuova conflittualità operaia negli anni settanta e ottanta. Da importante centro produttivo, uno dei più grossi della regione, con un indotto mostruoso e migliaia di operai, alle restrutturazioni industriali degli anni 90, con privatizzazioni e passaggi di mano tra vari proprietari. Da un decennio circa sono cessate tutte le attività e i capannoni e le palazzine uffici sono diventate rifugio per un numero non ben quantificato di persone senza casa e polo d’attrazione per decine di writers che hanno prodotto opere notevoli. Ciclicamente i tromboni del comune reggiano in concorso con i tromboni dell’UniMoRe, e ultimamente ri rockers da strapazzo come Ligabue, cianciano di riqualificazione, costruzione di un centro eventi, espansione di un tecnopolo. Peccato che il sito è enorme, pieno di amianto e con i terreni impregnati di olio minerale e altre sostanze chimiche. Paradossalmente la soluzione ideale sarebbe quella di non fare niente nell’area se non lasciare i writers fare i writers, costruire soluzioni abitative dignitose per chi ci abita suo malgrado dentro, e, magari, fare un museo dell’industria, che male non fa, dentro gli ex uffici. Qua sotto una selezione di foto della minima parte di capannoni che ho visitato con altri compari nei giorni scorsi

 

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foto non scattata da me. il sottoscritto appare nell’alquanto inedito ruolo di soggetto.

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La propaganda alla prova dei fatti

Questa è la prima parte di un lavoro diviso in due parti sulla questione della diffusione delle armi da fuoco negli Stati Uniti. La seconda parte si trova qua.

Articolo apparso su Umanità Nova numero 31 anno 95

Armi negli Stati Uniti

La propaganda alla prova dei fatti

[…]La Home Guard può esistere solamente in un paese dove gli uomini si considerino liberi. Gli stati totalitari possono fare grandi cose ma ce ne è una che non possono fare: non possono dare al proletario un fucile e dirgli di tenerlo a casa, di tenerso nella camera da letto. Il fucile appeso al muro dell’appartamento di un operaio o nel suo cottage è il simbolo della democrazia. É nostro dovere fare in modo che stia lì.”

George Orwell, traduzione a cura dell’autore dell’articolo

La Home Guard era la milizia territoriale creata durante la seconda guerra mondiale per la difesa del territorio della Gran Bretagna da una possibile invasione da parte dell’Asse. In essa un pensatore socialista, libertario e democratico radicale come Orwell, forte dell’esperienza maturata nella Catalogna rivoluzionaria, vedeva la base stessa della difesa non solo dalla “bestia nazifascista” ma da qualsiasi attacco alle condizioni di vita della classe lavoratrice, da qualsiasi atto autoritario. Una simile concezione, scevra spesso dagli elementi di classe, è largamente presente tra la popolazione statunitense. Negli ultimi anni abbiamo assistito a continue polemiche riguardo alla diffusione delle armi negli USA e pensiamo che sia l’ora di mettere a fuoco una serie di problemi largamente taciuti sia da parte dei settori della destra del Democratic Party che da parte del Republican Party. Innanzi tutto prenderemo in analisi i dati e le statistiche riguardanti la diffusione delle armi da fuoco e degli atti di violenza, poi passeremo ad un’ipotesi di lavoro tesa a spiegare le differenti posizioni in merito alla questione e, infine, ad un’ipotesi di lavoro in merito alle contraddizioni presenti.

I dati

Secondo le statistiche compilate dal Centers for Disease Control (CDC) e dal Boreau Justice Statics statunitensi in questi anni c’è stato il più basso numero di crimini con uso di armi da fuoco, e questo nonostante il bando sulle armi full-auto voluto dall’amministrazione Clinton nel 1994 sia scaduto nel 2004. Tanto per dare qualche dato: 18.253 omicidi nel 1993 contro 11.101 omicidi nel 2011 e un milione e mezzo di vittime di crimini non fatali commessi con armi da fuoco (ferimenti, rapine a mano armata eccetera) nel 1993 contro i 467.300 del 2011. Le sbandierate trentamila morti l’anno causate dalle armi da fuoco negli USA, nel 2010 sono state 31,672 ed erano così composite: 19,392 suicidi, il restante omicidi. E in mezzo a questi dati ci sono anche tutti gli omicidi commessi per autodifesa contro un assalitore armato. E la provenienza per le armi usate per commettere reati? I dati più recenti, che purtroppo risalgono al 2004, e ci danno questo quadro: 10% da rivendite come i banchi dei pegni, 37% ottenuto in vario modo, quindi anche non consenziente, da familiari, 40% dal mercato illegale.1

//// Aggiornamento con i dati 2016, inseriti il 6/10/2017 ////

Tenendo sempre per buoni i famosi 30.000, equivalenti allo 0.000000925% della popolazione totale, morti per armi da fuoco all’anno come dato di massima nel 2016 abbiamo avuto la seguente composizione:

il 65 % di questi sono stati suicidi
15% sono stati morti causati da agenti di polizia (di qualsiasi livello) in servizio (legalmente parlando non sono crimini ma va necessariamente aperta una questione sul perché la polizia statunitense ammazza così tanto, cosa che ho fatto qui https://photostream.noblogs.org/2013/10/geneaologia-della-violenza-poliziesca/ , qui https://photostream.noblogs.org/2016/07/black-lives-matters/  e qui https://photostream.noblogs.org/2016/07/la-stretta-autoritaria-negli-usa/ )
17% omicidi volontari in vari contesti e con armi ottenute dalle più svariate fonti (per quanto riguarda gli omicidi nell’ambiente della criminalità quasi esclusivamente da fonti illegali)
3% morti accidentali

Il 17% equivale a 5100 morti sul territorio federale e il 25% di questi omicidi è concentrato in quattro città: Chicago (9,4% con 480 omicidi), Baltimora (6,7 con 344 omicidi), Detroit (6,5 con 333 omicidi) e Washington D.C (2,3 % 119 omicidi). Tutte e quattro queste città si trovano in stati con delle leggi sul controllo delle armi piuttosto restrittive (Washington per altro non appartiene a nessuno stato, è distretto federale). Baltimora, Detroit e Chicago sono città con un tessuto sociale che è stato letteralmente devastato negli ultimi 30 anni, tra delocalizzazioni e epidemie di consumo di stupefacenti (con annessi conflitti tra gang). A proposito di epidemie di consumo di stupefacenti il New York Times riporta (https://www.nytimes.com/interactive/2017/06/05/upshot/opioid-epidemic-drug-overdose-deaths-are-rising-faster-than-ever.html) che nel 2016 ci sarebbero state più di 59.000 morti dovute a overdosi di stupefacenti, legate alla nuova ondata nella diffusione di oppioidi (fentanyl, oxycodone che hanno largamente sostituito l’eroina in una dinamica che è tutta da analizzare) con un aumento del 19% rispetto al 2015. A queste va aggiunto il numero di morti dovute alle conseguenze a lungo periodo del consumo di oppiacei (problemi epatici, AIDS, infezioni, problemi circolatori, incidenti) in un paese dove l’accesso alla sanità è legato alle disponibilità finanziarie e dove il problema delle dipendenze è stato sempre affrontato con un rigoroso proibizionismo (tolto per il THC in alcuni stati e negli ultimi anni). Si muore dodici volte di più per la nuova epidemia di oppiacei che per le famigerate armi da fuoco, anche considerando picchi statistici come i grandi mass shooting (sulla cui definizione si torna poco più avanti). Si muore per le logiche del nostro modo di produzione. Le fonti dei dati di questo aggiornamento sono sempre le statistiche del CDC.

//// Fine editing 6/10/2017///

Insomma a fronte di un generale incremento delle armi in circolazione negli Stati Uniti, 310 milioni nel 2009, il doppio che nel 1968 e molto maggiore rispetto agli stessi anni novanta, il tasso di omicidi commessi con armi da fuoco è sceso del 49% dal 1993 al 20112. E i così detti “mass shooting”, ovvero quegli eventi che periodicamente riempiono le cronache di quotidiani e tv? Secondo quanto affermato dalla propaganda di Obama e dei suoi sodali sarebbero aumentati e diventati routine. Ma qua interviene un piccolo problema: come viene definito un “mass shooting”? È definito come una sparatoria in cui siano coinvolte almeno quattro persone, quindi qualsiasi conflitto tra gangs nelle aree metropolitane, quelle devastate dal deserto sociale per intenderci, a livello statistico viene definito un “mass shooting”; è facile capire, a questo punto, come i dati a questo punto risultino falsati dato che parliamo per lo più dei così detti “omicidi razionali”, ovverosia omicidi avvenuti per interesse economici e non per follia dell’esecutore, e che sono commessi per lo più con armi ottenute tramite canali illegali, l’esatto contrario della favoletta propagandata da certi settori del Democratic Party. La cosa preoccupante però è che soltanto il 12% dei cittadini americani è conscio del fatto che il tasso di omicidi commessi con armi da fuoco è calato enormemente dal 1993 mentre il 56% è convinto che sia aumentato.3

Bene, questi sono i dati, e di questi bisogna tenere conto prima di aprire una qualsiasi discussione.

Percezione dell’insicurezza e democrazia clientelare

Ora possiamo passare al piano delle ipotesi. Nella nostra opinione è evidente che la politica securitaria, quell’abominio politico che si fonda sulla consapevole distribuzione di notizie, tendenziose o direttamente false, tese ad aumentare il sentimento di insicurezza e paura tra la popolazione, sta continuando a fare i suoi danni dato che a livello di percezione si è convinti che gli omicidi siano aumentati quando in realtà si sono dimezzati. I mass media continuano a rappresentare le strade cittadine come un’orgia di sangue e violenza recapitata gentilmente a domicilio da piccoli delinquenti strafatti di crack quando i crimini sono diminuiti. A chi persegue la costruzione di una società militarizzata, dal conservativegunsgoverno federale con i suoi freddi burocrati o da quello statale con i suoi sceriffi alcolizzati, a chi come i liberal alla Clinton o come certi editorialisti del Washington Post, toglierebbe le armi a tutti per lasciarle solo alle forze armate federali e alle polizie locali a chi, come la Palin o Trump, darebbe le armi a qualsiasi maschio bianco cristiano e le toglierebbe volentieri a qualsiasi afroamericano o ispanico o nativo, sopratutto se povero, questa percezione fa comodo. La disinformazione e l’insicurezza diffusa sono i migliori strumenti per chiunque abbia un’agenda politica autoritaria.

Inoltre bisogna tenere conto di altri fattori per comprendere le differenti agende politiche dei democratici e dei repubblicani in merito alla questione delle armi, sopratutto quali sono le circoscrizione in cui prendono più voti. Al netto di un astensionismo intorno al 50% i Democratici si sono consolidati nelle aree urbane mentre i Repubblicani sono forti in ambito rurale. In mezzo a tutto questo bisogna tenere conto che le circoscrizioni elettorali americane sono disegnate in un modo che a primo occhio appare completamente irrazionale e che in realtà risponde alla logica delle lobby, non necessariamente rappresentanti del grande capitale ma anche di gruppi di interesse popolari e locali, e del fenomeno collegato del gerrymandering, le due grandi costanti della storia politica statunitense. Ora, a partire dagli anni settanta nelle aree urbane c’è stato un incremento della sensazione di insicurezza, per un periodo anche giustificato dai fatti, che ha portato ad avere i “rappresentanti delle comunità locali”, ovvero quelli che procacciano voti e detengono pacchetti di voti, preoccupati in merito alla diffusione delle armi da fuoco. Al contrario nelle aree rurali, comprese quelle storicamente depresse, questa sensazione è stata molto meno presente e il pericolo è visto sopratutto nello straniero, in chi ha una religione diversa o non ne ha una, nelle propaggini del governo federale. E al contempo nelle aree rurali detenere armi da fuoco è perfettamente normale data la forte tradizione venatoria e i retaggi della mentalità da pionieri.

La doppia contraddizione

Ora, teniamo conto di una cosa: l’ideologia americana radicata in ampissime parti della popolazione, a prescindere dalla collocazione di classe, è, a vario livello, antistatalista. La Carta dei Diritti, l’insieme degli emendamenti della costituzione statunitense in merito ai diritti individuali, è l’unica carta costituzionale al mondo che non solo riconosce il diritto all’insurrezione armata contro il governo ma che fornisce anche una copertura legale e ideologica agli strumenti per metterla in atto, l’organizzarsi in milizie armate. Chi scrive questo articolo non è certo un fan delle costituzioni ma bisogna ammettere che il secondo emendamento è fortemente indicativo della mentalità antistatalista che alberga in moltissimi statunitensi. Eppure questo sentimento è spessissimo legato ad un fortissimo patriottismo e ad una visione quasi randiana dell’economia, in una contraddizione tutta da affrontare. Il problema è che la sinistra americana, e intendo tutto quello che si muove alla sinistra della sinistra del Democratic Party, ha per lo più preferito concentrarsi sull’analisi del proprio ombelico e in deliri liberal/lifestyle in merito a qualsiasi cosa al posto di togliersi la molletta dal naso e andare a parlare con i proletari delle zone rurali che sono così rozzi e poco politically correct ma che non hanno altro da perdere che le loro catene fatte da piccoli-medi imprenditori locali, altri “rappresentanti delle comunità locali” di cui sopra, e dalle propaggini di qualche grande industria che ha spostato gli stabilimenti in zone storicamente poco sindacalizzate. E che al contrario di molti liberal-progressisti, diffidano istintivamente per l’azione statale.4

In mezzo a questo abbiamo poi altre due grandi questioni: quella dell’oppressione di razza e quella dell’oppressione di genere. I nostri biases sugli USA ci portano a pensare al possessore medio di armi come ad un redneck con posizioni politiche da Ku Klux Klan, che quando non è impegnato a bere whisky moonshine picchia la moglie con la cinghia. Il punto vero è che storicamente la possibilità di detenere e portare armi è stato un’importante fattore nei movimenti di emancipazione degli afroamericani in quanto era la base per costruire le squadre di autodifesa che agivano nelle zone rurali degli stati del sud per difendere i centri di aggregazione delle comunità nere, scuole, sale civiche e
congregazioni religiose, e le stesse abitazioni della comunità afroamericana. L’autodifesa armata è stata una tematica che ha attraversato trasversalmente le lotte dei neri: dal reverendo Martin Luther King, non violento ma non masochista che dopo un attacco alla sua casa si comprò svariate armi, ai settori più radicali e a tratti militaristi delle Black Panthers, che disposero che ogni membro dovesse armarsi. Stessa dinamica c’è stata per il movimento di emancipazione degli indigeni nel corso degli anni settanta, uno dei grandi rimossi della storia contemporanea statunitense.

Anche nell’ambito della risposta immediata all’oppressione di genere, l’autodifesa femminile davanti alle aggressioni, bisogna tenere conto dell’enorme numero di donne, sopratutto di fasce povere, che grazie alla detenzione di armi riescono a reagire e a fermare a tentativi di violenza.

Inoltre la visione liberal sui detentori di armi, spregiativamente chiamati gun-nuts5, ha un profondo substrato di odio di classe e razzismo nei confronti delle decine di milioni di proletari americani che vivono al di fuori dei confini delle grandi città metropolitane sulle coste, che hanno un diploma superiore da scuola pubblica o al più un diploma di un community college, che lavorano nell’agricoltura e nel settore industriale. Persone, di qualsiasi gruppo etnico, viste tramite l’ottica di una mentalità coloniale, incapaci di autoemancipazione, da educare e disciplinari alle magnifiche sorti progressive.

Negli Stati Uniti esiste un problema di violenza? Certo: in questi anni è toccato il picco dei morti causati dalla polizia6, coincidente con il picco in negativo dei poliziotti morti o feriti durante il servizio7, alla faccia della “war on cops” tanto sbandierata dalla Fox News, un numero altissimo e non facilmente quantificabile di statunitensi, di tutte le etnie, è costretto a vivere nei “trailers park” dove le condizioni di vita, tra lavori sottopagati e abbrutimento, spingono verso la violenza, il razzismo è sempre questione attuale, così come l’oppressione di genere, decine di migliaia di ragazzi ogni anno si trovano davanti alla necessità di arruolarsi come carne da cannone nell’esercito per potersi pagare gli studi o mettere da parte il tanto necessario per comprarsi una casa, migliaia di veterani delle ultime guerre si ritrovano senza sussidi sociali (il tasso di homelessness tra i veterani è molto alto8). E la galleria potrebbe tranquillamente continuare.

Insomma: la violenza è strutturale e quotidiana, e nel 99,999% non data da pazzi armati che sparano ai compagni di classe, come in qualsiasi società basata su una non equa distribuzione delle risorse e su sistemi politici autoritari.

lorcon

L’analisi continua qua

1 http://tinyurl.com/cqcbfr8

2 http://tinyurl.com/pvz6ll4

3 http://tinyurl.com/pvz6ll4 e http://tinyurl.com/kdnkcae

4 Si veda a tal proposito l’ottimo libro “La bibbia e il fucile” di Joe Bageant, Bruno Mondadori, 2010, che esplora gli aspetti meno conosciuta dell’”America profonda”

5 https://libcom.org/library/rednecks-guns-other-anti-racist-stories-strategies

6 http://killedbypolice.net/

http://www.nleomf.org/facts/officer-fatalities-data/year.html

http://www.va.gov/HOMELESS/docs/2010AHARVeteransReport.pdf

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Lunga vita a Jonny Walker, eroe del proletariato informatico!

Dopo 11 anni di meritevole e intenso servizio ci ha lasciato il computer Johnny Walker[1],

Working Class Hero

Working Class Hero

altresì conosciuto come “vecchio cassone”, “vecchio scassone”, “vecchia carriola”, “coso rumoroso” e “ciapapuer”. Iniziò come computer basato su winzoz xp e poi si fece tutte le distro ubuntu dalla 7.0 alla 12.04 lts, sperimentò Xfce e Gnome, scaricò innumerevoli film, mi introdusse ad IRC (e anche a msn), mi fece da primo server web per sperimentare robe da giovane geek, generò chiavi pgp, ospitò virtual machine, ci scrissi sopra la tesina di maturità, lo usai per farci i volantini di collettivi studenteschi e delle liste monotonali[2], gestì traffico tor, sfidò gli dei e vinse. Mi fece tirare grandi madonne a causa di simpatici guasti tipo “condensatore sulla mobo che si brucia”, “disco fisso e alimentatore ammazzati da un picco di tensione”, “ventola che si blocca a caso” (gli montai infatti una ventolona esterna alimentata esternamente a 220 V)[3], “gpu mortamale a caso”. In definitiva un catorcio che si rompeva spesso e che grazie a questa sua caratteristica mi fece imparare svariate cose e che, nonostante i guasti e gli acciacchi, è durato 11 anni che tanto pochi non sono. Ma, nella migliore tradizione, la sua componentistica vivrà in altre macchine in quanto, nel giro di mezzora, è stato completamente smontato con il solo aiuto di un cacciavite di 40 anni fa (quelli con il manico in legno e con la doppia punta). Dopo qualche mese di kernel panic a random si è unito agli immortali Loa del cyberspazio e il suo bios correrà libero lungo i cavi e le reti wireless di tutto il mondo. Lunga vita a Jonny Walker, eroe del proletariato informatico!

[1]le macchine che gestisco hanno tutti nomi di alcoolici: Johnny Walker (la sua memoria sia benedizione), Wild Turkey, Sandeman, Bushmill, Lambrusco

[2]che cosa siano le liste monotonali e che cosa abbiano rappresentato nel mio ex liceo lo sanno in pochi e quei pochi non parleranno

[3] Fu un discreto sbatti: per aprire un foro, di notevoli dimensioni, utilizzai una sega a tazza prestatami da mio padre. Il problema è che, sia io che il suddetto genitore, eravamo convinti che il pezzo da bucare fosse in lamierino di acciaio tenero/lega d’alluminio. E invece no, porco di quel dio, era in acciaio rozzo & carogna mentre la nostra sega a tazza era da legno. Certo, riuscimmo a bucarlo ma la sega a tazza si trovò sdentata.

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Appropriarsi della scienza – farla finita con il primitivismo

Questo articolo nasce come risposta all’articolo di Philippe Godard apparso su A – Rivista Anarchica n. 398. È nato come riflessione collettiva tra il sottoscritto e altri tre compagni. Un estratto è stato pubblicato nella rubrica della corrispondenza su A – Rivista Anarchica numero 401. Qua appare la versione integrale, come apparsa anche su Umanità Nova numero 30 anno 95. Si ringraziano G, G e C per gli spunti e le correzioni.

Appropriarsi della scienza – farla finita con il primitivismo

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Thx ALG per l’immagine scovata sull’internet

Ben volentieri recepiamo l’invito al dibattito apparso su A Rivista numero 397 in merito all’articolo di Philippe Godard sulla ricerca scientifica. Da tempo pensiamo che sia necessario avviare una riflessione in campo anarchico in merito alla questione della scienza e della tecnica, sia nei risvolti applicativi della metodologia scientifica, le tecnologie, che nel merito della metodologia scientifica in sé e per sé.
È oramai fatto accertato che l’ultimo secolo e mezzo di storia umana abbiano visto una profonda accelerazione sia delle scoperte scientifiche “di base” che dell’invenzione di tecnologie basate sulle scoperte stesse. Questa accelerazione, riscontrabile in più campi, si è sviluppata insieme all’attuale sistema sociale, basato su determinati rapporti di produzione, ma al contempo mostra i limiti dell’ambiente stesso in cui si è sviluppata.
Al contrario del Godard noi non crediamo che la “scienza” sia legata in modo inestricabile con un sistema di dominio. Intanto bisogna capire di che cosa stiamo parlando: la scienza non è un oggetto, o meglio una collezione di oggetti-nozioni, ma bensì è un metodo. La metodologia scientifica è, a nostro modo di vedere, una metodologia intrinsecamente libertaria: l’onere della prova, la falsificabilità, la verificabilità, la riproducibilità, ovvero i capisaldi dei modelli di spiegazione scientifici, hanno sostanzialmente permesso di strappare dalle mani dei sacerdoti la spiegazione del mondo eliminando l’autoritaria dimostrazione per ipso-dixit e facendo stracci dei modelli finalisti e teologici cari alla tradizione cristiana e in generale alle tradizioni trascendentali.

Se pensiamo alla storia del pensiero umano come ad una storia di successioni di diversi modelli di spiegazione del mondo non possiamo notare quella gigantesca linea di frattura, frastagliata certo, che separa l’epoca medioevale in cui tutto veniva ricondotto all’azione divina dall’epoca moderna in cui i modelli di spiegazione del mondo devono essere continuamente rimessi in discussione e non peccano di una visione finalistica e antropocentrica. È caratteristica intrinseca della scienza stessa il mettersi continuamente in discussione da un punto di vista dialettico. Basti pensare all’evoluzione delle teorie in campo fisico: dal modello meccanicista-classico newtoniano alle formalizzazione dell’elettromagnetismo di Maxwell alla formulazione della teoria della relatività alla fisica quantistica. O ancora ai diversi modelli di spiegazione dei fenomeni biologici che si sono susseguiti dall’inizio dell’età moderna ad ora, dalla teoria degli umori alle più recenti scoperte nel campo della genetica e al legame tra genetica e stimoli ambientali.
Ogni teoria scientifica, invero, contiene il germe del suo stesso superamento dialettico. Nei fatti anche i modelli più formalizzati da un punto di vista logico-matematico sono per loro stessa natura incompleti o incoerenti (semplificando fino alla brutalizzazione il teorema dell’incompletezza di Goedel) e quindi destinati ad essere superati.

Quindi la scienza è neutrale? No, affatto, anzi: la scienza è di parte in quanto per sua natura mistifica e supera modelli di spiegazione non più atti allo scopo. E in questo contiene anche le possibilità di superare un modello di organizzazione sociale basata sul dominio.
Ma la ricerca scientifica avviene ovviamente all’interno di una società che, al momento attuale, ha trai suoi principi cardine quello del dominio dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sull’ambiente. Chi si occupa di ricerca vive all’interno di un certo zeitgeist ed è attraversato da certe strutture sociali e tenderà a riprodurle.

Ma questo non elimina un fatto fondamentale: la tecnologia e la scienza hanno un immenso potenziale di emancipazione che è al momento posto sotto sequestro dal capitalismo. Sulla scorta di svariati pensatori possiamo tranquillamente affermare che le storture sociali che viviamo sono dovute al permanere di una condizione di scarsità, per quanto sempre più artificiosa rispetto al passato, dovuta a dei particolari rapporti di produzione. Liberare le forze emancipatrici della tecnologia e indirizzarle verso un uso liberatorio significa liberare l’uomo dalla schiavitù del lavoro salariato e dalla schiavitù derivata dal mancato soddisfacimento dei propri bisogni primari.
Nei fatti la questione non è bloccare o meno la ricerca scientifica ma strappare la ricerca scientifica dalle mani dei detentori dei mezzi di produzione.

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immagine inserita perchè ci sta bene

Una società anarchica che voglia essere includente e universabilizzabile non potrà basarsi su paradigmi primitivisti: tornare ad un presupposto stato di natura per liberarsi dalle catene del capitale significa solamente incatenarsi ad un modello di vita meschino, abbruttito e, in ultima analisi, non desiderabile.

Il primitivismo è, a nostro parere, un paradigma estremamente autoritario in quanto è vivibile solamente da quegli individui che hanno la ventura di nascere sani. E non raccontiamoci che un principio di solidarietà farebbe in modo che questi individui vivrebbero protetti dalle proprie comunità: con certe malattie senza un adeguato supporto medico semplicemente muori. Soffrendo. Dovrebbe essere quindi una forma passivizzata e artificiosamente naturale di eugenetica la nostra proposta?

Dinamica dei sistemi

Colpisce particolarmente il passaggio nel pezzo del Godard che afferma, citiamo testualmente:

“[…]Essa [la scienza, nda] spiega soltanto un’infinitesima parte del tutto, per almeno due ragioni fondamentali. In primo luogo, più fa passi avanti e più mette in luce la complessità dell’universo, specialmente in campo biologico; infatti, più gli scienziati progrediscono, più regrediscono mettendo in luce la complessità delle relazioni tra gli atomi, e in particolare tra quelli che compongono gli esseri viventi. La scienza fa arretrare i limiti del suo campo di ricerca, senza riuscire mai a scoprire la particella ultima o il legame ultimo tra un fatto e le sue conseguenze. […]
Soprattutto, non è soltanto la complessità a essere insondabile: i sistemi viventi non sono semplicemente analizzabili come relazioni statiche. Nessuno mai potrà renderne conto in qualunque rapporto o tesi. L’aspetto profondamente dinamico della vita è irriducibile a qualunque teoria. […]”

In questo passaggio l’autore dimostra, a nostro parere, di non aver compreso quale è il punto di forza di un modello di spiegazione scientifica: l’essere incompleto e il dover continuamente aggiornarsi. La ricerca scientifica è costitutivamente aperta e in divenire.
Non è un caso che il paradigma adottato negli ultimi anni nell’ambito dei settori più avanzati della ricerca biologica (e non solo) è quello dei sistemi complessi, non lineari, non riconducibili ad una semplice somma delle parti ma bensì alla relazione tra le stesse parti e alle funzioni emergenti di un sistema. I modelli di spiegazione meccanicista-classici, quelli newtoniani, sono già stati ampiamente superati nell’ambito della fisica teorica, figuriamoci in ambito della ricerca biologica! Basti pensare, ad esempio, al filone di ricerca sui fattori epigenetici nell’emergere di patologie o alle ricerche sulle reti neurali.
Quello che Godard individua come limite della ricerca scientifica è in realtà il grande punto di forza di una metodologia che ristruttura continuamente se stessa.

Il vero limite, come già ricordato, risiede nelle strutture sociali all’interno delle quali si ritrova ingabbiata la ricerca scientifica e non in un problema epistemologico.

Tra le spire del capitale e fuori

L’attuale modo di produzione e i rapporti di produzione hanno relegato le applicazioni della scienza alla progettazione e alla realizzazione di beni di consumo di massa o di beni di distruzione, intrappolando la tecnologia all’interno di cicli di distruzione-produzione tipici del modo di produzione capitalista.

In più passaggi dell’articolo di Godard e della sua risposta alla lettera sul numero 399 di A viene citata la questione nucleare, arrivando ad affermare che lo sviluppo degli armamenti atomici è stata la logica conseguenza delle scoperte della Curie. Certamente gli armamenti atomici non ci potrebbero essere stati senza la scoperta della radioattività (ma neanche sistemi diagnostici come le radiografie o sistemi di cura come le radioterapie ci sarebbero stati), ma pretendere di bloccare la ricerca scientifica, ovvero la comprensione del mondo, perché forse le scoperte potrebbero essere usate, forse, per fini non etici è completamente insensato. Così come è completamente insensato abbandonarsi a suggestioni fintamente olistiche e primitiviste che rigettano le più basilari evidenze. Mi riferisco qua a quella strizzatina d’occhio fatta dall’articolo in questione in merito alle presunte cure “naturali” che sono niente altro che truffe in mano ad individui ed organizzazioni che nulla hanna da invidiare alle multinazionali farmaceutiche in quanto a scorrettezza. Ma torniamo al punto.

Appropriarsi dei saperi tecnici e della metodologia scientifica significa dotarsi di un potentissimo strumento e privare il nemico dei vantaggi derivanti dalla detenzione di certe tecnologie strappandole al monopolio delle strutture sociali autoritarie.

Ora, intendiamoci, uno dei maggiori volani delle scoperte scientifiche dalla fine del XIX secolo è stato il complesso militare-industriale in quanto è quello che detiene le risorse necessarie a finanziare la ricerca scientifica. Ma, attenzione, le strutture autoritarie hanno dovuto inventarsi una serie di escamotage per ingabbiare un metodo che non è loro. Si pensi ai vari metodi per bloccare la libera diffusione di informazione e applicazioni tecnologiche, anche fondamentali per la sopravvivenza delle persone come i farmaci, tramate l’apparato di brevetti, copyright, imposizioni di segretazioni sulle ricerche.

Il metodo scientifico è anche quello che ha permesso l’aumento della qualità della vita per miliardi di persone, debellato epidemie, ridotto le carestie, creato infrastrutture resilienti alle calamità; il metodo scientifico è ciò che permette di individuare in modo preciso l’orrore della società capitalista: si pensi al ruolo delle scienze sociali nel denunciare l’orrore di una società basata sull’accumulazione di denaro o al ruolo delle scienze naturali nel denunciare la distruzione dell’ecosistema. A meno che non si preferisca credere alle panzane delle scie chimiche e dimenticarsi dell’effetto serra e del global warming è evidente che la prospettiva politica dell’anarchismo deve necessariamente legarsi all’uso di metodologie scientifiche. E non affermiamo di certo una novità in campo anarchico e libertario: si pensi a figure come i Reclus o alla formazione scientifica di un Kropotkin o a pensatori come Boockin.

La vera questione è: perché in un secolo e mezzo di movimenti sociali organizzati non siamo stati in grado di strappare la ricerca scientifica dalle mani del nemico? Per quale motivo al posto di usare la tecnologia per meccanizzare i lavori ripetitivi e pesanti e liberare il tempo per individui e comunità permettiamo che questa tecnologia venga usata per asservire e disciplinare la forza lavoro o per estromettere milioni di individui nei vari momenti di ristrutturazione del capitale?

Per quale motivo, al pari della volpe di fedriana memoria davanti all’uva troppo alta, abbiamo preferito raccontarci la storiella autoconsolatoria, vero vessillo di impotenza, della scienza costitutivamente cattiva al posto di riflettere seriamente sulle modalità di azione da adottare davanti alla barbarie dello stato e del capitale?

lorcon

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Nascita di uno stato

Articolo Pubblicato sul numero 26 anno 95 di Umanità Nova

Questa estate i giornali del Regno Unito hanno ospitato diversi interventi sulla legittimità di chiamare l’Isis con il suo nome o se utilizzare il dispregiativo Daesh,‭ ‬che significa‭ “‬portare di discordia‭” ‬ed è il termine spregiativo per indicare l’Isis nel mondo arabo.
Polemica che potrebbe risultare alquanto capziosa e sterile ma in verità non priva di interesse in quanto emerge la volontà,‭ ‬da parte della maggior parte degli opinionisti,‭ ‬di non associare il concetto di stato ad una banda di tagliagole.
Eppure l’Isis ha moltissime affinità con la genesi degli stati moderni:‭ ‬ha capacità di drenare risorse sul territorio,‭ ‬di imporre una propria sovranità de facto e tenta di raggiungere il monopolio della violenza legittima.‭ ‬Inoltre negli ultimi mesi c’è stato il tentativo di coniare proprie monete e creare un sistema monetario che si distacchi da quello internazionale,‭ ‬tentativo probabilmente destinato al fallimento,‭ ‬il che indicherebbe il tentativo di raggiungere anche la sovranità monetaria.
Grazie alla scuola storiografica de Les Annales,‭ ‬sappiamo che capacità di drenare risorse materiali ed economiche,‭ ‬imporre una sovranità e quindi un’omogeneità territoriale,‭ ‬e un monopolio della violenza sono i tre passi necessari e intrinsecamente legati tra di loro che hanno permesso la nascita dei moderni stati europei.
La capacità di drenare risorse dell’Isis è evidente dalla gestione di un ampia rete di produzione e vendita del petrolio,‭ ‬ma anche di manufatti archeologici e di schiavi,‭ ‬oltre che dalla costruzione di un fisco,‭ ‬e di una conseguente classe di burocrati di weberiana memoria.‭ ‬Questa capacità avrebbe reso possibile un parziale,‭ ‬ma comunque indicativo,‭ ‬smarcamento dai grandi finanziatori internazionali,‭ ‬stato turco e fazioni delle petromonarchie del Golfo,‭ ‬che comunque rimangono fondamentali per la questione logistica.‭ ‬La sovranità territoriale de facto è stata raggiunta su una vasta area dell’interno siriano e irakeno,‭ ‬distruggendo,‭ ‬probabilmente una volta per tutta,‭ ‬la linea confinaria decisa negli anni venti dalle potenze europee.‭ ‬Certamente all’interno di questa area permangono spinte centrifughe e vi sono sommovimenti tra le tribù e i clan ma non paiono in grado di scalfire nel breve termine il dominio degli islamisti.‭ ‬Il monopolio della violenza legittima è stato raggiunto eliminando fisicamente i concorrenti del Baat’h siriano,‭ ‬del FSA e di altri gruppi islamisti.
Intendiamoci:‭ ‬i processi di formazione degli stati europei sono durati secoli ma le dinamiche sono molto similari.
Anche la creazione di un’omogeneità culturale nei territori controllati dall’Isis ripercorre dinamiche che possiamo trovare nella formazione della Francia moderna,‭ ‬con un processo che‭ “‬parte‭” ‬nen milleduecento e‭ “‬termina‭” ‬con la fine della guerra dei cento anni due secoli dopo:‭ ‬così come il potere regio e le baronie del nord conducono una spietata campagna di sterminio,‭ ‬con l’attivo consenso del potere papale che arriva a bandire apposite crociate,‭ ‬contro i portatori di una religione alternativa,‭ ‬i Catari,‭ ‬che sono anche portatori di una cultura alternativa a quella del nord della Francia,‭ ‬occitani e arpitani,‭ ‬l’Isis ha condotto una campagna di genocidio nei confronti degli Yazidi,‭ ‬che non sono un gruppo etnico come spesso affermato in occidente,‭ ‬etnicamente parlando sono curdi,‭ ‬ma sono membri di un antichissimo culto pre-islamico.‭ ‬Un altro ciclo di massacri nei confronti dei portatori di una cultura alternativa lo troviamo nel corso del sedicesimo e diciassettesimo secolo in Europa per cancellare la cultura alternativa che va sotto il vasto e generico nome di‭ “‬stregoneria‭”‬,‭ ‬così come sostenuto da Giorgio Galli‭[‬4‭]‬,‭ ‬e sarà uno modi in cui si affermerà il moderno stato hobbesiano in Europa.

il modo più efficace per contrastare la rumaglia reazionaria islamista: tirargli una 7.62 addosso

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Ma anche risalendo indietro nella storia europea,‭ ‬alla nascita delle dinastie nobiliari nell’alto medioevo,‭ ‬possiamo osservare che queste,‭ ‬e la loro relativa capacità di controllo del territorio,‭ ‬si sono affermate facendo fuori i concorrenti con i metodi più subdoli e violenti,‭ ‬massacrando le riottose comunità locali e mettendosi in qualche modo in luce agli occhi dell’imperatore del Sacro Romano Impero che sanciva il dominio de iure.
Altro esempio,‭ ‬forse ancora più calzante,‭ ‬è la nascita delle petromonarchie del Golfo:‭ ‬l’Arabia Saudita nasce per opera di bande di beduini assoldati dalla Gran Bretagna per aprire un ulteriore fronte contro l’Impero Ottomano durante la Grande Guerra,‭ ‬stessa cosa per Kuwait,‭ ‬EAU e Qatar.‭ ‬E anche qua possiamo osservare scontri interni per accedere al trono tra le bande degli Al-Saud e quelle degli Al-Husayn che vedranno vittoriosi i primi.
La nascita dello stato moderno è intrisa,‭ ‬anzi è costituita,‭ ‬da fatti di sangue,‭ ‬di massacri,‭ ‬genocidi e stragi di vario genere.
Non è dato sapere se l’Isis esisterà ancora tra qualche anno,‭ ‬se resisterà alle spinte centrifughe e alla controffensiva del Kurdistan irakeno,‭ ‬altro stato de facto anche se non de iure,‭ ‬e dei confederalisti democratici dei cantoni del Kurdistan siriano e turco,‭ ‬che invece non vogliono essere stato,‭ ‬e ad un eventuale stop dei flussi in entrata,‭ ‬di soldi e materiale bellico,‭ ‬e in uscita,‭ ‬di petrolio e altri beni,‭ ‬che al momento nessuno pare voler mettere in atto.‭ ‬Non tutti sono riusciti a fondare i loro stati ma cionondimeno nel tentativo di fondarlo hanno riempito di morti la storia:‭ ‬basti pensare al celebre Valentino Borgia,‭ ‬che fu sì la macchiavellica volpe e leone ma dovette soccombere davanti ai leoni più grossi e alla morte del pontefice suo padre che gli garantiva copertura senza essere ancora riuscito ad assicurarsi del tutto il suo regno.
Quel che è certo è che la vicenda Isis cambierà una volta per tutte le mappe politiche dell’area irakeno-siriaca e che non vi sarà un ritorno alla‭ “‬normalità‭” ‬delle frontiere tracciate con il righello.
E tantomeno non ci sarà il ritorno all’assetto demografico di soli tre anni fa dopo la diaspora di decine di migliaia di Yazidi e le decine di migliaia di profughi siriani diretti in Europa e le altre centinaia di migliaia bloccati nei paesi limitrofi,‭ ‬Libano e Giordania in primis.
Ma la polemica sui giornali del Regno Unito mostra anche un altro grande errore di valutazione di molti liberal occidentali,‭ ‬e anche di molti progressisti arabi,‭ ‬nei confronti dell’Isis:‭ ‬utilizzare il termine daesh al posto di Isis significa mascherare il fatto che l’Isis nasce all’interno delle tensioni e delle contraddizioni del moderno medio oriente.‭ ‬Gli islamisti del califfato non sono alieni calati dallo spazio.‭ ‬Nascono all’interno del mondo musulmano,‭ ‬e nello specifico del mondo musulmano sunnita e wahabita,‭ ‬sono l’espressione di quella corrente integralista dell’islam sunnita ampiamente sovvenzionata dall’Arabia Saudita in tutto il mondo e dell’incapacità dei raggruppamenti politici laici di contrastare questa rumaglia clericale.‭ ‬Non sono la creazione di chissà quale ordito complottista per quanto sicuramente ci siano stati interventi che hanno favorito l’espansione del califfato‭[‬6‭]‬,‭ ‬ma il ruolo dell’eterogenesi dei fini e la complessità dei processi della storia della politica sono già evidenti in un cosmo come quello della Grecia classica delle guerre peloponnesiache la cui immagine ci viene restituita da Tucidide,‭ ‬figuriamoci nel duemilaquindici.

‬Al contrario di quanto pensano gli onesti liberali della stampa britannica il mondo muta,‭ ‬gli stati si formano e si distruggono tramite processi storici e non sono dati-di-fatto immutabili.
All’azione militante la sfida di indirizzare i processi storici verso una reale emancipazione umana.

lorcon

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Val d’Aosta

Capita che io ogni tanto me ne vada in vacanza. Nello specifico me ne sono andato una settimana in quella ridente regione che è la Val d’Aosta a cui ho aggiunto qualche puntata in Savoia. Quindi dato che questo è un blog di foto oltre che di articoli vi beccate una mini-selezione delle foto scattate.

Tanto per iniziare: Aosta, chiostro di San Orso, adiacente all’omonima chiesa. Alquanto notevoli i capitelli in pietra bianca, calcare se non vado errando, brunita tramite pigmenti (aka pitturata, ma detto così fa più figo). Sotto la chiesa è presente una cripta e sotto l’altare della cripta è presente un buco che lo attraversa longitudinalmente in cui la gente striscia per chiedere la grazia per i reumatismi. L’ho scoperto in diretta vedendo una tizia over 70 farlo. Dato che è logico che strisciare in un buco sotterraneo buio e umido faccia bene ai reumatismi, misteri della chiesa cattolica.

 

 

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Il Diaulo

 

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Venti di guerra sulla Libia?

Apparso su Umanità Nova numero 21 anno 95

Il possibile intervento militare europeo

Venti di guerra sulla Libia?

Oramai da qualche mese si sente parlare di un possibile intervento militare in territorio libico per contrastare il fenomeno migratorio. È un intervento fortemente voluto dal governo italiano e che sembra aver trovato una favorevole accoglienza nell’Unione Europea e che tenderebbe a superare l’approccio delle operazioni Mare Nostrum e Triton.

A fine maggio sono usciti su Wikileaks due interessanti documenti [1] che delineano gli aspetti generali della missione e i suoi obbiettivi. Contemporaneamente, secondo l’autorevole quotidiano britannico Guardian[2], sono iniziate le manovre diplomatiche per convincere i membri, sopratutto quelli con potere di veto, del Consiglio di Sicurezza dell’ONU a dare il suo placet all’operazione.

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Perchè questa immagine di Arzach del magnifico Moebius? Perchè si.

Nei due documenti i tempi di inizio dell’operazione, divisa in tre diverse fasi, vengono indicati per fine giugno 2015; l’operazione prevede l’uso della forza militare per la distruzione delle organizzazioni dei trafficanti umani e delle stesse imbarcazioni usate per il traffico; l’operazione prevede che ci sia il placet del Consiglio di Sicurezza e/o del governo libico. Tutti questi punti pongono una serie di problemi, problemi che a loro volta indicano la complessità dello scenario del Mediterraneo centro-meridionale.

Innanzi tutto i tempi stretti che vengono indicati: due mesi di tempo (da quando sono stati scritti i documenti) per una complessa opera di diplomazia internazionale tesa ad ottenere il placet ONU per l’operazione e prepararla a livello operativo non sono tantissimi. Ma, sempre sul terreno diplomatico, la partita realmente complessa è quella che riguarda i rapporti con il governo libico. Perchè non esiste un governo unitario ma, in seguito alla guerra civile, il territorio libico si è diviso in due parti controllate da due governi differenti che si dichiarano entrambi leggiti. Ambo i governi, di cui solo uno è riconosciuto dalla comunità internazionale, si sono dichiarati contrari all’intervento europeo e hanno dichiarato che la questione dei flussi migratori è questione interna della Libia, quindi non si capisce come l’UE farà ad ottenere il placet del governo libico.

Altra complessa questione è quella riguardante le reazioni degli altri stati dell’area nord-africana. Qualora vi fosse uno stop, o anche una significativa riduzione, del flusso di migranti passante per la Libia il flusso stesso si sposterebbe sugli altre tre paesi facilmente utilizzabili per il traffico: Algeria, Tunisia, estremamente vicine alla costa italiana, e Marocco, vicinissimo alla costa spagnola e sul cui territorio sono presenti enclavi europee già estremamente fortificate per contrastare l’immigrazione.

È facile immaginare che i governi di questi stati sarebbero ben poco felici di veder trasferire su di sé il flusso migratorio ed è altrettanto facile immaginare che la loro reazione sarebbe l’uso della forza contro i migranti stessi.

Altro possibile canale per raggiungere l’Europa è la “rotta orientale”, quella che passa dalla Turchia e dalla Grecia. E anche qua si aprono altri problemi: l’Europa si troverebbe con il dover gestire la frontiera greco-turca e quindi a dover trattare da un lato con il ben poco conciliante governo turco dell’AKP e dall’altro con il governo greco di Syriza che è al completo sbando finanziario, e in forte divergenza con i principali paesi UE, e non sarebbe in grado di affrontare da solo l’emergenza che acuirebbe il già forte flusso migratorio nel paese ellenico.

Altra questione è l’operazione in sé e per sé: l’operazione avrebbe il compito di andare a distruggere i vascelli utilizzati dai trafficanti e di dare un colpo fatale alle organizzazioni degli stessi. Ma i vascelli usati dai trafficanti sono vascelli acquistati giorno per giorno dai pescatori libici e usati per un solo viaggio. Come fare, quindi, a mettere fuori gioco questi vascelli nella breve finestra di tempo tra la scoperta degli stessi e l’imbarco dei migranti? E come fare, prendendo per buono l’obbiettivo dichiarato dall’UE, a garantire anche la vita dei migranti? Sono due obbiettivi inconciliabili data anche la difficoltà a costruire un’efficiente e affidabile rete di intelligence in uno scenario con moltissimi attori come quello libico. In questa fase, tra l’altro, è previsto anche l’uso di forze anfibie, sconfessando quindi quanto più volte dichiarato dagli esponenti degli organi UE a riguardo del fatto che non ci sarebbero stati “boots on the ground”. E tutto questo ovviamente espone gli stessi soldati europei a rischi in quanto è facile immagine che qualcuno mal accetterà l’intervento straniero in Libia. Inoltre i danneggiamenti alle infrastrutture dei porti porterà ad un ulteriore stretta sulle condizioni di vita delle popolazioni locali la cui economia si basa sul commercio ittico: bel modo per generare ulteriori profughi.

Insomma un’operazione militare tutt’altro che semplice e tutt’altro che tesa a salvaguardare le vite dei migranti e dei civili libici.

Un’operazione che fa anche riflettere sulla totale idiozia delle classi dirigenti europee: prima fanno accordi con Gheddafi per ridurre i flussi migratori, cosa effettivamente avvenuta, poi quando è diventato impresentabile agli occhi del mondo lo scalzano, 2011, gettando il paese nel caos e infine devono trovare il modo intervenire direttamente quando la situazione si fa intollerabile sia dal lato dei flussi migratori che dal lato del rischio per le infrastrutture di proprietà di aziende europee presenti in Libia, pensiamo ai terminal gas-petroliferi e ai campi di estrazione stessi. E d’altra parte una possibile chiave di lettura sulle motivazioni di questo possibile intervento potrebbe passare anche da qua: oltre a colpire il flusso migratorio sarebbe interesse europeo anche mettere in sicurezza il flusso di combustibile dalla Libia, sopratutto in un momento in cui i bassi rapporti con la Russia potrebbero innescare un problema sulla questione vitale dell’approvvigionamento energetico.

Tanto per aggiungere un ulteriore elemento di analisi: il flusso migratorio che vediamo adesso ha come suo più vicino corrispettivo storico nell’area occidentale-mediterranea solo quello del periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale [3].

Infine alcune considerazioni sul ruolo italiano in questa vicenda. Renzi e, sopratutto la sua donna di fiducia in Europa, Mogherini, hanno mostrato di saper giocarsi la partita a livello europeo. Ma al contempo vengono evidenziati tutti i limiti dell’Unione Europea stessa che si trova a dover organizzare un intervento raffazzonato, di dubbia riuscita, con costi non ancora calcolabili, che rischia di rimettere in discussione i rapporti con vari paesi e primo nel suo genere: nei fatti un’operazione militare squisitamente a guida UE non si è ancora avuta. In ambito interno dell’Italia il dato che emerge è che il PD è disposto a fare quello che i leghisti, nelle loro sparate fascistoidi e propagandiste, proponevano già quindici anni fa: sparare sui barconi e fermare i flussi manu militari. È forse un caso che la propaganda leghista per l’ultima tornata elettorale si sia spostata sui nemici interni, individuati in sinti e rom?

Il Partito Democratico si dimostra ancora una volta all’avanguardia nel famoso sport tipico di tutti i governi centro-sinistri di superare a destra quanto proposto, vagheggiato e sognato, dai precedenti governi di centrodestra.

lorcon

[1] https://wikileaks.org/eu-military-refugees/PMG/page-1.html

[2] http://www.theguardian.com/world/2015/may/13/migrant-crisis-eu-plan-to-strike-libya-networks-could-include-ground-forces e http://www.theguardian.com/world/2015/may/10/libya-people-smuggle-military-action-not-stop-multifaceted-trade

[3] http://www.theguardian.com/world/commentisfree/2015/jan/03/arab-spring-migrant-wave-instability-war


Per un ulterio approfondimento della vicenda consiglio di sentire la mia chiaccherata di venerdì mattina ai microfoni di Anarres, trasmissione informativa di Radio Blackout. La registrazione del mio intervento della puntata la potete trovare su anarres-info.noblogs.org

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La Chimera movimentista

Articolo pubblicato sul numero 15 anno 95 di Umanità Nova, si inserisce nel dibattito sulla questione organizzativa e del rapporto tra organizzazione anarchica e movimenti sociali che va avanti da qualche numero.

La Chimera movimentista

L’articolo “Le lotte e i pergatto-anarchistacorsi di liberazione”, pubblicato sul numero 13 anno 95, di Umanità Nova, presenta moltissimi (s)punti critici. Intanto non si può non rilevare un’errata impostazione di base: viene affermato che la lotta di classe ha diminuito di intensità fino a quasi a sparire. Niente di più sbagliato: la lotta di classe è un processo insito nella modalità di produzione capitalista. La lotta di classe non può scomparire e tanto meno ridursi di intensità, il punto, è semmai, che negli ultimi anni viene combattuta attivamente e coscientemente sopratutto dal padronato. Difatti la lotta di classe non è monodirezionale, combattuta solo dal proletariato ma è un processo dialettico in cui le classi si scontrano tra di loro. L’aumento della forbice tra ricchi e poveri è la dimostrazione puntuale del fatto che al momento chi è in vantaggio al momento è chi detiene i mezzi di produzione. In tutto questo rientrano i processi di finanziarizzazione dell’economia, le delocalizzazioni, i processi di accumulazione mediante le grandi opere, infrastrutturali o urbanistiche.

Il problema è, semmai, che chi campa di lavoro salariato non è dotato di un organizzazione tale per rovesciare il tavolo su cui si gioca la partita. Anzi, spesso sembra quasi non rendersi conto che viene giocata una partita in cui la posta in gioco è l’assoggettamento alle logiche di produzione capitaliste tipiche di questo tempo. Le fasi più battagliere dell’otto-novecento, quelle che hanno visto il movimento dei lavoratori strappare grosse conquiste, ora messe in discussione dalla profonda modifica degli equilibri sociali, sono state caratterizzate dalla presenza di strutture e organizzazioni che riuscivano non solo a contrastare l’opera del padronato ma anche a spingere in avanti e strappare migliori condizioni di vita: diminuzione dell’orario di lavoro, aumenti salariali, diritti civili e politici, garanzie sul posto del lavoro, ridistribuzione, anche indiretta, tramite i meccanismi del welfare state, del reddito. Certamente tutto questo è stato possibile grazie al fatto che, pensiamo agli anni 60-70, era necessaria forza lavoro per sostenere i boom economici e che questa forza lavoro, di conseguenza, era dotata di un grosso potere contrattuale. In un mondo diviso in blocchi non si poteva giocare con le delocalizzazioni e la finanziarizzazione estrema dell’economia era a di là da venire. L’insieme di questo condizioni, soggettive e oggettive, ha portato alle maggiori conquiste sociali i cui frutti oggi vediamo mettere in discussione.

Emerge di conseguenza la necessità di porsi due fondamentali domande: come resistere? E come rilanciare la partita in senso rivoluzionario, ovvero sia mettendo radicalmente in crisi il sistema di produzione capitalista e imponendo un suo superamento verso nuove forme di produzione?

Il movimentismo, quell’idea perniciosa che riconduce la crisi dei movimenti sociali a una narrazione che asserisce che la mancanza dell’unità tra gruppi, gruppetti e sette politiche, è la principale causa della mancanza di capacità di rispondere agli attacchi portati avanti dalla classe dominanti, dimostra tutti i suoi limiti. Noi anarchici vogliamo la rivoluzione sociale e la vogliamo tramite mezzi e fini coerenti tra di loro. Ovvero sia asseriamo la necessità di un’organizzazione che prefiguri qui e ora il mondo che noi vogliamo. La logica movimentista invece fa appello, quasi sempre, a modalità egemoniche dell’azione politica, pretendendo un’unità tattica-strategica con gruppi politici fondamentalmente anti-anarchici, ovvero autoritari. In campo anarchico questa tendenza fa appello ad una presunta potenza delle lotte o delle situazioni al di fuori dello specifico.

Affermare la necessità di una forte organizzazione anarchica specifica, strutturata in modo federalista e orizzontale, non è autoreferenzialità. Al contrario significa affermare che i nostri unici referenti sono coloro che appartengono alle classi subalterne, a cui noi stessi apparteniamo, e non un generico “movimento” con cui cercare in modo parossistico l’unità.

A questo va aggiunto il problema della mediatizzazione delle lotte stesse. Le manifestazioni teatrino, le patte teatrali, l’insurrezionismo estetico, hanno caratterizzato una buona parte degli ultimi venti anni di lotte sociali. È forse un caso che siano stati gli anni in cui sono state maggiormente messe in crisi le conquiste degli ultimi 150 anni? È completamente velleitario pensare che questi presunti momenti di rottura siano momenti in cui si esce dal rapporto sociale capitalistico. Molto spesso non sono niente altro che pezzi dello spettacolo vigente. E in quanto tale sono innocui, compatibili, digeribili, assimilabili.

Le lotte sociali sono dei processi sociali e le manifestazioni, i momenti più visibili, sono solamente una parte di questi processi. Pensare al contrario significa scambiare una parte per il tutto.

Così come affermare che “[…]il nuovo rapporto sociale è già presente nello stile di vita individuale […] come nel momento collettivo […] basterà semplicemente che esso si estenda.[…]” è profondamente errato in quanto si elude del tutto il problema principale: la mancanza di rapporti forza tali da creare qui e ora, o anche in modo graduale ma costante, un rapporto sociale radicalmente differente rispetto a quello attuale. E, sopratutto, si elude il problema che questo nuovo rapporto sociale deve essere accessibile a tutti e non solo agli appartenenti alla “subcultura movimento”. Bisogna si costruire tutti i giorni opposizioni, resti, situazioni radicali, ma bisogna farlo tenendo ben presente che solo lo sviluppo dell’organizzazione anarchica specifica può bloccare a priori le derive auoritarie, egemoniche, elettoraliste, a cui spesso i “movimenti” vanno incontro.

La logica movimentista affonda le sue basi nel percepirsi come corpo separato rispetto alla società, logica fortemente autoreferenziale e da sottocultura, incapace di andare al nodo della questione: il rovesciamento del rapporto di forza tra le classi, ovvero l’appropriazione da parte del proletariato dei mezzi di produzione e la gestione degli stessa senza burocrazie e mediatori, ovvero l’abolizione delle classi sociali e della modalità di produzione capitalista.

Il movimentismo è figlio di un’autoghettizazione in cui possono essere elaborati solamente percorsi estremamente limitati e parziali, del tutto rientranti nella compatibilità capitalista, facilmente riassorbili e cooptabili in logiche di rappresentanza e clientela, che si risolvono, in definitiva, nella cura del proprio orticello mentre ci si racconta di praterie sterminate da colonizzare. Ma la prateria narrata è in realtà un disegno su di un muro mentre la prateria vera sta al di là del muro della narrazione.

E ora veniamo ad un altro punto, quello delle “lotte a margine della condizione salariata”. Come anarchici siamo ben consci del fatto che la società non si risolve semplicemente nella contraddizione capitale-lavoro ma che a fianco di questa contraddizione ne sono presenti altre altrettanto importanti. Per questo, oramai da anni, si parla della necessità dell’intersezionismo delle lotte, ovvero della necessità di unificare lotte apparentemente diverse, se non addirittura in apparente contraddizione tra di loro. Ma l’intersezionismo può essere garantito solamente da un’organizzazione politica che riesca non solo a tenere insieme le varie istanze ma anche a risolverle dialetticamente, ovverosia a fare lavoro di sintesi e a superare le presenti condizioni di vita.

Perchè se è vero che il personale è politico è altrettanto vero che spesso le questioni politiche vengono sempre e solo riportate a livello personale, perdendo completamente di vista la visione collettiva. O, al più, si pretende di ricondurre la dimensione collettiva a quella di gruppi di affini. Ma non è così: i rapporti di dominio pervadono l’intera società con una vera e propria microfisica del potere e i percorsi di resistenza e contrattacco non possono essere, di conseguenza, solo individuali o basati su gruppi di affinità. Prendere atto della complessità della realtà significa prendere atto della necessità dell’azione politica collettiva e, coerentemente, svilupparla. E questo può essere fatto solamente producendo e riproducendo organizzazione ovvero mettere in campo rapporti sociali nuovi, il meno possibili compatibili con il modo di produzione capitalista e l’organizzazione autoritaria della vita, ovvero uscire dalla logica della merce, che spesso avviluppa anche i progetti di pretesa economia alternativa, in grado di resistere all’ovvia repressione e agli ovvi tentativi di recupero.

Ma per far questo bisogna ritornare ad una seria analisi razionale e scientifica della realtà e abbandonare le narrazioni auto-intossicanti tipiche del post modernismo. Non ci piace farci raccontare favole e quindi non ha senso contarcele da sole. Mi riferisco qui a tutto quel filone di pensiero anti-modernista serpeggiante nei movimenti che pretende di risolvere la critica al vigente sistema politico-economico in un velleitario ritorno alla natura, qualunque cosa questa voglia dire. Intanto la distinzione artificiale-naturale è del tutto culturale e, quindi, artificiale. È un assunto base di cento anni di antropologia e dovremmo tenerlo a mente ogni volta che sentiamo sproloquiare della natura e di come il perfido capitalismo abbia corrotto una presunta natura umana. Prendere atto di questo significa prendere atto della necessità di superare dialetticamente e non di negare infantilmente la barbarie capitalista e statale. Ovvero della necessità dell’appropriazione dei mezzi di produzione, della distruzione delle burocrazie e degli apparati separati, delle visioni mistico-religiose e del prendere, modellare e tenersi in mano il proprio futuro e il proprio presente.

L’analisi e, sopratutto, la gestione della complessità in cui viviamo porta alla necessità di un’organizzazione capace di farsi carico di questo lavoro. E un’organizzazione simile non può che essere, formale per evitare qualsiasi rischio di deriva autoritaria, anche solo leaderistica e carismatica.

Questo passaggio chiarisce anche la questione delle alleanze.

L’organizzazione anarchica deve cercare apparentamenti con organizzazioni simili, che siano di massa, come i sindacati libertari, o specifiche come un singolo collettivo di stampo anti-autoritario o situazioni sociali che adottano metodologie e pratiche anarchiche o libertarie, come i movimenti di massa in difesa del territorio che abbiamo vissuto in questi anni. Bisogna tendere alla costituzione di blocchi rosso-neri.

Perchè apparentarsi in nome di una pretesa unità dei movimenti con organizzazioni autoritarie, di derivazione marxista-leninista o post-operaiste o altro, è una politica che ha già mostrato i suoi limiti in più di un’occasione.

La politica frontista ha sempre e solo nascosto le mire egemoniche di chi, in nome dell’unità strategico-tattica, pretendeva di annullare, a proprio esclusivo vantaggio, la profonda e radicale alterità rispetto alle modalità autoritarie, alterità di cui noi anarchici siamo portatori.

Per questo è necessario affermare la necessità di una forte organizzazione formale e specifica.

lorcon

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Tra guerre economiche e conflitti sul campo

L’articolo è oramai di una paio di settimane fa, pubblicato sul numero 23 di Umanità Nova (anno 95). Ovviamente per questioni di spazio non copre tutto quello di cui bisognerebbe parlare, grande assenti sono la Turchia e l’Egitto, stati nominati solo di sfuggita, per dire.

La ridefinizione degli equilibri mediorientali

Tra guerre economiche e conflitti sul campo

È passata piuttosto in sordina la notizia dell’intervento militare saudita in Yemen, teso a reprimere la rivolta dei gruppi sciiti che oramai stavano per vincere la guerra contro il regime locale.

Un intervento militare dalle duplici finalità: da un lato il classico intervento di “restaurazione dell’ordine” nel cortile di casa della teocrazia saudita con lo scopo di limitare l’aumento dell’influenza iraniana nella penisola arabica, dall’altro lato un intervento teso a far fallire l’accordo sul nucleare iraniano, ovvero un accordo su cui molto ha puntato l’attuale amministrazione statunitense, con gran scorno della famiglia reale dei Saud e dell’amministrazione israeliana.

L’attuale situazione mediorientale infatti è caratterizzata dall’estrema frammentazione dell’asse Israele – paesi del golfo – Usa, esploso a causa i interessi in divergenza. Le necessità di disimpegno militare dall’aerea mediorientale degli Stati Uniti, teso a evitare uno scontro diretto con l’Iran e i suoi alleati, sono passate dalla necessità di un accordo con la stessa Repubblica Islamica, accordo che non poteva non essere indigesto ai principali nemici dell’Iran: i paesi del 578335_422323327859233_10930665_ngolfo e Israele.

Le ragioni di questa modifica degli assi strategici non sono morali, dovuti al fatto che l’attuale classe dirigente a stelle strisce sia pacifica o addirittura pacifista, ma sono dovuti all’emergere di una serie di fattori che hanno sostanzialmente modificato lo scenario rispetto a dieci anni fa.

Intanto gli USA sono riusciti nell’ardua impresa di sganciarsi in buona parte dalla dipendenza dal Medio Oriente [1] per quello che riguarda l’approvvigionamento di combustibile fossile, grazie allo sfruttamento di giacimenti posti sullo stesso suolo statunitense tramite le tecnologie di fracking. Ma attenzione: questo non vuol dire la fine completa degli interessi statunitensi nel controllo delle commodities energetiche della regione: gli Stati Uniti hanno sganciato da quello scomodo scenario la maggior parte dell’approvvigionamento di combustibili per il proprio fabbisogno interno, militare e civile, ma fortissimi sono ancora gli interessi economici delle grandi multinazionali statunitensi che estraggono greggio in medioriente per poi raffinarlo e venderlo nel resto del mondo. Ma intanto è stato risolto il nodo della difesa degli interessi strategici degli USA: era oramai evidente che è dai suicidi mantenere la base materiale della propria economia in un teatro sconvolto da profonde crisi come quello mediorientale.

Inoltre l’evoluzione della situazione irakena ha fatto emergere il rischio di un confronto diretto USA-Iran, scontro che ambo le parti vogliono evitare.

Già durante la battaglia di Sadr City, nel 2006, era emerso il grado di penetrazione iraniana nell’Irak liberato da Saddam Hussein: è un dato di fatto che le truppe di élite iraniane ebbero un importante ruolo nella battaglia, durata diversi mesi, sia come addestratori e consiglieri militari delle milizie sciite di Sadr che come fornitori di armamenti sia in scontri diretti con le forze americane e irakeno-lealiste. La battaglia di Sadr City si concluse sostanzialmente con un accordo tra il governo irakeno e gli insorti sciiti, ovvero tra l’amministrazione statunitense e il regime degli ayatollah. Ma in presenza di un grosso contingente di truppe americane e della caotica situazione irakena quanto sarebbe passato prima che si riaccendesse il confronto tra Iran e Usa? E sopratutto a chi avrebbe giovato? A nessuno: l’Iran è dotato di un forte esercito e ha le capacità di gestirlo e impegnarsi in lunghe operazioni di guerra, è fornito di armamenti di ultima generazione dai partner sino-russi. Per quanto gli USA siano, su di un piano militare, perfettamente in grado di tenere testa e mettere in serissima difficoltà l’Iran, essendo dotati di una capacità di proiezione incommensurabile rispetto a quella avversaria e di una abnorme superiorità aerea e navale, un confronto diretto avrebbe completamente concentrato l’economia statunitense sullo sforzo bellico e sarebbe costato la vita a decine di migliaia di uomini. Due cose che qualsiasi governo americano non può accettare, pena l’immediata apertura dei molti fronti interni presenti negli USA e un escalation mondiale. Da qua la necessità di un accordo con l’Iran, che permette di salvare capra e cavoli, privando la repubblica teocratica della possibilità di dotarsi di armamenti nucleari, in cambio di una sostanziale revisione delle sanzioni economiche che hanno diminuito l’esportazioni di prodotti petrolchimi dall’Iran, ma evitando uno scontro che non è voluto da nessuna delle due parti e il disimpegno dal pantano irakeno.

Ma tutto questo ha ovviamente scatenato una vera e propria ondata di panico nella classe dirigente dei paesi del golfo, Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, EAU e, in modo sensibilmente diverso, in quella israeliana.

Infatti questi temono un espansionismo iraniano ben più di quanto ne abbiano da temere gli USA e il blocco atlantico. Vi è la questione del controllo dei giacimenti offshore nel Golfo Persico, la questione del millenario scontro intra-islamico tra sciismo e sunnismo, la questione del controllo dell’Irak, unitariamente o per zone di influenza, la questione siriana.

La posizione di Israele invece è, a mio parere, sensibilmente differente: l’Iran non è dotato di una capacità di proiezione tale da poter minacciare direttamente lo stato ebraico e la questione si sposta di più sui rapporti tra Iran, Siria e Libano. Il libano è costitutivamente incapace di essere una minaccia per Israele, nonostante la forza delle milizie di Hezbollah, che sono però al momento impegnate sopratutto in Siria a sostenere militarmente l’alleato Assad. La Siria stessa è troppo occupata con i suoi problemi interni e, d’altra parte, Assad si è dimostrato negli ultimi quindici anni non interessato ad un interventismo anti-Israeliano se non con l’appoggio ad Hezbollah. Ad ogni modo a Israele fa sicuramente comodo una Siria sprofondata nel caos, senza una leadership centrale forte, anche se questo vuol dire confinare, sul Golan, con l’IS, che, d’altra parte è completamente incapace di essere una qualsiasi minaccia per l’esercito di Tel Aviv. Ma la dirigenza del Likud deve il suo potere, e la recente vittoria elettorale di misura, alla sua capacità di compattare l’elettorato israeliano contro un nemico esterno che faccia effettivamente paura, come può essere solo l’Iran. L’Iran stesso, nonostante le spudorate dichiarazioni dell’ex presidente Ahmadinejad, non ha interessi ad attaccare lo stato di Israele, sapendo che, oltre a scontrarsi con l’efficace macchina bellica di Tel Aviv, si innescherebbe un’escalation che porterebbe ad un intervento dell’intero blocco atlantico, con l’approvazione dei paesi del golfo. E un attacco diretto sarebbe molto poco ben tollerato da Cina e Russia, i principali partners strategici della repubblica islamica, che non apprezzerebbero di certo l’idea di essere coinvolti in un simile carnaio.

A parere di chi scrive il principale fattore di crisi dell’area mediorientale risiede sempre più nello scontro per l’egemonia tra il blocco dei paesi del golfo, più l’Egitto e la Turchia, seppure in modo complesso, e il blocco costituito da Iran e Siria e sempre meno nelle politiche imperiali USA.

Ad aggiungere complessità a questo quadro vi sono poi fattori come gli interessi di parte della classe dirigente statunitense, quella maggiormente legata al settore petrolifero, nel mantenere una presenza massiccia nell’area, lo scontro sul petrolio tra Arabia Saudita e Russia, di cui uno degli effetti più evidenti è stata la caduta del prezzo del petrolio di inizio anno, tesa a colpire l’economia russa, l’ambiguo rapporto tra Cina e Arabia Saudita stessa, che fanno parte di due blocchi geopolitici contrapposti ma che hanno forti interessi incrociati a causa della forte domanda di greggio da parte cinese, che non può essere soddisfatta solo dall’Iran e dalla Russia.

A questo vanno aggiunta un’altra serie di fattori di crisi interni ai vari paesi.

L’Iran, per quanto momentaneamente più stabile rispetto a tre anni fa, ha il problema di un ricambio della dirigenza, finora saldamente nelle mani del clero sciita, che però comincia ad invecchiare, una grande massa di giovani istruiti appartenenti alla middle class urbana che sopporta sempre meno la politica dittatoriale del governo di Theran, l’indipendentismo curdo nell’ovest del paese, duramente represso ma che si fa sentire con azioni militari anche di un certo rilievo, la questione degli operai del settore petrolifero, che trainano l’economia nazionale ma che sono sottoposti ad un intesivo sfruttamento.

I paesi del golfo scontano l’avere dell’èlites reazionarie, frammentate in clan famigliari e generalmente idiote e l’esplosiva situazione delle centinaia di migliaia di proletari di origine asiatica immigrati alla ricerca di lavoro e tenuti in condizioni di schiavitù[2].

Israele sconta un sempre maggior divario tra ricchi e poveri e una sempre maggior tensione tra le componenti laiche e progressiste, che chiuderebbero volentieri con un accordo la situazione palestinese, e le componenti più reazionarie e religiose, che chiuderebbero la questione palestinese con bombardamenti a tappeto, e le industrie armiere, tra i principali motori economici del paese, che vivono grazie al costante processo di militarizzazione della società[3].

Una situazione complessa che dimostra la necessità del’internazionalismo anarchico e libertario per superare le dinamiche nazionalistiche e imperialistiche e farla finita con presidenti, generali, preti e imam.

lorcon

[1]http://uk.businessinsider.com/us-energy-independence-one-chart-2014-10?r=US

[2]http://www.theguardian.com/global-development/2014/sep/13/migrant-workers-uae-gulf-states-un-ituc e http://en.wikipedia.org/wiki/Kafala_system e http://www.redressonline.com/2013/10/the-migrant-slave-workers-of-the-arab-world/

[3]http://www.israelhayom.com/site/newsletter_article.php?id=2090 e http://www.haaretz.com/business/study-income-inequality-growing-faster-in-israel-than-in-other-developed-nations-1.421277

per un ottimo riassunto dell’accordo sul nucleare iraniano consiglio questo articolo: http://www.giornalettismo.com/archives/1775215/iran/

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