Lo stato gendarme

Il seguente articolo è stato pubblicato su Umanità Nova numero 26 anno 99

Negli ultimi anni si è potuto assistere a un crescente dispiegamento di meccanismi disciplinari e repressivi in moltissimi paesi occidentali. Per rimanere in Europa abbiamo avuto due paesi, Italia e Francia, in cui vi è stata l’instaurazione di uno stato di eccezione permanente.
In Italia una classe dirigente priva di grandi capacità progettuali sul medio-lungo termine ragiona costantemente in termini emergenziali, incapace di affrontare i problemi sistemici che lei stessa ha generato o contribuito a creare. L’emergenza dei flussi migratori provenienti dalla Libia oramai perdura da quasi quindici anni e si è acuita dopo la rottura del blocco che è stato garantito per qualche tempo dall’alleanza con il deposto satrapo Ghedaffi, deposto e assassinato anche per mano di una politica estera schizoide portata avanti in occasione dell’attacco al governo Libico dalla stessa borghesia italiana. L’umanità eccedente costituita da immigrati presenti illegalmente sul territorio italiano, e creati ad arte da una legislazione criminale che opera oramai dai tempi della legge Turco-Napolitano, è basata sullo strumento della detenzione amministrativa, elemento centrale dei meccanismi basati sul diritto penale del nemico e sullo stato di eccezione. La criminale volontà di non aprire dei canali migratori liberi ha permesso il prosperare di organizzazioni di trafficanti e di procedere a una sempre più pressante militarizzazione del Mediterraneo da parte delle marine militari dell’Unione Europea e della così detta “Guardia Costiera Libica”, finanziata e sostenuta dai governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni. Chi, come le ONG che operano nel mare Mediterraneo, con la sua presenza insidia il controllo dei governi viene perseguito il più possibile.
L’umanità eccedente ai bisogni del mercato del lavoro viene chiusa un po’ ovunque in Europa in lager – e questo termine va usato nel significato più proprio del termine: deposito – in attesa di espulsione. Il migrante, specie se clandestino, è oramai un soggetto escluso dalle tutele dello stesso diritto liberale, allo stesso modo dello zingaro e del militante politico di cui la magistratura decreti la “pericolosità sociale”. Si intrecciano diversi piani di oppressione: migrante razzializzato, proletario o sottoproletario e, in alcuni casi, donna in una società patriarcale e magari sex worker. Soggetti esclusi da qualsiasi tutela, da additare come nemici non per quello che fanno ma per quello che sono. Soggetti a retate improvvise, detenzioni amministrative che si prolungano per mesi, trasferimenti improvvisi, espulsioni. Soggetti a cui viene completamente strappata una qualsiasi capacità di controllare la propria vita, sottoposti a un regime disciplinare quotidiano gestito sia dai professionisti della repressione, poliziotti, guardioni e militari presenti nei CPR, che, laddove presente, da infermieri e psichiatri che bombardano di psicofarmaci persone oramai frustrate nella loro intimità e sottoposte a una vita panottica.
Chi, anche se cittadino a tutti gli effetti, rimane intrappolato nella spirale del debito finisce in meccanismi disciplinari non meno feroci – anche se di una feroce meno evidente – in quanto alla sbarre e al filo spinato dei CPR si sostituiscono i controllori del programmi di workfare state, su tutti il famigerato Hartz IV tedesco o il meccanismo di workfare britannico. Tentativi, fino ad ora timidi anche se annunciati in pompa magna, di introdurre simili sistemi si sono avuti in Italia con il Reddito di Inclusione e il Reddito di Cittadinanza. Incapace di proporre anche solo delle riforme minime – riduzione dell’orario di lavoro, aumenti salariali, salario minimo, patrimoniale – la classe dominante gioca a scaricare tutto il costo delle sue continue crisi sulla classe dominata, utilizzando meccanismi di colpevolizzandone – è il soggetto indebitato la causa del suo indebitamento perché ha voluto vivere al di sopra dei suoi mezzi, ovvero vivere appena oltre la soglia della mera sussistenza, quindi è causa del suo male e pianga solo sé stesso – che contribuiscono a rescindere i legami sociali tra sfruttati.
L’insorgenza sociale a cui si è assistito in Francia negli ultimi tre anni, prima con la contestazione alla Loi Travail e poi il movimento dei Gilè Gialli, ha visto lo stato francese dispiegare la sua capacità di guerra interna: una polizia e una gendarmeria sempre più militarizzata hanno attaccato ferocemente qualsiasi manifestazione. Mezzi che prima venivano utilizzati solamente contro i gruppi razzializati della società che vivevano ai margini dello spazio metropolitano – banlieusard a tutti gli effetti – vengono ora usati anche contro i francesi di pura discendenza francese: pallottole di gomma, lacrimogeni, granate vere proprie vengono lanciate contro i manifestanti. Se Papon affogava gli algerini nella Senna durante le proteste contro l’ultima guerra coloniale combattuta dalla Francia ora nei fiumi ci finiscono affogati dai gendarmi anche i giovani francesi rei di avere partecipati a una festa che ha superato gli orari consentiti. È successo quest’estate.
Persa qualsiasi maschera si premiano in pompa magna i poliziotti e i gendarmi rei delle peggiori violenze: oramai una decina sono i caduti in operazioni di polizia durante i sommovimenti degli ultimi mesi.
Lo spazio urbano diventa sempre più terreno di lotta feroce nei confronti degli indesiderabili, degli oppositori. Chiunque si opponga alla città come macchina per crescita economica – a puro favore della classe dominante, ovviamente – o chiunque si trovi con la sua mera esistenza sul percorso dei progetti di riqualificazione/rigenerazione urbana – eufemismi per gentrificazione ed espulsione cotta degli abitanti – è un nemico e come tale viene trattato.
Il patto sociale social-democratico è inesorabilmente tramontato, la crisi ecologica è evidente ma non è ancora esplosa in tutta la sua violenza, le reti sociali informali di solidarietà, anche quelle più retrive come quelle familiari, in crisi.
Non verremo salvati da nessuno – dio, stati illuminati o tribuni della plebe – potremo essere solamente noi ad emancipare noi stessi.
lorcon

Pubblicato in articoli | Contrassegnato , , , , , | Commenti disabilitati su Lo stato gendarme

Trieste

Comunque a Trieste ci sono anche altre cose oltre a magnifici esempi di uso del cemento. Consiglio vivamente di visitare la città. Se siete un monarca fatevi mandare una cartolina, che l’ultima volta non è finita bene e ci sono stati un po’ troppi morti. Le foto qua sotto sono scattate al Museo presente dentro il Castello di San Giusto, che è molto bello. Anche Muggia merita una visita, prendetevi il traghetto e andateci, possibilmente nel meriggio così potete vedere il sole tramontare dal mare sulla terraferma (Muggia è a Est del Golfo e quindi si vede il sole tramontare a Ovest).

E sopratutto andate a trovare i compagni del Gruppo Anarchico Germinal che sono brav*.

 

 

 

mon

mon

mon

mon

 

 

Pubblicato in General | Commenti disabilitati su Trieste

Brutalismo triestino

Un po’ di foto scattate un anno fa in quel di Melara, progetto di edilizia popolare in Trieste, e sul Monte Grisa, dove è presente una chiesa gigantesca che domina l’intero golfo. Ambo i posti sono caratterizzati da un pregevole uso del cemento, che a me piace tanto.

 

il corridoio centrale di Melara

alcune delle tante scale

uno dei corridoi laterali

Continua a leggere

Pubblicato in luoghi | Contrassegnato , , , , | Commenti disabilitati su Brutalismo triestino

In vita del compagno Franco Belloni

Sabato 31 agosto 2019 è venuto a mancare il compagno Franco “Mao” Belloni, di Reggio Emilia.

Franco lo conobbi nel 2006 quando mi avvicinai all’anarchismo reggiano, apparteneva a quella generazione che aveva iniziato a fare politica, intesa come controcultura e ricerca di una vita radicalmente differente rispetto a quella proposta dal modello della fabbrica di massa, prima ancora del 1968, tramite quello che dei movimenti beatnick e provos filtrava nella provincia italiana. Franco non ebbe una vita facile, l’infanzia segnata dalla guerra, cresciuto in istituto, operaio alla Sit-Siemens di Milano dopo essersi trasferito da Reggio Emilia e poi montatore di impianti elettrici industriali trasfertista, situazioni non facili neanche negli anni più recenti.

Franco la sua vita se la visse con gioia, con un’insopprimibile voglia di libertà, di socialità. Franco amava tremendamente trasmette i suoi saperi, che non erano pochi, accumulati in anni da lavoro, prima come tecnico elettronico e poi come artigiano elettricista e allestitore autonomo. Il suo lavoro e la sua passione l’avevano portato a contatto anche con il mondo dell’arte “alta”, allestitore di fiducia per molti artisti di Fluxus.

Franco era, per me, una versione hippy di Tino Faussone, il protagonista de “La chiave a stella” di Primo Levi, libro che sempre ho amato.

Franco che mi ha insegnato ad usare il tester elettrico e il flex, che mi ha insegnato a usare il filo a battere, a montare gli isolatori in ceramica dei cavi intrecciati, a tirare cavi nelle canale, i trucchi per scoprire se un cavo della 220 è sotto tensione senza tester o cercafase e per giuntare manualmente un cavo sotto tensione senza staccare la luce (un metodo che comunque sconsiglio), a ricavare le fasi 220 da un impianto trifase industriale. Franco che mi ha regalato l’impianto stereo, una combinazione di uno dei primi amplificatori a stato solido made in Italy, un Sit-Siemens, appunto, e casse RCF passive degli anni ‘80. Franco con cui andavo a recuperare faretti e lampade strobo in discoteche in disuso a cui aveva accesso tramite la sua infinita rete di contatti. Franco che mi faceva incazzare quando, già con un’anca in titanio, camminava sulla scala da imbianchino come uno sprovveduto ventenne (e io sono sempre stato un maniaco della sicurezza sul lavoro…).

Questo Tino Faussone di provincia, diventato metropolitano e poi tornato alla provincia, Homo Faber nel suo significato più alto del termine sarà sempre nei ricordi miei e degli altri compagni e compagne che l’hanno conosciuto e che con lui hanno condiviso molto.

Pubblicato in General | Contrassegnato , | Commenti disabilitati su In vita del compagno Franco Belloni

Note sulla rivolta cantonese – Essere l’acqua

Il seguente articolo è stato pubblicato sul numero 24 di Umanità Nova

Il progetto di introdurre nella città di Hong Kong, sotto la sovranità cinese, così come la città di Macao, ma con un diverso sistema di governo e un’ampia autonomia amministrativa e legislativa, una legge che permettesse una maggiore facilità nell’estradare soggetti indagati dalla magistratura cinese verso la Repubblica Popolare stessa ha scatenato, oramai da quattro mesi, ampie proteste.

Un’ampia analisi, fornita da compagni cantonesi, l’abbiamo pubblicata sul quaderno di Umanità Nova uscito in digitale questa estate intitolato “Anarchici nella rivolta di Hong Kong”. In quel testo si fornisce un’analisi della composizione del movimento, delle discontinuità di questo da movimenti come quello degli Ombrelli del 2014 e i suoi cascami, innanzi tutto la maggiore radicalità nella pratiche di piazza, e di conseguenza la messa in crisi qui ed ora della pretesa del monopolio della violenza da parte dello stato, la pratica dell’illegalità di massa, la presenza di componenti, tra cui quella dei nostri compagni, che puntano sulle questioni di classe in una città che ha fatto del neoliberismo la sua identità e sull’alleanza con i lavoratori stranieri, migrati dalla Cina continentale ma anche da paesi del sud est asiatico come le Filippine.

Hong Kong è una città-stato retta da un’oligarchia cresciuta sotto la frusta del dominio coloniale britannico e poi legatasi al Partito-Stato cinese. Il suo benessere economico è nato sullo sfruttamento di milioni di lavoratori e lavoratrici, sia “nativi” che migrati clandestini, quindi ricattabili, dalla Cina continentale in barba alle leggi che regolano le migrazioni interne. Vi è anche una non indifferente presenza di immigrati da paesi del sud-est asiatico. L’esiguo spazio ha imposto un’urbanizzazione verticale e la speculazione ha imposto case-cubicolo – dette non a caso case-bara – in cui si ammassano milioni di individui. Gli affitti per questi spazi sono altissimi e la città stessa è una delle più costose al mondo. Di questi elementi, molto materiali, non si può non tenere conto quando si parla delle mobilitazioni che hanno investito questa città.

Le mobilitazioni di questi ultimi quattro mesi, che hanno visto più di un milione di persone scendere contemporaneamente in strada, hanno dimostrato l’alta capacità autorganizzativa della popolazione. L’utilizzo di mezzi classici di comunicazione durante le manifestazioni, impianti audio e megafoni, per coordinare le azioni è stato affiancato anche dall’uso di applicazioni per cellulari che permettono con un certo grado di sicurezza di scambiare dati, comunicazione gestuale per indicare i mezzi di cui avevano bisogno in quel momento certe aree della piazza – vi sono gesti che indicano che c’è bisogno di acqua e soluzione salina per i lacrimogeni, o caschi, maschere antigas e ombrelli per le protezioni o materiale per le barricate – lo scambio di progetti per la costruzione di barricate che fossero sia veloci da costruire che resistenti – generalmente transenne stradali fascettate tra di loro a guisa di triangolo equilatero – metodi per ritmare il flusso delle folla per evitare i pericolosi fenomeni di panico e possibili schiacciamenti. Si è assistito anche alla formazione di catene per passare il materiale verso le prime linee in modo efficace e veloce.

Da quanto si è potuto apprendere il coordinamento avviene tramite gruppi di affinità di quartiere e, contemporaneamente, su forum di discussione online. D’altra parte la piattaforma rivendicativa del movimento è abbastanza larga da permettere a chiunque sia insoddisfatto del regime di partecipare al movimento stesso e, per quanto di impostazione classicamente liberale e, appunto, rivendicative – diritti e suffragio universale, ritiro definitivo della legge sull’estradizione, regime change in senso democratico – permette anche l’inserimento di temi più radicali quali la critica del lavoro, la questione abitativa, il carovita, tutti temi sicuramente sentiti anche istintivamente da chi, pur privo di una coscienza di classe elaborata, vive tutti i giorni una vita schiacciata tra stipendi relativamente bassi, abitazioni minuscole, ampio divario di classe e inflazione.

Appare quindi come l’autorganizzazione sia una proprietà emergente di un sistema, sia nell’elaborare piattaforme rivendicative ampiamente inclusive sia nell’organizzare in modo veloce la logistica della guerriglia urbana. Si dimostra anche come la necessità della violenza – anche se difensiva – sia accettata, seppure nei limiti esposti dai compagni nell’intervista a CrimethInc, anche da quelle persone che fino a poco tempo prima la aborrivano totalmente – o meglio che la nascondevano delegandola completamente allo stato e non riconoscendo quella violenza mimetica implicita nelle società gerarchizzate.

Emerge quindi una vera e propria intelligenza collettiva in grado di mettere in crisi qui e ora i sistemi di governance postmoderni: la fine dei partiti di massa in grado – storicamente – di stimolare e controllare le mobilitazioni non ha significato la fine delle mobilitazioni stesse.

Appurata l’importanza dell’organizzazione logistica dello spazio urbano come spazio di circolazione e accumulazione del capitale abbiamo potuto assistere a veloci azioni che andavano a bloccare, fuori dall’orario di punta di rientro dei lavoratori, i principali punti della circolazione stradale e poi, reiteratamente, lo scalo aereo di Hong Kong, uno dei principali aeroporti internazionali asiatici.

Davanti alla superiore tecnologia dell’apparato repressivo nella gestione di grossi assembramenti che occupano in maniera statica un’area i manifestanti hanno parzialmente abbandonato un paradigma che potremmo definire “napoleonico” nello scontro di piazza: grossi schieramenti che si scontrano in linea, chiaramente insostenibile di fronte a un nemico armato e addestrato per questo – pensiamo solamente all’uso dei cannoni ad acqua e dei lacrimogeni – per adottare una linea di azione più tipica della guerriglia: gruppi piccoli che compiono azioni veloci, aspettano l’arrivo delle forze di polizia, ingaggiano veloci scontri e si disimpegnano utilizzando gli stessi mezzi pubblici – chiaramente con la complicità anche non programmata dei conducenti e dei tecnici gestori di linee di autobus e metropolitana – mostrando di sapere sfruttare a proprio vantaggio il terreno urbano mentre le colonne della polizia rimangono bloccate negli ingorghi creati dalle azioni stesse.

Davanti alla monoliticità degli apparati repressivi l’intelligenza sociale ha saputo agire come l’acqua: dove può travolge, dove non può travolgere tracima, dove non può né travolgere né tracimare aggira. Una delle migliori applicazioni dei principi basi del Wing Chun, forma esterna del Kung Fu e arte marziale per eccellenza dell’area Cantonese. Allo scontro in strada si sono uniti scioperi spontanei, addirittura uno sciopero generale, boicottaggi, azioni di disturbo di vario genere che hanno mostrato la capacità immaginativa dei manifestanti.

L’estensivo utilizzo della guerra chimica da parte delle forze di polizia, con migliaia di candelotti lacrimogeni sparati in aree densamente abitate e contro presidi pacifici, aliena ad esse anche gli abitanti che in quel momento non stanno partecipando alle proteste e che vedono il loro – già esiguo – spazio domestico invaso dalle dense nubi di gas CS. Allo stesso modo la decisione da parte del governo di ricorrere a bande di criminali delle triadi per attaccare le manifestazioni e i passanti ha fatto aumentare la determinazione di molti, tanto più che diversi tentativi di attacchi da parte delle triadi si sono risolti con la fughe dalle stesse sotto le bastonate e le pietre. Si è, comunque, ancora una volta dimostrata la continuità tra stati e crimine organizzato.

Gli apparati di videosorveglianza e riconoscimento facciale, sempre più diffusi e fiore all’occhiello della tecnocrazia partitica della Repubblica Popolare, vengono messi in crisi da economici puntatori laser che accecano i sensori e la scelta dei colori dei puntatori stessi, blu e verdi, ovvero quelli con una lunghezza d’onda che acceca più facilmente, fa pensare a un vero e proprio scambio di conoscenze tecniche tra manifestanti.

La capacità di mettere fuori uso temporaneamente, accecandoli, o permanentemente, abbattendone i pali di sostegno, i meccanismi di telesorveglianza, uno degli assi portanti del controllo dello spazio urbano e la contemporanea convergenza verso mezzi di comunicazioni digitali criptati per lo scambio di informazioni dimostrano che la società della sorveglianza, un Moloch che spesso si immagina come implacabile e monolitico, può essere messo in crisi dall’autorganizzazione, dallo scambio di saperi pratici e teorici, dall’emergere di un’intelligenza collettiva e sociale che spezza l’alienazione dell’individuo-monade, dell’homo economicus – e sempre più speso sacer, sacrificabile – dell’ordinamento neoliberale della società.

Negli interstizi e nelle contraddizioni del vigente sistema nasce e si moltiplica la sua negazione.

I tristi cantori dello status quo, i propagatori della mortifera ideologia dello stato-partito cinese, minacciano una nuova Tienanmen, nel trentesimo anniversario del massacro stesso di migliaia di operai e studenti pechinesi, ma temono le reazioni. Dell’opinione pubblica internazionale, sicuramente, ma anche della stessa popolazione cantonese e non previsti – e prevedibili – moti di solidarietà da parte della società nel continente stesso. Da qua, in un modo semplificato e, diciamolo, un po’ razzista, ci immaginiamo spesso le società asiatiche come società irregimentate e monolitiche, dimenticando i grandi fermenti che le hanno attraversate, a volte in modo carsico. In Cina il conflitto di classe negli anni ha visto una sempre maggiore capacità di risposta operaia alle feroci situazioni di sfruttamento; nascono timidamente gruppi di studenti che si interessano alla questione di classe, per quanto il ricordo di Tienanmen sia ufficialmente censurato a livelli orwelliani sicuramente sopravvive nella trasmissione della memoria orale di un evento che coinvolse centinaia di migliaia di persone, tra cui interi reparti di fabbriche della cintura industriale di Pechino. Sicuramente vi è stata anche la trasmissione del trauma della Rivoluzione Culturale, ovvero di quel tentativo, disgraziatamente riuscito, di irregimentare e controllare dall’alto in un modo quasi preordinato le istanze di cambiamento radicale che emersero globalmente negli anni sessanta, che assunse in certe fasi i caratteri di vera e propria guerra civile che la stessa frazione del Partito-Stato che l’aveva evocata ebbe difficoltà a controllare. Memoria difficile, probabilmente questa, che ritorna anche in molte opere narrative tradotte in occidente, su tutti i polizieschi di Qiu Xiaolong e nei romanzi di fantascienza di Cixin Liu, memoria che viene anche evocata in negativo rispetto al presunto benessere creato dalla svolta verso il “socialismo di mercato” di Deng Xiaoping.

L’ideologia della Cina contemporanea, un paese che è uno dei centri dell’economia-mondo globale, ha il suo fulcro nella conservazione della tranquillità e della pace, una tranquillità e una pace che sono la quiescenza dei conflitti sociali che devono essere normati, gestiti e risolti dal Partito-Stato. E sempre più spesso repressi, basti vedere la creazione di un sistema concentrazionario a base etnica in Xinjiang. La rivolta di Hong Kong, come già fece la rivolta di Tienammen trenta anni fa, squarcia il velo della tranquillità e mostra il fuoco che cova sotto la cenere.

Se gli obiettivi immediati del movimento sono comunque interni alle compatibilità sistemiche è indubbio che mostrano, e preparano, un mondo che vuole e può uscire da queste compatibilità.

lorcon

Pubblicato in articoli | Contrassegnato , , , | Commenti disabilitati su Note sulla rivolta cantonese – Essere l’acqua

Chiose a margine di una prospettiva di guerra civile

L’analisi di Formica, pubblicata su Il Manifesto del 8 Agosto 2019 – e che riporto integralmente a fondo pagina – è interessante ma rimane del tutto interna alle dinamiche istituzionali e non tiene conto, a mio avviso, di una questione fondamentale: sono finiti i partiti massa, i partiti a cui la stessa carta costituzionale affida il ruolo di espressione della sovranità popolare, ovvero di limiti della stesa. La stessa Lega Nord e il M5S con tutto le loro alte percentuali (oramai in declino inesorabile per i secondi) non hanno nessuna reale capacità di mobilitazione popolare, se non per un qualche flash mob o per un quale linciaggio (sempre di mob si tratta…). D’altra parte i governi sono il comitato esecutivi della borghesia e la borghesia nel XXI secolo può fare a meno di quel luogo di ricomposizione – e attenuazione – del conflitto sociale che sono i parlamenti: si delinea sempre maggiormente lo scenario della democratura, naturale evoluzione delle democrazie borghesi. È stato così per certi paesi dell’America Latina e ora similmente avviene per paesi europei, Italia ma anche per la Francia, forse in modo ancora più evidente, in cui uno stato di polizia sempre più aggressivo estende le forme di guerra ai poveri oltre i confini razzializzati entro cui questa forma era stata relegata nei decenni precedenti: gli algerini potevano essere annegati nella Senna dalla polizia di Papon, ora anche i giovani francesi che vanno a una festa musicale possono essere annegati nei fiumi (o massacrati a colpi di flash ball se scendono in piazza). È una situazione figlia di mutamenti strutturali e davanti a questa situazione dobbiamo essere noi, come sfruttati, come umanità/vuoto a perdere a perenne rischio lager – cosa sono le forme concentrazionarie con cui vengono gestiti i flussi migratori se non depositi per merce-lavoro eccedente? -, come individui che sono in questo mondo ma non sono di questo mondo a prendere il pallino in mano. Le guerre civili della borghesia, ammesso e non concesso che la borghesia italiana sia interessata a una guerra civile, cosa di cui dubito immensamente (e mi fa ridere sotto i baffi), sono combattute sulla pelle nostra, al pari delle guerre tra soggetti statali. Starebbe a noi trasformarle in qualcosa d’altro. Sta a noi, in ogni caso, ribaltare il tavolo, che non sarà un improvviso e tardivo barlume di coscienza del settore progressista della borghesia italica a migliorare le nostre vite.

Di seguito l’intervista a Rino Formica pubblica su Il Manifesto

Continua a leggere

Pubblicato in General | Commenti disabilitati su Chiose a margine di una prospettiva di guerra civile

NOTE E RIFLESSIONI SU PERCORSI DI INCOMPATIBILITÀ

Di seguito un documento presentato al dibattito del XXX Congresso della Federazione Anarchica Italiana, tenutosi a Massenzatico nell’Aprile del 2019, e successivamente pubblicato su Umanità Nova.

 

NOTE E RIFLESSIONI SU PERCORSI DI INCOMPATIBILITÀ

Indice generale

NOTE E RIFLESSIONI SU PERCORSI DI INCOMPATIBILITÀ 1

1.0 La fase 1

1.1 La narrazione nella post modernità 1

1.2 Cosa c’è da perdere che non abbiamo già perso 3

1.3 Le sperimentazioni orfane 4

2.0 Del reddito o dell’incompatibilità di sistema 6

2.1 Reddito, lavoro e la società del consumo 6

2.2 Il reddito tra mutualismo e conflitto 9

3.0 Organizzazione 11

1.0 La fase

L’analisi negli ultimi anni, a partire, almeno, dall’inizio del ciclo di crisi nel 2008, si è concentrata molto sulle contingenze e le congiunture, sul qui e ora, più che sulle dinamiche strutturali che hanno determinato l’attuale assetto storico. Uno sguardo ampio sui meccanismi profondi che regolano la società e il peso che la politica rappresentativa e l’economia esercitano su concetti come reddito, lavoro e coesione, tarda a farsi strada.

Per correttezza e coerenza va fatto presente che in molti casi si sono tentati dei timidi passi a lato, in modo da poter sfruttare la prospettiva per una foto a grande angolo della realtà, ma insufficiente è stata la distanza presa per apprezzare l’interezza delle problematiche in atto.

Procederemo quindi tentando di analizzare la fase con un minimo di ordine, partendo da cosa non è stato fatto e di cosa non si è tenuto conto, dei passaggi non fatti e delle sintesi mai abbozzate (seppur a portata di mano).

Continua a leggere

Pubblicato in articoli | Contrassegnato , , | Commenti disabilitati su NOTE E RIFLESSIONI SU PERCORSI DI INCOMPATIBILITÀ

Il giorno in cui

Il giorno in cui comprenderete che la depressione non è “un periodo giù di corda” ma una fottutissima, e spesso grave, malattia; il giorno in cui comprenderete che la sindrome da stress post traumatico non è essere “un po’ schizzati” ma è non dormire la notte, fare incubi ricorrenti, avere pensieri circolari e invasivi; il giorno in cui comprenderete che la cultura patriarcale è fondata sull’oppressione sistematica di un genere, che le violenze sessuate (non sessuali: sessuate) sono una forma di violenza che si protrae ben oltre l’atto in sé e che non è detto che si superino “non pensandoci e andando avanti”, che i disturbi alimentari non sono una passeggiata o “una fase adolescenziale”; il giorno in cui metterete in discussione la vostra protervia, la vostra arroganza, la vostra violenza e comincerete a ragionare su come migliorarvi e migliorare la vita a chi vi sta accanto; quel giorno potrete aprire bocca o agitare le dita su una tastiera ed esprimere un commento, sensato, su una ragazza che decide di morire di sete e fame dopo avere subito tutta questa merda. Tutto il resto, le vostre argute riflessioni da colti imbecilli o i vostri commenti da bar, fa parte della già evocata merda.

Pubblicato in General | Contrassegnato | Commenti disabilitati su Il giorno in cui

Difensori della Sacra Proprietà e Hoplofobici – Il noioso teatrino della legittima difesa

Il seguente articolo è stato pubblicato su Umanità Nova numero 13 anno 99

Una buona parte del dibattito pubblico italiano degli ultimi mesi è stato impostato sui temi riguardante la legittima difesa e la diffusione di armi tra la popolazione civile. Già durante la campagna elettorale permanente degli ultimi anni la Lega Nord aveva posto al centro della sua propaganda la questione della difesa armata della proprietà privata; successivamente c’è stato l’ondata di polemiche, molto pretestuose, in merito alla ricezione della direttiva europea 477 ed infine il dibattito in merito alle modifiche della legge sulla legittima difesa, con il suo veloce corollario polemico in merito a un disegno di legge firmato da una settantina di senatori leghisti che, secondo alcuni, faciliterebbe l’acquisto di armi.

Per comprendere il senso di questo dibattito riteniamo sia necessario dare uno sguardo complessivo dei diversi temi che da esso emergono, senza rincorrere la sparata sensazionalista di questo o quel ministro o di personaggi francamente imbarazzanti del mondo pacifista; uno sguardo, quindi, che permetta di cogliere aspetti indicativi della situazione sociale.

Di là dei dati che indicano un continuo calo dei delitti gravi contro la persona, è palese che la “percezione della sicurezza” sia del tutto sbilanciata verso l’idea che i crimini gravi siano in aumento e che orde di banditi aspetterebbero il probo cittadino dietro l’angolo per rapinarlo. Da anni ripetiamo come questa situazione sia stata ricercata e voluta dalla classe dominante: non staremo quindi ad approfondire l’argomento.

In questo la propaganda leghista – ma anche di Fratelli d’Italia e di altri partiti – va a parlare al suo elettorato di riferimento, commercianti, piccola borghesia, pezzi delle aristocrazie operaie, piccoli e medi industriali, latifondisti, portando due messaggi a cui questo pubblico è sensibile:

1) La proprietà privata è sacra. Chi ammazza difendendo la proprietà va sostenuto anche se ammazza a sangue freddo un ladro disarmato: questi ha attentato alla sacralità della proprietà e quindi il suo sangue ricadrà esclusivamente su di lui.

2) I cambi avvenuti, sia in modo graduale che in modo traumatico, negli ultimi decenni hanno portato a una maggiore concentrazione di capitale in oligopoli facendo perdere centralità a quei settori della borghesia che si poggiavano sulle piccole e medie industrie e sul commercio al dettaglio. La figura del pater familias borghese, a capo di una piccola industria o proprietario del negozio a conduzione familiare e con pochi dipendenti, è stata ampiamente contestata nel corso dei decenni ed ha bisogno di essere rassicurata nel potersi raffigurare come figura eroica in lotta contro il mondo moderno. Il potersi rappresentare come maschio alfa, detentore del diritto di vita e di morte su chi attentata l’origine della sua posizione sociale, cioè su chi attentata alla sua sacra proprietà, rassicura.

Di fronte a questo poco importa che la legge sulla legittima difesa voluta dalla Lega impatti ben poco da un punto di vista pratico, sempre che regga in sede di Corte Costituzionale quando un magistrato solleverà una qualche eccezione di costituzionalità. Sul piano simbolico è passata e quell’elettorato di riferimento si sente, appunto, rassicurato nella sua posizione sociale. Viene riaffermata la sacralità della proprietà privata, per altro ben sancita da tutto il corpo normativo e dalle stesse regole sociali, e, ancora una volta, gli idoli di legno possono trionfare e le vittime umane cadere. Questo è quel che importa.

A poche ore di distanza dall’approvazione di questa legge si potevano vedere alcuni quotidiani online produrre titoli allarmati su come la Lega si preparerebbe anche a rendere più facile l’acquisto di armi, deregolamentando le armi con potenza tra i 7,5 e i 15 joule e rendendole di libera vendita. I titoli, e spesso gli articoli, sono stati volutamente impostatati in modo scorretto: si sta parlando di armi a aria compressa, quindi quasi esclusivamente con il tiro sportivo e che hanno un potere offensivo minore rispetto a un pugno ben piantato da un soggetto allenato. Si potrebbe ipotizzare che dietro vi sia il tentativo di aprire un mercato verso una serie di strumenti di difesa meno che letali che sfruttano l’aria compressa per lanciare dei proietti in gomma dura, strumenti di difesa sulla cui stessa efficacia abbiamo moltissimi dubbi per ragioni tecniche su cui non è il caso di dilungarsi, che però troverebbero di certo un buon mercato a causa dell’insicurezza percepita. Ovviamente nessuno ha analizzato questo dato, nonostante fosse evidente leggendo una delle principali testate della stampa di settore, ovvero la rivista Armi & Tiro, ma molti han preferito disegnare scenari apocalittici in cui si otterrà un AK-47 con i punti della spesa del supermarket.

Riportiamo la notizia in quanto permette bene di vedere il livello di polarizzazione raggiunto su questo dibattito. Già quando nell’autunno scorso è stato portato a termine l’iter di ricezione della direttiva europea 477 sulla regolamentazione del possesso di armi da parte della popolazione civile la stampa progressista, da la Repubblica fino al Manifesto, il quale nonostante riporti la dicitura “quotidiano comunista” non è che la costola sinistra della socialdemocrazia, si è messa a strillare su presunti scenari statunitensi alle porte.

Non staremo ad analizzare qua la situazione americana, già ampiamente analizzata in molti articoli[1] pubblicati negli ultimi anni e su cui riteniamo chiuso il dibattito ma è necessario rifocalizzarci su alcune questioni. Intanto la ricezione della direttiva 477 è una questione estremamente tecnica ed una sua disanima approfondita è abbastanza inutile per chi non sa la differenza tra un’arma semiautomatica ed un’automatica, gli iter di importazione di armi costruite all’estero, il funzionamento del Banco di Prova Nazionale o che cosa si intenda per armi demilitarizzate. La direttiva, al contrario di quello che molti hanno scritto, non ha assolutamente facilitato l’acquisto di armi da parte di privati, anzi per quando sia stata recepita in modo poco restrittivo rispetto ad altri paesi ha imposto alcuni ulteriori paletti, ma ha in parte razionalizzato il corpo di regolamenti, giurisprudenza e leggi che normano il settore. L’unica facilitazione che appare ad un’analisi della legge è la possibilità di comunicare l’acquisto, da parte di un soggetto già titolato, tramite Posta Elettronica Certificata senza doversi recare presso gli uffici delle questure, in tendenza con la telematizzazione della pubblica amministrazione.

Si potrebbe pensare che questa idiosincrasia per le armi da parte della stampa progressista e di molti elettori della sinistra sia semplicemente volontà di dare addosso all’avversario che sarebbe a favore della diffusione indiscriminata di armi da fuoco.[2] In realtà, come già scrivevamo a novembre 2017 nell’articolo “La social-misantropia” pubblicato su Umanità Nova:[3]

(…) La sinistra liberale avendo fallito nella sua strategia riformista, da decenni e non da ieri, per portare migliori condizioni di vita alla classe lavoratrice ed essendo diventata parimenti responsabile della devastazione della vita di centinaia di milioni di proletari (…) si trova a essere la frazione sinistra del capitale. In questo – facciamo finta di credere alla buona fede di certi soggetti politici – finisce per individuare problemi sbagliati o secondari, amplificarli e proponendo soluzioni che portano da un maggiore controllo sociale, cullando l’illusione di poter cambiare qualcosa rispetto alle ferree logiche del capitale una volta giunta al potere. (…) Avendo fallito nei propri fini dichiarati queste componenti [la sinistra-sinistra istituzionale ed i derivati centristi del riformismo] finiscono per farsi rappresentanti elettorali di frazioni dominate di classe dominante e di pezzi della piccola borghesia nonché di lavoratori dei servizi pubblici, sopratutto legati al mondo della cultura e dei servizi alla persona, le componenti della cosiddetta società civile. Avendo fallito ed essendosi convinte che il problema è rappresentato dal fatto che l’uomo sarebbe ontologicamente cattivo e non un prodotto storico, passano dalla social-democrazia alla social-misantropia: allora via con tiritere sulla necessità di più stato, più leggi, più controlli, più polizia – possibilmente direttamente introiettata negli individui – lamentele su quanto fanno schifo i poveri, che sono così maleducati ed altre amenità. Il problema non sarebbero allora le strutture sociali ma gli individui che sarebbero naturalmente pervertiti – contraddizione in termini, tra l’altro – e su cui è necessario operare una raffinata opera di disciplinamento. (…)”

Non è quindi questione di malafede se soggetti come Beretta, il presidente dell’OPAL e tra le figure di spicco del pacifismo italiano, che porta per ironia della sorte lo stesso cognome della famiglia di industriali delle armi di Gardone Val Trompia ed i suoi tristi emuli si mettono a lanciare strilli di orrore all’idea che circolino delle armi al fuori dei corpi armati dello stato. Certo, se glielo si chiede diranno che sono a favore di una qualche forma di disarmo delle forze armate ma, rimanendo nell’ambito del pacifismo borghese, essi vivono in una profonda contraddizione che non sono in grado di risolvere ma solo di elidere, non comprendendo che il punto non è il disarmo ma la necessità di smantellare la gerarchia sociale ed abolire il valore di scambio (per farla breve). L’hoplofobia[4] dell’ala sinistra del capitale è tutta già scritta nella sua storia, ovvero nella storia della sua falsa coscienza e del suo opportunismo, allo stesso modo in cui la voglia del piccolo borghese di farsi giustiziere della notte è scritta nella sua parabola discendente di ridicola figura messa in crisi non da immaginari banditi ma dalla ferrea logica del capitale.

NOTE

[1] Innanzi tutto: http://www.umanitanova.org/2015/10/20/la-propaganda-alla-prova-dei-fatti/ e http://www.umanitanova.org/2016/01/13/la-propaganda-alla-prova-dei-fatti-2/ oltre a http://www.umanitanova.org/2018/03/11/militarizzazione-sociale/ e http://www.umanitanova.org/2018/05/13/la-marcia-del-vittimismo/ .

[2] in realtà tutta la storia delle leggi italiane sul controllo delle armi, partendo dalle leggi giolittiane sul porto di coltello, è basata sulla necessità di rendere più difficile la detenzione di armi a soggetti che non diano sufficienti garanzia di lealtà verso lo stato: nella concessione di licenze di detenzione, porti d’arma ad uso sportivo o venatorio, per non parlare dei porti per difesa personale, è lasciata ampia garanzia alle questure che possono dare dei dinieghi anche senza che il richiedente abbia commesso alcun reato o sia sotto indagine ma in base a informazioni “sommariamente raccolte” ed informative di polizia. La base legislativa è il TULPS fascista che addirittura concede ai prefetti la possibilità di sequestrare preventivamente tutte le armi nel territorio di competenza in caso di “gravi turbamenti dell’ordine pubblico”: la formula è volutamente vaga e le successive integrazioni sono date dalle leggi emergenziali degli anni settanta e da una confusa giurisprudenza. Da un punto di vista dei dati non si può, in qualsiasi discussione su questo tema, tenere conto del fatto che il numero di armi possedute da privati in Italia sia andato aumentando quasi costantemente mentre altrettanto costantemente è calato il numero di omicidi con armi da fuoco, in tendenza con quello che è successo in buona parte del mondo.

[3] http://www.umanitanova.org/2017/11/07/la-social-misantropia/

[4] Fobia patologica delle armi.

Pubblicato in articoli | Contrassegnato , , | Commenti disabilitati su Difensori della Sacra Proprietà e Hoplofobici – Il noioso teatrino della legittima difesa

Podcast – Anatomia di una Intelligenza Artificiale

Qualche mese fa mi è capitato di leggere l’ottimo progetto Anathomy of an AI System che ha sistematizzato una serie di riflessioni che io stesso, evviva le sincronie, insieme ad altr*, porto avanti da un po’ di tempo. Ovvero come i così detti sistemi di intelligenza artificiale, che poi sono ben distanti da sistemi dotati di autocoscienza, ma che comunque si distinguono per forme di non linearità, impattano nel modo di produzione capitalistico, quali contraddizioni portano, o ampiano, e quali invarianze… invariano. Al di là delle retoriche accelerazioniste o primitiviste, che non mi appartengono, è necessario analizzare con un occhio radicalmente critico questi ritrovati comprendendo come impattano sulla nostra vita di proletari e come potranno essere usati ai fini dell’emancipazione sociale. A partire dallo studio di questo progetto ho elaborato un articolo, Anatomia di un’Intelligenza Artificiale, che si integra con gli altri articoli scritti sul tema, come Gli Arcana Imperii dell’economia dell’informazione, ma che si riallacciano anche alla polemica intorno ai temi del legame tra scienza, tecnologia e rivoluzione sociale.

Il 15 marzo 2019 sarò a Torino, in quel di Corso Palermo 46 (Barriera caput mundi), presso la sede dei compagni della Federazione Anarchica Torinese, a fare due chiacchere su questi temi. Di seguito il podcast dell’approfondimento fatto venerdì 8 marzo su Anarres, trasmissione informativa di Radio Blackout. Legge di Murphy permettendo ne seguirà un altro il 15 mattina stesso.

Pubblicato in articoli | Contrassegnato , , | Commenti disabilitati su Podcast – Anatomia di una Intelligenza Artificiale