Ghicet di Sea

Escursione svolta in giornata il 5/06/022. Partenza dal rifugio Città di Cirè (Pian della Mussa, quota 1850). Si imbocca il sentiero 226, giungendo, per un facile percorso, fino al Pian della Ciamarella (quota 2092). Si prosegue seguendo il percorso del Rio Ciamarella . Attraversato il pianoro si prosegue sempre sul 226 in direzione NNE inerpicandosi verso il colle del Ghicet di Sea (2726 metri). Si procede su sentiero caraterrizato da terreno detritico fino al colle.  Da lì è possibile imboccare la cresta in direzione SE fino alla Punta Rossa oppure discendere sull’altro versante e proseguire verso il Passo dell’Ometto. Le foto panoramiche del Vallone di Sea sono state scattare dalla cresta posta a NO del colle.

Il Vallone di Sea visto dalla cresta sopra il Ghicet

Il Vallone di Sea visto dalla cresta sopra il Ghicet

Il Vallone di Sea visto dalla cresta sopra il Ghicet

L’Uja di Mondrone vista dal Ghicet di Sea

La Punta Rossa di Sea vista dal Ghicet di Sea

Marmotta nella tana sul Pian della Ciamarella

Marmotta sul Pian della Ciamarella

Marmotta sul Pian della Ciamarella

Il Pian della Ciamarella visto dal Ghicet di Sea

Il Passo dell’Ometto visto dal Ghicet di Sea

Cresta Ovest dal Ghicet di Sea

Camoscio sul Pian della Ciamarella

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Telelavoro, smartworking e telecontrollo

Il seguente articolo è apparso sul numero otto anno 102 di Umanità Nova

Una delle conseguenze immediatamente evidenti della sindemia di SARS-Covid-19 è stato il diffondersi di smartworking e telelavoro. Dopo due anni di pandemia, pratiche che prima erano poco diffuse e relegate a specifici settori sono diventate di massa. A causa dell’emergenza, la diffusione di queste pratiche è avvenuta senza il rispetto delle dovute tutele per i lavoratori e, purtroppo, non si sono viste particolari battaglie sindacali in merito a questa violazione dei contratti.

Innanzi tutto mettiamo in campo alcune definizioni per distinguere il telelavoro e lo smartworking. In questo articolo utilizzeremo il termine telelavoro per indicare quella modalità che prevede la semplice remotizzazione del posto di lavoro rispetto all’ufficio: la gestione del flusso di lavoro rimane la stessa che si avrebbe in ufficio così come permane un orario fisso ed eguale per tutti i lavoratori. Per smartworking, invece, intendiamo una modifica anche del flusso di lavoro e della gestione del tempo di lavoro. Il dipendente lavorerà così seguendo dei progetti, gestendo autonomamente il tempo da dedicare alle varie fasi, e deciderà, con maggiore o minore grado di autonomia a seconda della realtà aziendale e del proprio potere contrattuale, anche il proprio orario di lavoro.Se il telelavoro si limita a remotizzare la postazione dalla scrivania dell’ufficio al portatile sul tavolo della cucina, lo smartworking prevede anche un cambio di paradigma nella gestione dei flussi di lavoro e, in parte, della capacità decisionale.

Chi si trova a svolgere le proprie mansioni in regime di telelavoro ha vissuto negli ultimi anni tutta una serie di situazioni oggettivamente svantaggiose. In molti casi, non essendo l’azienda preparata alla remotizzazione delle postazioni, si è scaricato il costo dell’operazione sui dipendenti stessi: utilizzi di dispositivi di proprietà personale per il lavoro, innalzamento della spesa per consumo elettrico e riscaldamento della casa trasformata in luogo di lavoro, utilizzo di linee dati a proprie spese. Tutto questo senza che vi fosse una contropartita in termini di aumenti di salario.

Un altro svantaggio per i lavoratori è in termini di salute fisica e benessere mentale: la mancanza di postazioni di lavoro in casa realizzate tenendo conto di criteri di ergonomicità, e quindi di corretta postura, spesso già carenti in molti uffici, finisce per danneggiare l’apparato muscolo-scheletrico. In pochi hanno uno spazio in casa da dedicare a una postazione realizzata con criteri sensati – il classico studiolo domestico – e in molti si sono trovati a lavorare sul tavolo della cucina, con sedie non adeguate ad otto e più ore di seduta, spesso di fianco al partner anch’esso in telelavoro e ai figli in DaD. Se allo stress dell’esplosione della sindemia si aggiunge il malessere di lavorare in un ambiente non adeguato e una bella lombosciatalgia dovuta a una sedia scomoda non si ricava un quadro roseo.

Nel parlare di telelavoro bisogna anche tenere conto che l’oppressione di genere si ripercuote anche in questo ambito. Per molte donne la casa non è il luogo del riposo ma è il luogo del lavoro di cura, fondamentale per la riproduzione sociale. Alle mansioni lavorative remotizzate dal telelavoro si aggiungono così le mansioni del lavoro di cura: badare alla prole, che durante i periodi di picco della pandemia si trovava in didattica a distanza, preparare pasti, tenere la casa in ordine. Per le donne per cui il lavoro era un’occasione di uscire da situazioni di abuso domestico, anche se solo per qualche ora al giorno e nell’ambito dei rapporti lavorativi, trovarsi costrette al telelavoro ha significato non potere allontanarsi.

Vi è, comunque, anche l’altro lato della medaglia: lavoratrici e lavoratori sottoposti a mobbing in ufficio che sono riusciti a darsi una tregua dalle continue aggressioni di capi e di colleghi, pur mantenendo il posto di lavoro, lavoratrici che sono riuscite a tutelarsi da situazioni di violenza sessuata attuata nei luoghi di lavoro mantenendo il salario. In una società complessa la semplificazione non è possibile.

In alcune realtà più strutturate che hanno fatto ricorso al telelavoro per i propri dipendenti si è poi aggiunto il ricorso a forme di telecontrollo estremamente invasive. Questo è avvenuto in quanto le aziende, in molte realtà impiegatizie, hanno fatto ricorso alle stesse forme di controllo, spesso capillare e asfissiante che in ufficio viene messo in atto dal padrone o da suoi delegati.

Per ovviare all’impossibilità di controllare a vista i dipendenti alcune realtà hanno fatto installare sui computer usati in remoto, in questo caso molto spesso di proprietà dell’azienda, software in grado di rilevare l’attività degli utenti e stilare report ad uso dei manager delle risorse umane.

Questi sistemi di sorveglianza sono spesso molto più pervasivi e subdoli di quelli messi in campo in ufficio. Avvisano i manager se non si compiono determinate azioni che indicano che si sta lavorando entro un dato lasso temporale, prendono screenshot a caso dello schermo in modo che i controllori possano vedere se non ci si distrae su altri siti, i sistemi più avanzati analizzano il comportamento generando report con metriche per segnalare chi, come e quando si distrae e rallenta il flusso di lavoro. In questo modo si possono individuare i dipendenti meno produttivi e sanzionarli.

Sono sistemi che nella loro pervasività servono a far sentire l’occhio del padrone sulla nuca di ogni singolo lavoratore, per altro isolato dai suoi pari e impossibilitato a formare quella rete di complicità che permette di coprire piccole deviazioni dagli obblighi di lavoro, sottoposto a un controllo spersonalizzante, continuo, con una dimensione che si vuole leviatanica.

Paradossalmente questi sistemi, che pure vengono implementati da manager con la fissa delle metriche di produttività, vanno in alcuni casi a detrimento della produttività stessa. Dipendenti frustrati, che finiscono per cercare scappatoie di tutti i tipi, che si rifiutano – giustamente – di assumersi qualsiasi responsabilità creativa nella gestione del lavoro, abituati e costretti a rigidi protocolli spesso farraginosi e idioti, alla prima occasione se ne vanno.

È uno dei motivi dietro alla Great Resignation, il fenomeno che negli USA negli ultimi mesi sta vedendo moltissimi lavoratori abbandonare i propri posti di lavoro appena hanno abbastanza soldi da parte per campare senza lavorare per qualche mese. La produttività o la qualità del lavoro interessa però, spesso, meno della possibilità di attuare un controllo capillare.

Il rapporto capitalistico è un rapporto che si vuole totalitario. Le grandi concentrazioni industriali negli opifici nel corso dell’Ottocento nascono con lo scopo di concentrare e controllare meglio la forza lavoro che prima lavorava, anche se per lo stesso padrone, al telaio domestico nei processi di produzione diffusa. L’introduzione delle macchine con automatismi sempre maggiori è servita a disciplinare la forza lavoro ai ritmi imposti dalla direzione.

Avere le maestranze inurbate, che lavorano in luoghi predisposti, significava, allora, spezzare quel legame con la terra che permetteva di avere una sussistenza fuori dei rapporti mercantili. L’inurbamento e l’industrializzazione sono possibili grazie alle enclosures che limitano l’accesso comunitario alle risorse agroforestali. Il rapporto tra sradicamento dalla terra e integrazione nel processo industriale non è una novità del Novecento ma è una caratteristica primaria della nascita della grande industria moderna. Il legame con l’azienda, venute meno le risorse autonome che permettono almeno di mettere qualche legume e due uova in tavola a prescindere dall’andamento dei mercati e del riflesso di questo sul proprio salario, diventa un legame totalitario. In alcuni paesi, come l’Italia, per qualche decennio hanno resistito le figure dei metal-mezzadri che però sono stati fenomeni residuali e scomparsi nel giro di pochi decenni o relegati solo a regioni con determinate specificità.

L’introduzione di sistemi di controllo per il telelavoro rimarranno in auge anche con il rientro dello stesso – rientro delle cui dimensioni sapremo solo nei prossimi anni – e verranno applicati anche in ufficio, aggiungendosi ai consueti controlli a vista e alle spiate fatte da colleghi cui non è stato spiegato come si sta al mondo.

La dimensione del controllo è fondamentale in un sistema che tende al totalitarismo e la possibilità di controllare fin nelle pieghe più microfisiche dei rapporti di lavoro – quindi rapporti di potere e dominio – è il sogno di molti manager. Nel corso degli anni però la concentrazione industriale ha permesso ai lavoratori di riconoscersi gli uni con gli altri come sfruttati accomunati dalla stessa oppressione. Il vivere dentro la fabbrica ha permesso in certi momenti di prenderne il controllo, di spezzare quel sistema di controllo che gravava sulla testa dei lavoratori.

Se la ristrutturazione industriale di fine anni ’70, che ha visto l’introduzione di sempre maggiori automatismi, ha permesso il contrattacco padronale contro le lotte che per un decennio avevano visto i lavoratori conquistare migliori condizioni di lavoro e di salario, la conseguente introduzione degli automatismi nei lavori di concetto ha seguito la stessa dinamica colpendo coloro che si ritenevano in salvo.

Il ceto impiegatizio si è a lungo ritenuto immune dalle conseguenze della cosiddetta terza rivoluzione industriale. Gli impiegati della FIAT potevano permettersi di identificarsi negli interessi dell’azienda e scendere in piazza contro i loro colleghi dei reparti ma sono stati spazzati via anche loro. I gestionali della SAP hanno fatto tante vittime come il Robogate della COMAU e stessa cosa si può dire per Solidwork e altri programmi di CAD/CAM.

Se le tecnologie per il controllo informatico capillare del lavoratore non si sono ancora diffuse è a causa dell’impreparazione stessa di molte aziende. Sono tecnologie costose – sia in termini di licenze per comprarle che di consulenze per l’implementazione e la formazione per usarle – e gli imprenditori italiani, soprattutto nelle piccolo-medie imprese, preferiscono non investire in tecnologia. Non è un caso che Confindustria sia stata una dei maggiori sponsor delle politiche del governo Draghi tese a garantire il rientro negli uffici.

Questo però per quanto tempo? Non è da escludere che nel prossimo futuro tecnologie ora abbordabili solo ad aziende strutturate non comincino ad avere costi minori. È una tendenza iscritta nel cosìddetto “capitalismo della sorveglianza”: raccogliere dati in modo capillare, metterli in relazione, elaborarli, produrre previsioni.

Cosa si può fare davanti a un sistema che si presenta come leviatano e ci vuol ridurre a monadi? In realtà, di là delle astuzie tecniche che si possono adottare a livello individuale per tutelarsi da chi vorrebbe esercitare un controllo pervasivo, la ricetta non è nuova: costruire relazioni solidali con chi condivide la propria condizione, informarsi, condividere conoscenze, organizzarsi.

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Green Pass e dintorni – Tra cialtroneria di stato e pseudoscienze

Il seguente articolo verrà pubblicato sul numero 27 anno 101 di Umanità Nova

L’agosto italiano ha visto l’introduzione del Green Pass come strumento per la gestione dell’epidemia. È una misura che era nell’aria da tempo e l’avvicinarsi dell’autunno ne ha accelerato i tempi di adozione. Il Green Pass è una misura che serve allo Stato per scaricare sui singoli le proprie oggettive responsabilità. Non è niente di nuovo: l’intera gestione della pandemia è passata in questa modalità.

Il governo Conte II, inizialmente, ha sottovalutato la grave situazione pandemica nel Gennaio del 2020, giurando che non c’era nulla da temere e che tutto era sotto controllo; successivamente si è lanciato in una frenetica corsa a decreti restrittivi. I primi focolai non sono stati isolati perché le associazioni degli industriali del Nord-Est si opponevano a zone rosse nei loro distretti produttivi.

Incapace di gestire in modo razionale e scientifico la pandemia, grazie alla storica mancanza di un piano pandemico e ad una medicina territoriale sempre meno adeguata, il governo Conte II ha scaricato tutto sulla gestione dei comportamenti individuali. Al tempo stesso i vertici istituzionali, non riuscendo a fornire un numero sufficiente di DPI, mascherine e gel igienizzanti, sostenevano che le mascherine fossero inutili, sperando, quindi, di abbattere la richiesta di un mezzo di protezione che si è rilevato fondamentale.[1]

Nel frattempo si imponevano misure inutili come il coprifuoco notturno. Incapace di gestire in modo reale la pandemia, il governo, pur di dimostrare che qualcosa sapeva fare, non trovava di meglio che mandare la polizia a prendere i documenti a chi si trovava su una panchina ai giardini. Negli snodi della logistica scoppiavano dei focolai; ma per il governo il problema era regolamentare chi usciva a correre, mica l’espandersi della pandemia nei distretti economici (la cui unica misura di contenimento possibile sarebbe stata il blocco). Fortunatamente il sindacalismo più combattivo e l’auto-organizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici sono riusciti, in molti casi, ad imporre stop e blocchi di magazzini e fabbriche in cui vi era l’elevato rischio di contagio.

Il successivo governo Draghi ha continuato sulla stessa linea. La campagna vaccinale è stata prima tarpata da una gestione inefficace e, poi, da una campagna terroristica sul vaccino Astra Zeneca. Ciò si inserisce nella logica delle guerre commerciali tra le varie case farmaceutiche e le rispettive consorterie che appoggiavano questo o quel produttore. Il criminale comportamento dei principali mezzi di informazione, gli stessi che si sperticano in editoriali inorriditi sulle fake news, hanno frenato la richiesta di sieri profilattici da parte di una popolazione sempre più confusa.

Un ardito piano per contenere artificialmente la richiesta di un mezzo atto a soddisfare il bisogno di salvaguardia della salute individuale e collettiva? Oppure l’ordinaria imbecillità della borghesia e dei suoi lacchè? Ai futuri storici la sentenza.

Quale che siano state le cause, questo comportamento ha generato una grave confusione nella popolazione. Un caos in cui gruppi di avventurieri, alla ricerca di consensi politici o di guadagni economici, come i variegati e abietti guru delle pseudoscienze – dai no-vax della prima ora ai propugnatori di farlocche cure domiciliari – sguazzano allegramente. Ora il governo, le televisioni e la carta stampata attaccano questi mestatori che sono le loro stesse creature.

Come culmine di questo periodo di sonora idiozia con il bollino di qualità “Made in Italy”, ecco giungere a noi il Green Pass. Dopo aver terrorizzato la popolazione mezzo stampa, dopo aver dato spazio alle peggiori fandonie antiscientifiche del governo, ecco di nuovo lo scaricamento di responsabilità sulla scelta individuale di vaccinarsi o meno.

Intendiamoci: al momento il ricorso alla profilassi vaccinale è il modo migliore per arginare le peggiori conseguenze della malattia. Il rapporto rischi/benefici è estremamente sbilanciato verso i secondi, checchè ne dicano i precedenti citati guru delle pseudoscienze.

Una profilassi di massa contro le malattie infettive è il modo migliore per impedire l’emergere di varianti. Chi non ne fosse convinto può andare a vedere quante varianti della polio[2] o del vaiolo siano in circolazione al giorno d’oggi, al contrario di metodi terapeutici che, per quanto efficaci sul breve termine, possono operare pericolose selezioni a collo di bottiglia, come già sta accadendo per certe infezioni batteriche a causa dell’uso smodato degli antibiotici in ambito zootecnico.

Al netto di questo si deve fare una riflessione su come la salute sia gestita in una società dominata dal capitale.

La disarticolazione dei sistemi di medicina territoriale ha portato alla perdita del rapporto di fiducia tra medici e pazienti. A questo ha contribuito il comportamento di molti medici: pensiamo ai classici giochetti del tipo “ti seguo meglio quando sei ricoverato in reparto anche se sei un mio paziente privato”, alle operazioni inutili fatte in regime di convenzione da parte di strutture private per drenare più soldi al sistema pubblico, sulla pelle dei pazienti stessi. Il personaggio del dottor Guido Tersilli interpretato da Alberto Sordi nei due film omonimi (diretti il primo da Zampa e il secondo da Salce) è la rappresentazione massima di questo squallore vigente da liquidare senza sé e senza ma.

Lo Stato si sta ora ponendo come l’unico mezzo di salvezza. Come un deus ex machina, l’istituzione statale sa distribuire il vaccino che porterà alla fine dalla pandemia. Ma non è così. Dietro a questa rappresentazione – e, ancora, c’è da chiedersi quanto ci sia di malafede e quanto ci sia di falsa coscienza – si nasconde un nudo fatto: lo Stato non è capace di soddisfare il bisogno di salute. E non è che non ne è capace perché è male organizzato o diretto da personaggi imbecilli o di dubbia moralità. No, non ne è capace perché non è il suo compito. Lo Stato serve a garantire la riproduzione del sistema in cui viviamo. Serve a schiacciare con violenza le persone sfruttate e tenerle in tali condizioni.

L’epidemia di SARS – COVID-19 è solo la prima. Ce ne saranno altre. Se va bene saranno malattie fastidiose ma relativamente poco pericolose. Se va male saranno malattie con la mortalità del SARS-CoV-1 del 2003 o peggio.

Le pandemia che si profilano all’orizzonte sono dovute a zoonosi. E queste hanno come causa prima la compressione delle nicchie ecologiche dove certi agenti patogeni erano isolati. La distruzione degli ecosistemi, l’esistenza di incubatori a crescita esponenziale come gli allevamenti intensivi o i wet market hanno portato alla proliferazione di determinati micro-organismi. Si può discutere se l’origine della pandemia di COVID-19 sia stata nel wet market di Wuhan (grazie a qualche borghesotto con la sua fame di specie esotiche da mettersi a tavola per rimarcare il suo status sociale), o nel laboratorio di virologia che ha seguito con leggerezza le procedure di manipolazioni di materiale pericoloso – le ipotesi di un virus inventato artificialmente si sono già dimostrate come infondate e quindi non le prendiamo in considerazione. Ma rimane un fatto che in molti cercano di nascondere: l’attuale pandemia non è un mostro venuto dallo spazio profondo: è la diretta conseguenza del nostro mondo. Ed era da anni che si sapeva che prima o poi sarebbe successo.[3]

Eppure nessuno Stato ha preso precauzioni. Anzi. L’estrattivismo è stato ampiamente incoraggiato, nonostante sia una delle cause prima della distruzione degli ecosistemi. Lo sviluppo di allevamenti intensivi è continuato. Non è un caso che un governo come quello brasiliano sia stato in prima linea nel negare la gravità della situazione. La distruzione delle foreste pluviali è una delle prime fonti del PIL di quel paese. L’ideologia degli evangelici pentecostali al governo calza come un guanto al sistema economico che gestiscono. Le comunità indigene che vengono massacrate dal SARS-COVID-19, come coloro che vivono ammassati negli slums, muoiono per volontà di Dio. I conti in banca dei latifondisti crescono per volontà di Dio. Tutto si tiene.

Inutile aggiungere che ben poco si sta facendo per organizzare una profilassi che avvenga congiutamente a livello globale. I vaccini, o meglio la capacità di produzione degli stessi, sono una leva geopolitica, per cui, al netto della lentezza nell’implementare nuove linee di produzione, che può essere superata fino a un certo punto, vi sarà una scarsità artificiale che renderà possibili varianti in grado di aggirare la proteziane data dalla vaccinazione.

Abbiamo divagato, torniamo alle nostre latitudini. Grazie alle leggi sull’immigrazione italiane, che si inseriscono nel più generale quadro europeo, in Italia ci sono centinaia di migliaia di persone sconosciute al sistema sanitario in quanto irregolari. Altre sono state marginalizzate in quanto persone transgender e “non binary”, senza casa, sex workers, soggetti psichiatrizzati (o un mix di tutte le cose). Queste persone, a volte espulse dai processi produttivi e relegate alle economie informali, non sono state minimamente coinvolte nella campagna vaccinale se non per buona volontà di qualche associazione o di qualche presidio sanitario. Ora, persone senza documenti o non conformi alla loro identità di genere, si troveranno ad aver bisogno dell’ennesimo pezzo di carta cui non hanno accesso a prescindere dall’essersi vaccinate a meno. È il caso di non vaccinati a prescindere dalla loro volontà, o meno, di vaccinarsi dato che burocraticamente non esistono – o esistono solo per questure e prefetture – e quindi non possono accedere alla profilassi.

Forse chi si sta domandando come cavalcare quelle piazze di piccolo e medio borghesi indignati – specie ristoratori – perché, per la prima volta nella loro vita, si trovano dalla parte sbagliata delle decisioni governative, dovrebbe ragionare come organizzarsi con – e sottolineiamo la preposizione con – chi subisce l’ennesima discriminazione.

Certo, tra chi è sceso in piazza ci sono anche molti che sono genuinamente preoccupati, che non hanno posizioni antiscientifiche a priori, che hanno paura, quella paura suscitata da mesi e mesi di terrorismo mediatico e di decisioni contraddittorie da parte del famigerato Comitato Tecnico Scientifico, che di tecnico e di scientifico ha poco, mentre ha molto di politico. Ma la direzione di quelle piazze, chi le cavalca e le dirige, è tutta in mano a pezzi della piccola e media borghesia e dei loro referenti politici.

Come dicevamo, il governo e i media ad esso allineati hanno attivamente boicottato la campagna vaccinale per cui ora spingono. Questo atteggiamento è solo apparentemente contraddittorio. In un dato momento era necessario comprimere artificialmente la richiesta di sieri per nascondere, dietro una cortina fumogena di titoli a cinque colonne, i malori e i morti che ben poco avevano a che fare con il vaccino ma che rientravano nel triste computo della caducità della vita, delle guerre commerciali e della cattiva organizzazione della campagna vaccinale. Ora è necessario interrompere i ristori per certe categorie ed evitare un nuovo brusco stop ai consumi in autunno; per cui si spinge sulla campagna vaccinale stessa.

Inoltre è palese la volontà delle associazioni padronali di porre fine allo smartworking che, pur con tutte le criticità evidenziate da molti dipendenti, ha permesso di limitare i contagi. D’altra parte lo smart working rende molto più difficile la sorveglianza continua degli impiegati e delle impiegate da parte dei capi e capetti negli uffici. Certo, esistono sofisticati sistemi di monitoraggio remoto; ma nelle PMI italiane si preferisce, si sa, gli investimenti in sistemi IT sono ben scarsi per cui sono i sistemi di controllo remoto per i dipenti sono stati adottati, fortunatamente, da ben poche imprese.

Come ciliegina sulla torta è stato annunciato che i giorni di isolamento fiduciario in caso di positività al SARS-COVID-19 (misura che ha permesso di limitare fortemente i contagi), non saranno riconosciuti e pagati come malattia. In pratica stai a casa bruciandoti le ferie o, se hai un contratto atipico, preparati a stringere la cinghia. O in una specie di smart-working che assomiglia più ai domicialiri che ad altro se si lavora in ufficio.

Questo è un gravissimo attacco nei confronti dei lavoratori, che scarica i costi della pandemia – o per meglio dire della sindemia – sui singoli lavoratori. Niente, ovviamente, è stato fatto per abbattere i rischi di contagio in itinere, ovvero sui sovraffollati mezzi pubblici. Questi sono temi su cui è necessario confrontarsi.

Il non-detto sulla questione vaccinale è come tale profilassi metta al riparo dalle peggiori conseguenze della malattia e diminuisce fortemente il rischio di trasmissione – il che è ottima cosa – ma non costituisce uno schermo magico che rimbalza i virus. Per cui anche se sei vaccinato, rischi di essere positivo e di passarti mezzo mese senza stipendio.

Lo Stato sta presentando il vaccino come cura definitiva della pandemia quando in realtà sta solamente cercando un modo di gestione che permetta di trovare un punto di equilibrio tra crescita economica – o per lo meno un non-tracollo economico –, e il numero di morti per la malattia. I guru delle pseudoscienze e i loro seguaci sono solamente l’altra faccia della medaglia, impegnati in una guerra di opinione e nel posizionarsi al meglio nello spettacolo vigente.

Nel frattempo niente si sta facendo per prevenire la prossima pandemia.Dato che gli Stati e il capitale, e tanto meno i ciarlatani, non potranno farlo sarà compito altrui.

NOTE

[1] Sulla rivista scientifica multidisciplinare PNAS (acronimo di “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America”) venne pubblicato l’articolo “An evidence review of face masks against COVID-19” (Issues 118, n. 4, 26 Gennaio 2021). In esso, i ricercatori e le ricercatrici analizzano come il virus in questione si trasmetta attraverso le goccioline respiratorie e una delle prevenzioni per frenare la diffusione del contagio sia l’utilizzo delle mascherine. Gli studiosi e le studiose in questione, inoltre, raccomandano “che i requisiti per l’uso della maschera siano implementati dai governi o, quando i governi non lo fanno, da organizzazioni che forniscono servizi rivolti al pubblico. Tali mandati devono essere accompagnati da misure per garantire l’accesso alle mascherine, possibilmente compresi meccanismi di distribuzione e razionamento in modo che non diventino discriminatori. Dato il valore del principio del controllo alla fonte, soprattutto per le persone pre-sintomatiche, non è sufficiente che solo i dipendenti indossino la mascherina; anche i clienti devono indossare le mascherine. […]”

Link all’articolo completo: https://web.archive.org/web/20210904094921/https://www.pnas.org/content/118/4/e2014564118

[2] Le varianti della poliomielite conosciute sono di tre tipi. Attualmente il tipo 3 (Wild PolioVirus 3 (WPV3)) è stato eradicato, mentre il tipo 1 e tipo 2 (rispettivamente WPV1 e WPV2) sono presenti in trentadue paesi (dato del 27 Agosto 2021). La causa della presenza dei primi due tipi di polio è da imputare sia alla bassa qualità di risposta a livello immunitario del vaccino mOPV2 che all’attuale pandemia da Sars-Covid 19. Attualmente l’OMS sta puntando al vaccino nOPV2 come sostituto dell’attuale vaccino. Fonti:

“Eradicazione del poliovirus selvaggio di tipo 3: la certificazione OMS”, 7 Novembre 2019, Link all’articolo completo: https://web.archive.org/web/20210305103236/https://www.epicentro.iss.it/polio/eradicazione-poliovirus-selvaggio-tipo-3

“Progress Toward Polio Eradication — Worldwide, January 2019–June 2021”, Centers for Disease Control and Prevention, Issues 70, n. 34, 27 Agosto 2021. Link all’articolo completo: https://web.archive.org/web/20210831141603/https://www.cdc.gov/mmwr/volumes/70/wr/mm7034a1.htm?s_cid=mm7034a1_w

“Implementation of novel oral polio vaccine type 2 (‎nOPV2)‎ for circulating vaccine-derived poliovirus type 2 (‎cVDPV2)‎ outbreak response: technical guidance for countries”. Link al documento: https://web.archive.org/web/20210817140636/https://apps.who.int/iris/handle/10665/333520

[3] Per chi volesse approfondire il tema delle zoonosi e delle loro cause consigliamo la lettura di Spillover. L’Evoluzione delle Pandemie di David Quammen, edito da Adelphi nel 2017. Sempre su questi temi, consigliamo le lettura dell’articolo “Mai la merce curerà l’uomo”, reperibile qua: https://umanitanova.org/mai-la-merce-curera-luomo-e-figuriamoci-se-lo-fara-lo-stato/

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Due parole prendendo spunto dai fatti di Voghera

Messe giù così, a punti, che non ho voglia di scrivere un articolo vero:

– quando si parla di difesa personale si dovrebbe tenere ben presente il principio di proporzionalità. Chi, negli anni, ha attraversato non da fruitore passivo spazi autogestiti e simili ha sicuramente dovuto gestire gente molesta, come pare che l’uomo ucciso fosse. Il più delle volte la faccenda si risolve parlando in modo pacato ma mostrandosi decisi. In qualche altra occasione si risolve con una comoda chiave articolare ben eseguita e un calcio in culo. Quando si può si agisce in modo collettivo e senza fare i cazzoduristi. Raramente si finisce per dover fare _veramente_ male a qualcuno. Qualche volta succede e amen, non è una tragedia.

– si tiene a mente che una persona che in quel momento è molesta non è una specie di subumano da eliminare. E’ una persona che in quel momento può rappresentare un pericolo e che va contenuta e/o allontanata. Il punto non è purificare il mondo da soggetti “immorali”, il punto costruire un modo sicuro di stare insieme. In alcuni casi è una persona che sta peggio della media delle persone che mi leggono. In alcuni casi è, per farla breve, uno stronzo. In molti casi un mix di ambo le cose. In ogni caso non è un mostro venuto dall’oltrespazio ma un prodotto del nostro mondo.

– lo stare insieme in modo sicuro si costruisce insieme e non facendo i supermacho. Io posso essere uno spaccaossa professionista e scaricare con precisione un bifilare da 15 colpi nel 10 di un bersaglio in movimento ma da solo potrò ben poco. La sicurezza emerge dalle relazioni che ho con il prossimo. Se le relazioni non saranno quelle di una società gerarchica, basata sullo sfruttamento e sull’oppressione ma quelle di una società di liberi e uguali è più difficile che mi ritrovi nella situazioni di dovermi difendere e, contemporaneamente, è molto più facile che mi possa difendere con efficacia.

– l’efficacia della difesa non dipende dall’intervento di una sfera separata a cui si delega la violenza ma dalla propria capacità di saper usare e gestire, individualmente e collettivamente la violenza. Dalla capacità di combattere e dalla capacità di individuare le cause ultime della violenza e di concentrarsi su di queste. La violenza esiste e o ce ne occupiamo noi o lei si occuperà di noi.

– il sapersi difendere è un primo luogo una capacità di gestione dello spazio. Di percezione dell’ambiente e di percezione del proprio corpo in rapporto con l’ambiente. Puoi anche avere una glock subcompatta in porto occulto pronta all’uso ma se vaghi guardando il cellulare niente ti impedirà nè di prendere il proverbiale (e meritato) palo in faccia nè il cartone sul naso da uno che vuole il tuo cellulare. Saper correre i cento metri senza andare in crisi respiratoria è altresì un’ottimo mezzo di autotutela. Ecco, quando uno sa fare queste due cose, correre i cento metri e percepire l’ambiente intorno, può iniziare a ragionare di tirare manate sulla trachea altrui o di usare uno strumento che lo faciliti (da botta, da taglio o a fuoco che sia). Se poi sei nella condizione di _dover_ usare quello strumento, bhe, usalo. E’ estremamente difficile che succeda ma può succedere, checchè ne dica quella sfilza di pretini che vivono nel mondo dei puffi pratolini o il segretario del PD che fa il cosplay del suo più famoso equivalente statunitense. Scrivevamo un paio di anni fa:”[…]L’hoplofobia dell’ala sinistra del capitale è tutta già scritta nella sua storia, ovvero nella storia della sua falsa coscienza e del suo opportunismo, allo stesso modo in cui la voglia del piccolo borghese di farsi giustiziere della notte è scritta nella sua parabola discendente di ridicola figura messa in crisi non da immaginari banditi ma dalla ferrea logica del capitale.”

– in secondo luogo il sapersi difendere sta nell’evitare che le situazioni si presentino e nel saper gestirle in direzione di soluzione di lungo termine (esempio stupido: bravo, hai spaccato il braccio al tizio che ha provato a rubarti il cellulare. Dopo un mese il suo braccio è tornato usabile e lui decide di aspettarti sotto casa e piantarti un cacciavite nella pancia mentre apri la porta). Quindi o ti metti a sciogliere nell’acido tutti quelli che possono rappresentare un pericolo a lungo termine o impari a trovare delle soluzioni complesse a un problema solo apparentemente semplice. Per farlo, come detto prima, devi passare da un piano collettivo. Un ambiente, sociale e fisico, sicuro è la prima forma di tutela.

– stando più sull’attualità è evidente che la faccenda abbia a che fare dal modo in cui la società in cui viviamo gestisce le stesse persone che spinge ai margini. Il signore ammazzato viveva nel fantastico incrocio dell’oppressione da soggetto razzializzato, espulso dal processo produttivo, alcoolizzato. Disadattato. Da mettere in quei depositi di umanità di eccesso che sono galere e cpr. Non per processo penale ma per processo amministrativo. Aveva degli atteggiamenti molesti? Da quanto sappiamo si. Ma non è questo il punto. Il punto è che era considerato indecoroso. Se è il figlio del commercialista Tal dei Tali che va in giro a molestare il prossimo dopo essersi pippato l’Everest non gli tiri con la pistola. Perchè “boys will be boys” e al più gli tiri un ceffone (scusandoti, poi, con il Signor Padre). Se è Youns El Boussetaoui a essere ubriaco e a rompere i coglioni è invece giusto tirargli anche se lo si poteva gestire in modo meno violento. 50 anni fa si sarebbe chiamato Ciriaco Saldutto o Barabèl. Più a sud si chiamerebbe Davide Bifolco. Lui è indecoroso, il figlio del commercialista è un ragazzo che vuole divertirsi e esagera un po’. A Youns El Boussetaoui la seconda chanche (ma manco la prima) non è concessa.
Infatti chi gioisce del suo omicidio lo fa perchè se muore uno così c’è da festeggiare al prescindere dal pericolo effettivo che rappresentava. A quelli che festeggiano non interessa vivere più sicuri: interessa pisciare in testa agli ultimi sfigati. Molto probabilmente sono gli stessi che, non nella responsabilità individuale ma nella propria funzione sociale, l’hanno spinto in quello stato. E i loro servi. Chi lo ha ucciso, riportano le cronache, era noto per andare in giro a molestare gli indecorosi nel nome del decoro. Una fantastica storia di provincia.

Nota tecnica, o del perchè sentire parlare di colpi accidentali nel 2021 mi fa ridere

Lo scrivente è un tizio che per ragioni varie sa utilizzare circa decentemente (sono modesto e sono pure fuori esercizio causa lockdonw vari) le armi da fuoco moderne. Le moderne armi progettate per l’uso operativo (leggi: da difesa) sono dotate di sicure ridondate, che rendono impossibile che parta un colpo accidentale tanto che l’israelian/empty chamber carry è diventato obsoleto e non viene più insegnato, se uno rispetta una regola fondamentale: tenere il dito fuori dalla guardia se non quando si _vuole_ sparare. Se non avete mai tenuto una pistola in mano può sembrare una cosa macchinosa ma posso assicurarvi che non lo è. Se dichiari che ti è partito un colpo accidentale ci sono tre possibilità: a) stai mentendo b) hai scelto l’arma sbagliata (tipo un’arma da tiro accademico con scatto allegerito, di quelle che le guardi troppo intensamente e sparano) c) sei così coglione da tenere il dito dentro la guardia, fottendotene di una delle quattro (4, eh, mica, 400) regole fondamentali nel tenere in mano un’arma da fuoco. Nel primo caso sei un omicida. Nel secondo o hai avuto sfiga (ma di quelle rare: vieni aggredito mentre partecipi alla gara di tiro regionale al poligono) o sei un fesso. Nel terzo caso sei di una negligenza criminale.

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In vita e morte di Cesare Gatto, 15/08/2007 – 06/05/2021

Il sei di maggio del 2021, alle ore 20.00, in un appartamento di Torino, Cesare, il gatto con cui ho condiviso 14 anni di vita, è morto.

Cesare nel novembre 2017

Gli rimanevano pochi giorni di vita: uno osteosarcoma, in forma probabilmente maligna, partito da una vertebra lombare gli aveva distrutto l’innervatura degli arti inferiori, paralizzandolo, e, cosa ben più grave, aveva pesantemente danneggiato quella degli stessi organi interni: un blocco renale dovuto all’accumolo di urina che, in una vescica incapace di svuotarsi, sarebbe risalita verso i reni era imminente. Se non ci fosse stato un blocco renale ci sarebbe stato un blocco intestinale. Il risultato non cambia: avvelenamento da cataboliti, sepsi, shock. O magari una polmonite ingestiva dovuta a una crisi di vomito.

Ho abbastanza conoscenza della fisiologia dei mammiferi per sapere come si muore in questi casi.

Di fronte a questa prospettiva ho preferito ucciderlo io. Certo, una veterinaria ha praticato la sedazione profonda e ha preparato la flebo, ma lo stantuffo che ha lanciato nel suo torrente ematico un mix di curaro e oppioidi l’ho premuto io, coerentemente con l’idea che se si prende una decisione se ne porta il peso. Ho seguito il suo polso carotideo fino all’ultimo, sentendo il battito diventare sempre più debole ed erratico, in un modo che mi ricordava il polso di un signore in arresto cardiaco su cui tentai le procedure di CPR tempo fa. Infine si è fermato: l’effetto del curaro sulle placche neuro-muscolari è rapido e senza scampo. All’arresto cardiaco è seguito un arresto respiratorio, ho sentito chiaramente l’ultimo movimento del diafframma e l’aria che abbandonava i polmoni. A questo è seguito nel giro di pochi minuti la morte cerebrale per ipossia.

Sono conscio del peso di una simile decisione: Cesare non mi ha chiesto di morire, non me l’ha fatto capire. Cesare non parlava italiano, francese o inglese, le tre lingue che intendo. Le sue forme mentali erano differenti dalle mie. Ciò nonostante ho scelto di togliergli la vita. Penso di aver fatto bene ma l’unico soggetto in grado di confermarlo non lo può fare.

Cesare è stato colui con cui, negli ultimi quindici anni, ho passato in assoluto più tempo. È stato colui che, per i lunghi anni in cui abbiamo vissuto sotto lo stesso tetto, veniva tutte le sere farmi le fusa, a prescindere dagli orari in cui mi coricavo (e per un certo periodo ho avuto orari piuttosto assurdi). È stato colui che, dopo il caffè e la sigaretta post prandiale, veniva ad accocolarsi su di me mentre mi guardavo i Simpson o Futurama.

Quando ero fuori per 12 e più ore per un lavoro che detestavo fino alla mia più intima fibra, mentre tornavo con un treno perennemente in ritardo verso casa, pensavo spesso al fatto che, per malvagia che fosse stata la giornata, mi sarei goduto un bel po’ di fusa una volta arrivato a casa.

Durante le lunghe ore delle riunioni di redazione di Umanità Nova stava spesso accoccolato sulla mia persona. O seduto di fianco alla tastiera a guardarmi. Più volte i suoi “ron ron” si sono sentiti a centinaia di chilometri di distanza, catturati dal mio microfono, campionati dalla scheda audio e trasmessi via TCP/IP ad altri redattori.

Non conto le volte che ho dovuto interrompere le visioni di film o le letture di libri perchè decideva che era il momento di farsi coccolare. Un paio di volte l’ha fatto anche mentre facevo addominali a terra e in un’occasione aveva deciso che la mia gamba che si muoveva nel movimento ritmico delle trazioni alla sbarra era un gioco estremamente divertente. Ha distrutto svariate paia di pantofole di mio padre. Morso in più occasioni mia madre perchè non lo stava considerando abbastanza. Predato svariati rotoli di carta igienica. Fatto saltare le piume della coda di un piccione che ebbe la peregrina idea di provare a nidificare sul suo balcone.

Morso un poliziotto, che così questo imparava a farsi gli affari suoi[1].

Quasi tutti gli articoli che ho scritto su questo blog e su Umanità Nova sono stati scritti con lui di fianco. Anche se non ho messo il canonico F.D.C. Willard come co-autore (avrei dovuto), lo è stato.

La coscienza antispecista che ho maturato nel corso degli anni è maturata grazie al rapporto con lui.

È stato uno dei miei migliori amici, è stato parte della mia vita. Lo sarà finchè avrò facoltà di ragionare.

Voglio qua ringraziare chi mi è stato vicino in questi giorni, chi fisicamente, chi con messaggi. Voglio ringraziare anche la veterinaria che ci ha seguito in questi mesi, la sua empatia è stata maggiore di quella di certi medici che ho conosciuto.

Addio Cesare, ti ho amato come un amico, sei stato mio compagno e sempre lo sarai.

[1] Ottobre 2011, dei tizi mi suonano alla porta di casa. Apro: sono due tizi con giacca e cravatta con cartellini di azienda che simula il logo della Gazprom e che provano a vendermi un contratto del gas (perchè la Gazprom manda direttamente i commerciali dai privati con utenza domestica, è risaputo). Li invito, abbastanza gentilmente, ad andare a raccontare frottole altrove. Questi cominciano a fare gli arroganti. Io gli mostro che posso essere molto più arrogante di loro, e, per evitare la giusta punizione per la loro empietà, scappano per le scale. Riprendo a farmi i cazzi miei, apro la finestra per fumarmi una sigaretta e vedo i due tizi sostare sotto casa. Questi cominciano ad insultarmi e io rispondo. Dopo poco arriva una volante: viene fuori che questi due stronzi hanno l’abitudine non solo di provare a truffare la gente ma pure di provare ad attaccare rissa per poi fare la parte degli aggrediti. Tipo era la terza volta in una settimana che succedeva. I tizi spiegano a due irritati (con loro) poliziotti che io li avrei proditoriamente aggrediti. I poliziotti annuiscono e li invitano ad andarsene altrove, mi chiedono i documenti e mi salgono in casa. Il poliziotto più giovane vede Cesare su una poltrona e prova a toccargli la testa. Viene immediamente rimesso al suo posto da una meritata mozzicata. Si lamenta con il collega più anziano che lo guarda come se parlasse con un bambino scemo e gli fa “certo che ti ha morso, è un gatto, che ti aspettavi che facesse?”. Io mi chiedo se le barzellette sui carabinieri in realtà non dovrebbero essere sui poliziotti. Pigliano la mia versione (“i tizi hanno fatto gli arroganti e io gli ho detto di andarsene e poi non è successo niente, no non li ho minacciati con un bastone, no, non ho intenzione di adire per vie legali, si, sono ben conscio che avrei la possibilità di farlo, arrivederci e buone cose”). Io vado alla coop e prendo le due scatolette più costose e di qualità che trovo e le porto a Cesare. Lui è contento, io sono contento.

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Myanmar e lo scomodo vicino- Interessi commerciali cinesi e colpo di Stato

Il seguente articolo è stato pubblicato su Umanità Nova numero 12 anno 101 da me e da J.R. Non ha la pretesa di essere un lavoro esaustivo ma bensì un lavoro compilativo e di meta-analisi per fornire alcune informazioni su temi poco dibattuti e conosciuti alle nostre latitudini.

Le vicissitudini del Myanmar (Birmania) sono di difficile lettura se si tenta di analizzarle esclusivamente da un punto di vista di equilibri tra forze interne o, peggio ancora, usando la lente d’ingrandimento e concentrandosi solo sulle questioni di conflitto fra gruppi etnici.[1] Pur nella tragedia di esodi di massa, vessazione verso le minoranze religiose e le attuali risposte armate alle proteste contro il colpo di Stato, crediamo sia estremamente importante analizzare la questione birmana con una chiave di lettura geopolitica.

La denuncia sic et simpliciter di un regime è un atto dovuto ma non aiuta ad inquadrare il problema rispetto alle cause primarie, che a nostro avviso sono e rimangono indissolubilmente legate a ragioni economiche internazionali. Nella guerra giocata sul piano della competizione economico-finanziaria a farne le spese sono sempre le popolazioni locali ed i governi nazionali sono strumenti di attuazione di programmi neoliberisti, con la sola differenza che se in occidente i colpi di stato non sono accettabili in altre parti del mondo fanno parte della prassi.

La proposta di analisi avanzata in questo articolo fa riferimento alla combinazione di elementi esogeni che dagli anni ’90 hanno indotto una accelerazione nella latente crisi interna del paese. Vengono presi in considerazione tre fattori decisivi: il posizionamento geografico del paese, l’espansionismo cinese e la fisiologica instabilità politica birmana. Non abbiamo qui la pretesa, in poche righe, di poter esporre con la dovuta completezza una questione tanto complessa, quel che ci preme è però riuscire ad inquadrare il conflitto sociale in atto all’interno di uno schema molto più ampio della sola questione etnica. Se mai il conflitto interetnico va inquadrato all’interno degli espedienti utilizzati per impoverire ed allontanare le popolazioni locali da zone ad altissimo interesse economico e commerciale.

L’ipotesi che sintetizza i tre fattori poc’anzi esposti ruota attorno alle rotte commerciali cinesi e a tutto il portato di infrastrutture e zone economiche speciali (ZES) che hanno storicamente fatto la fortuna della superpotenza asiatica.[2] Le ZES, sulla cui utilità per le popolazioni locali c’è ancora una consistente coltre di dubbi, hanno svolto un ruolo centrale non solo nella propulsione dell’economia cinese post maoista, ma è stata “adottata” anche in altri paesi asiatici. Attraverso il programma di cooperazione economica della subregione del Grande Mekong (GMS-ECP), un modello di integrazione e sviluppo regionale fortemente voluto della Banca Asiatica di Sviluppo (ADB) e partito all’incirca dalla metà degli anni ’90, alcune aree strategiche sono integrate nell’iniziativa cinese One Belt, One Road.[3] Nella fattispecie l’operazione di integrazione economica riguarda il Myanmar e la Cambogia, dei quali il primo è geograficamente a ridosso di aree cinesi densamente industrializzate (provincia di Yunnan) e il secondo in posizione favorevole per quanto riguarda gli scali marittimi, affacciandosi sul trafficatissimo golfo di Tailandia.

Quando si parla di integrazione economica, va solitamente intesa con l’aggettivo implicito “verticale”, dal momento che integrare un paese all’interno di un processo economico, il più delle volte, significa rimuovere gli ostacoli economico-legislativi affinché lo Stato integrato diventi una propaggine “economicamente attiva” di un processo più ampio, cioè fornisca supporto logistico, manodopera e suolo al minor costo possibile o semplicemente si lasci attraversare dai flussi economici e commerciali senza aver nulla a pretendere. Questo copione si ripete praticamente invariato da quando è stato concepito il sistema di parassitismo chiamato colonialismo, in tutte le sue versioni.

Se osserviamo la nascita delle ZES birmane, ad un certo punto noteremo un accentuato parallelismo con quelle cinesi, soprattutto negli ultimi anni. Il progetto per la realizzazione di aree speciali in Myanmar è iniziato con le ZES di Thilawa e Dawei negli anni ’90. La prima è un porto fluviale internazionale per container, interamente di proprietà di Hutchison Port Holdings (HPH) a sua volta controllata di Hutchison Whampoa Limited (HWL), società con sede ad Hong Kong che, tra gli altri, controlla anche il porto di Taranto (Taranto Container Terminal – TCTI). La seconda è un centro di produzione di gomma e legno di teak oltre che di prodotti agricoli che vengono esportati in Cina, India e Thailandia. La Kyaukphyu SEZ, poi, si presenta com un’altra immensa area portuale, costata circa 7,3 miliardi di dollari, finanziata da partecipate dello Stato cinese che ne detiene una quota del 70% e la gestione per cinquant’anni. In questo porto il petrolio proveniente dal medio oriente, pompato attraverso un oleodotto di più di 700 chilometri attraverso l’entroterra montuoso della Birmania fino alla provincia cinese dello Yunnan. La quarta ZES, la Myitkyina Economic Development Zone (nota anche come Namjim Industrial Zone) è in fase di realizzazione e nasce praticamente in contemporanea della ZES di Yunnan. Situata geograficamente a Nord, Myitkyina, capoluogo della regione birmana del Kachin, è un importante snodo commerciale – autostradale e ferroviario – delle merci con la Repubblica Popolare Cinese è attualmente uno dei punti caldi degli scontri e delle proteste contro il colpo di stato militare. Chi trae un grande vantaggio da queste istallazioni è proprio la Cina, perché i porti danno accesso al mare consentendo alla flotta mercantile e militare cinese di bypassare lo Stretto di Malacca; il Myanmar rappresenta l’accesso preferenziale all’Oceano indiano di Pechino.

Unitamente a queste dinamiche in accelerazione c’è tutto il sistema di prestiti e finanziamenti tra il FMI e la ADB, che storicamente hanno stritolato svariati paesi asiatici “inducendone” trasformazioni in chiave neoliberista, cioè la testa di ponte dell’integrazione economica di cui sopra. Il gioco è stato rodato e perfezionato negli anni fin dal “miracolo cileno”: deregulation da un lato, privatizzazioni nel caso di paesi socialdemocratici o semplice svendita del territorio in tutti gli altri. Sfruttando qualsiasi espediente che metta un paese nelle condizioni di chiedere aiuto economico il meccanismo scatta e da quella morsa non è facile svincolarsi.

La crisi asiatica esplosa tra il 1997-2008 ha evidenziato la debolezza indotta dalla dipendenza dai finanziamenti esteri a breve termine, sottolineando la funzione della liquidità in dollari come protezione contro l’instabilità finanziaria. D’altro canto legare più o meno ufficialmente la propria valuta al dollaro si è dimostrato, più che spesso, un pessimo affare.[4] La liquidità di emergenza è stata ottenuta dal FMI in quella che è stata percepita come un’esperienza tutt’altro che felice. Condizioni gravose sono state imposte ai contraenti, come tassi di interesse elevati, il che ha solo aggravato la crisi dato l’elevato livello di indebitamento delle imprese asiatiche. Il Fondo agiva come grimaldello per aprire i mercati dei paesi in crisi agli investimenti esteri, ovviamente nell’interesse dei suoi principali azionisti, in particolare degli Stati Uniti.

Il governo giapponese nel 1997 ha proposto un Fondo Monetario Asiatico per fornire una fonte alternativa di finanziamento di emergenza, l’idea è stata però respinta dal Tesoro degli Stati Uniti e dal FMI. Dopo la crisi, i paesi asiatici hanno risposto raddoppiando i loro sforzi per accumulare riserve in dollari, questo però li ha solo esposti a perdite di capitale dovute alle variazioni dei tassi di cambio alimentando gli squilibri globali con vere e proprie emorragie di liquidità.[5] In questo pandemonio è entrata la Cina letteralmente in scivolata, coinvolgendo il territorio birmano direttamente nei suoi interessi economici.

Da qui la necessità impellente di un solo interlocutore per portare avanti il balzo cinese verso l’occidente ed i suoi mercati. Non è peregrina l’ipotesi di un sostegno cinese al colpo di stato per garantire una certa stabilità (costi quel che costi) e potersi così accaparrare tutto lo spazio di agibilità necessario alle sue mire espansionistiche. Non si deve poi tralasciare che le alte sfere della giunta militare hanno – storicamente ed oggi più che mai – le mani in ricchi affari e speculazioni, da partecipazioni in società di trasporti e di gestione portuale ai possedimenti immobiliari e minerari e chi più ne ha più ne metta. L’esercito è inscindibilmente legato alla società del Myanmar, non solo ha le proprie scuole, ospedali ed un sistema di produzione alimentare ma la sua élite è sposata con potenti famiglie, creando un tessuto integrato che è quasi impossibile da disfare.[6]

Il dominio dei militari va oltre la potenza di fuoco del suo mezzo milione di soldati, i cui attacchi alle minoranze etniche si sono intensificati durante il mandato del generale Min Aung Hlaing. Le due holding più potenti del paese sono sotto il comando dell’esercito, controllando una vasta fortuna che include giada, legname, porti e dighe. Il Tatmadaw (esercito birmano) si è inserito nelle banche, nelle assicurazioni, ospedali, palestre e media. Non è un caso che la rete mobile Mytel sia stata la prima ad essere riattivata dopo che le telecomunicazioni sono state interrotte a livello nazionale dal colpo di stato: Mytel è in parte di proprietà dei militari. L’esercito è il più grande proprietario terriero del paese, cosa non desueta se per esempio si guarda all’Egitto o alla Libia. Appare quindi chiaro che la Cina, così legata a meccanismi di acquisizione tipo il land grabbing, non possa che rivolgersi a chi gestisce la maggioranza del capitale terriero e può decidere di acquisire tutto il resto.

Va inoltre sottolineato come la particolare posizione geografica del Myanmar faccia assumere a questo paese un ruolo rilevante per la politica estere cinese, per motivi di ordine sia commerciale sia militare. L’apparato militare dello stato cinese è numericamente impressionante e negli ultimi anni ha avuto un forte impulso verso un rinnovamento in termini qualitativi ma storicamente manca della capacità di proiezione militare. La Cina è bloccata a nord dalla potenza russa, ad est dal Giappone, dotato di forze armate non cospicue ma moderne e, sopratutto, sede di importantissimi siti aeronavali statunitensi. A sud ha il Vietnam, paese con cui non ha rapporti distesi e che negli anni si è avvicinato alla sfera statunitense. La capacità di penetrazione e insediamento in Myanmar garantisce sia di poter aggirare questi possibili blocchi piroettandosi direttamente verso il golfo del Bengala – ponendo quindi anche una minaccia in termini militari verso uno dei grandi rivali della Cina: l’India – sia la possibilità di sganciare i flussi di merce in entrata ed in uscita dal passaggio per il Mar Giallo e per la regione degli Stretti. Questo significa poter esportare più agilmente verso i paesi dell’Africa Occidentale, paesi dove la Cina intrattiene importantissimi rapporti commerciali sia per quanto riguarda lo scambio di merci sia per quanto riguarda i progetti infrastrutturali, sia per importare materie prime energetiche dal Medio Oriente: da qua si capisce la necessità della classe dominante cinese di mantenere strettissimi rapporti con la giunta militare birmana.

Le proteste contro la giunta militare sono viste dalla Cina come una diretta aggressione nei suoi confronti. Un Myanmar che si rendesse autonomo dall’influenza cinese o che, peggio ancora, decidesse di stringere rapporti con gli Stati Uniti sarebbe una sconfitta strategica per la Cina. La Cina da anni oltre a costruire una propria capacità di gestione dei flussi commerciali punta a presentarsi come alternativa politica ed ideologica alle liberal-democrazie occidentali. Forte del suo oggettivo successo nella gestione dello sviluppo da paese agricolo a potenza industriale si propone come partito dell’ordine a livello globale. Essendo stata in grado di attuare politiche di sviluppo economico di stampo neoliberale senza, al contempo, cedere quote di sovranità ad enti sovranazionali o a potenze straniere, di darsi una struttura di riproduzione capace di fornire manodopera di massa con alti livelli di specializzazione e dotata di forte autodisciplina e di capacità di autorganizzazione, tagliando così sui costi manageriali,[7] cerca ora di proporre questo modello come modello di sviluppo per altri paesi che con essa vorranno condividere una sfera di interessi in comune.

Purtroppo molti vedono la Cina solamente come produttore di paccottiglia di massa a basso costo da esportare all’estero. È un errore enorme. Se l’Inghilterra ci ha messo un secolo dal passare dalla produzione manifatturiera di pezze di tessuto di bassa qualità, accumulando però una fortuna, e di merci per alimentare il commercio triangolare all’esportazione di acciaio di alta qualità per corazze navali e ferrovie, la Cina in trenta anni è passata dal produrre pezzi di plastica e di metallo di bassa qualità a fare concorrenza agli Stati Uniti nel campo delle ricerca dell’intelligenza artificiale, delle biotecnologie, dei processi produttivi di nuova generazione. Si pensa che la produzione elettronica cinese sia importante per le caratteristiche di massa nella produzione di smartphone e si ignora come la Huawei faccia concorrenza alla Cisco Systems e alla Juniper Networks nella costruzione e nella vendita di router, firewall fisici e switch di alta fascia, insomma degli apparecchi che permettono la gestione delle dorsali di trasmissione dei dati. Parte integrante della strategia di espansione cinese è quella di esportare queste tecnologie e la capacità di gestione.

Per rimanerre sul Myanmar è interessante prendere in esame il Safe City Project,[8] ovvero un insieme di tecnologie per “Smart City” in grado di creare in breve tempo un sistema di sorveglianza di massa. Questo genere di progetti vanno a fornire governi di paesi relativamente poveri di sistemi tecnologici all’avanguardia, in grado sia di poter fornire utilità di scala per lo sviluppo economico – infrastrutture digitali – sia capacità di sorveglianza e controllo altrimenti non ottenibili. Ci sarebbe da aprire un dibattito su quanto poi questi sistemi funzionino ma intanto sono tra i volani dell’espansione di un moltitudine si soggetti economici, più o meno istituzionali.

Per altro la relazione tra Cina e Myanmar sul terreno delle tecnologie digitali è a doppio binario poiché quest’ultimo paese gode della presenza di miniere di terre rare, fondamentali per la produzione di motori elettrici e semiconduttori. Intendiamoci: la Cina estrae più dell’85% di questi minerali a livello globale, quindi non necessita certamente delle risorse del vicino meridionale ma, siccome parliamo di materie prime non distribuite in maniera eguale sulla superficie terrestre e, al contempo, fondamentali per la produzione tecnologica, controllare l’1,7% in più delle estrazioni è una notevole leva sul mercato globale di queste materie.[9]

Ufficialmente la Cina si presenta come potenza in grado di dare gli strumenti per uno sviluppo armonioso, una riproposizione della propaganda da Conferenza di Bandung, di fornire infrastrutture all’avanguardia a paesi terzi cui le potenze occidentali non hanno interesse a fornirle. Le centinaia di morti lasciati sul selciato dal Tatmadaw con l’attivo supporto della Cina ci dicono a chiare lettere che la realtà è ben diversa. La stessa cosa ce lo dicono i lavoratori degli sweatshop delle zone industriali cinesi, i contadini espropriati delle campagne, gli oppositori costretti all’esilio o al carcere, gli ecosistemi devastati. L’armonia proposta da Pechino è repressione di qualsiasi istanza di autonomia di classe e di emancipazione sociale in nome di uno sviluppo capitalistico spacciato per sviluppo armonioso. In definitiva nulla di particolarmente diverso rispetto allo sviluppo capitalistico ed al contemporaneo sviluppo dello Stato che abbiamo visto alle nostre latitudini. Per quanto gli indefessi imbecilli o i prezzolati propagandisti difensori della classe dominate cinese accusino chiunque critichi in termini anticapitalisti la Cina di essere un baizuo – termine dispregiativo assimilabile al nostrano “buonista” – i fatti mantengono una testa dura.

J. R. & Lorcon

NOTE

  1. Per ragioni di carattere storico e scientifico preferiamo precisare che l’utilizzo della locuzione “etnico” o “etnia” in questo giornale viene utilizzato come categoria culturale ed antropologica, non annoverando tale termine ad alcun concetto di razza, il quale è assolutamente e incontrovertibilmente inesistente e fittizio.

  2. Una Zona Economica Speciale (ZES) è un’area all’interno o al di là dei confini nazionali amministrata secondo regole speciali. Sono disponibili in diverse forme, che in Myanmar includono zone franche e zone di promozione, nonché il potenziale per la creazione di altri tipi di zone secondo necessità.

  3. SEZs and Value Extraction from the Mekong: A Case Study on the Control and Exploitation of Land and Labour in Cambodia and Myanmar’s Special Economic Zones.

  4. Cfr. JR, “Una metafora dei disastri del capitalismo moderno-1”, Umanità Nova. https://www.umanitanova.org/?p=12788 .

  5. Cfr. Barry Eichengreen, “Regional Financial Arrangements and the International Monetary Fund”, ADBI Working Paper Series November 2012, https://www.adb.org/sites/default/files/publication/156249/adbi-wp394.pdf .

  6. Cfr. Annah Beech, “Myanmar’s Army Is Back in Charge. It Never Truly Left”, New York Times, feb.2.2021.

  7. Arrighi Giovanni, “Origin and dynamics of the chinese ascent” in “Adam Smith in Beijing – Lineages of the twenty-first century”, Verso Books, London-New York 2007.

  8. https://consult-myanmar.com/2019/06/20/amid-intl-espionage-concerns-mandalay-to-embrace-huawei-for-safe-city-project/ .

  9. https://www.reuters.com/article/us-china-rare-earths-myanmar-idUSKBN2BI1HR . Si noti che l’ineguale distribuzione di queste risorse è tale per cui la Cina con l’85% di estrazione globale di questi elementi occupa, ça va sans dire, il primo posto nella classifica del produttori seguita dall’Australia con appena il 10% e dal Myanmar stesso con appena l’1,7 %.

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Pippo

Un Pippo dagli echi pazienziani (murales al Parco Dora, Torino)

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Parco Dora

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Nero, blu, bianco

Vi è da dire che la chiesa del Santo Volto a Torino offre buone occasioni fotografiche. Ciò nonostante ritengo che le acciaierie presenti lì una volta fossero più utili (e sicuramente offrirebbero occasioni fotografiche altrettato belle).

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Stati Uniti – Picchi di tensione

Il seguente articolo è stato pubblicato su Umanità Nova numero 2 anno 101. Una chiaccherata su questi fatti è stata fatta anche su Anarres – Il pianeta delle utopie concrete.

I due mesi di costante innalzamento di tensione da parte del presidente uscente hanno dato i loro frutti. Non possiamo sapere se fossero esattamente quelli sperati dal loro coltivatore ma sono stati sicuramente dei frutti degni di essere analizzati.

Possiamo fare alcune ipotesi su quello che è successo:

A) siamo stati di fronte a un vero tentativo di colpo di stato da parte del presidente uscente. Questo colpo di stato è fallito perché un pezzo rilevante della sua stessa amministrazione, tra cui il vice presidente, si è sfilata e i militari non hanno dato il loro appoggio

B) il presidente uscente è caduto in una trappola che si è in buona parte costruito con le sue mani e ora si trova sotto accusa e con buona parte del suo stesso partito che lo vedrebbe volentieri fuori dai giochi

C) siamo di fronte al logico proseguimento della traiettoria presa dalla politica interna statunitense nell’ultimo decennio

Il vero vincitore delle elezioni statunitensi: Vermin Supreme.

Personalmente trovo difficile prendere sul serio la prima ipotesi. Intanto se si vuole un colpo di stato, a meno di essere completamente stupidi, non ci si affida su di una folla non controllata e disorganizzata. Guardando i video degli eventi si vede come manchi un’organizzazione collettiva della folla e siano presenti solo gruppetti, non sappiamo quanto informali, che sembrano avere un’idea di come ci si muove in un contesto di piazza. Gli stessi manifestanti, i golpisti nella narrazione di questa ipotesi, sono armati per lo più di oggetti contundenti, e infatti il poliziotto morto dopo gli scontri è morto per trauma cranico, aste di plastica, spray OC. Nonostante parliamo di un paese con un altissimo tasso di possesso di armi da fuoco non si vedono armi lunghe tra i manifestanti, e un colpo di stato di certo non lo fai con qualche Glock subcompatta per il porto occulto; il distretto federale di Washington ha una normativa molto severa per il porto di armi in pubblico e viene difficile immaginare che dei golpisti decidano di rispettare una normativa che gli stronca la possibilità d’azione.

Se già la cronaca degli eventi ci permette di considerare come poco plausibile di essere stati di fronte a un vero tentativo di colpo di stato dobbiamo prendere in considerazione altre questioni. Queste rimandano al ruolo del gran capitale, al ruolo dell’esercito e dell’organizzazione stessa dei supporter di Trump.

I colpi di stato avvengono quando i mezzi che la democrazia mette a disposizione della classe dominante non riescono più a garantire la pace sociale o una direzione unitaria dello stato. La Marcia su Roma venne finanziata dai grandi industriali e dagli agrari. Aveva lo scopo di reprimere i moti rivoluzionari ma anche quello di ammodernare il paese rinnovando un patto sociale che il sistema liberale-monarchico più non riusciva a garantire. Negli USA non siamo davanti a una situazione simile. Le grandi industrie estrattiviste e il settore fondiario, grandi sponsor dell’amministrazione Trump, non hanno di certo necessità di ricorrere a un colpo di stato per garantire i loro interessi. I movimenti sociale per quanto nel decennio appena trascorso si siano rafforzati non pongono – ancora? – un pericolo tale per la classe dominante che porti questa ad affidarsi a un qualche duce.

Certo nel corso dei violenti scontri di quest’anno Trump ha più volte evocato la legge marziale. Per quanto siamo abbastanza certi che egli era abbastanza certo di quello che procalamava – d’altra parte parliamo di un palazzinaro figlio e nipote di palazzinari, abituato a strillare ordini dal suo ufficio ai propri sottoposti – non abbiamo visto le stesse forze armate e i governatori dei vari stati particolarmente entusiasti davanti a questa prosopettiva. Anzi. Trump era in campagna elettorale e doveva rafforzare il suo presentarsi come partito dell’ordine davanti al caos.

L’esercito statunitense non è un’esercito europeo del novecente, composto da quadri schiettamente reazionari. Non ha mai visto, neanche durante i maggiori momenti di tensioni con la dirigenza politica, l’emergere di correnti golpiste come quelle che attraversarono le forze armate francesi durante la crisi d’Algeria. Non ha avuto generali De Lorenzo come le forze armate italiane degli anni sessanta.

L’esercito statunitense è una struttura sostanzialmente democratica e molto più legata alla struttura sociale statunitense rispetto agli eserciti europei contemporanei. Le forze armate federali assorbono una quota di quella sarebbe forza lavoro in eccesso, sono un potentissimo volano per l’economia, non solo per il settore armiero, per quello informatico e per la ricerca ma anche per tutto il settore logistico e per tutte quelle aziende che forniscono servizi, viveri ed energia alla miriade di basi situate sul suolo statunitense. Tramite le forze armate statunitense avvengono forme di integrazione di gruppi razzializzati – il che non significa che venga abolita la razzializzazione ma semplicemente che venga in qualche modo razionalizzata e messa a servizio di un ordine superiore – e fungono da ascensore sociale.

Quando parliamo delle forze armate statunitensi non parliamo di una banda di reazionari ma di uno dei principali strumenti della potenza che detiene l’egemonia mondiale da un secolo. Non è un caso che settori piuttosto importanti delle forze armate non abbiano digerito affatto il quadriennio trumpista e che Star e Stripes più e più volte abbia pubblicato articoli ed editoriali critici verso l’amministrazione.

Il ruolo dell’esecito varia a seconda dei contesti in cui ci si trova. Non è possibile definire sempre l’esercito come roccaforte reazionaria: se questo è stato vero per gli eserciti europei del novecento non è stato sempre così per l’esercito della potenza egemonica mondiale e non è stato così neanche in molti stati post-coloniali dove l’esercito assumeva il ruolo di guida del processo di costruzione nazionale, spesso in senso progressista e modernista.

Come antimilitaristi dovremmo sempre tenere conto dei multipli ruoli che le forze armate possono assumere e di come esse sappiano adattarsi alle diverse circostanze in cui possono esistere.

Veniamo alla questione della composizione della piazza. Molti manifestanti sono arrivati da fuori Washington DC. In piazza c’era sopratutto quella piccola e media borghesia rappresentate del settore fondiario, del commercio e della piccola industria che ha costituito la base elettorale di Trump – un po’ come la Lega Nord in Italia – ma anche poliziotti fuori servizio e personaggi folkloristici di vario tipo.

Dall’analisi dei video appare evidente che non esistesse un’organizzazione unitaria da un punto di vista militare della piazza. La polizia locale ha palesemente lasciato fare fino a trovarsi travolta. In altre occasioni la polizia aveva blindato Capitol Hill per manifestazione di BLM. Non ce ne stupiamo ma è un dato che va rilevato. La piazza era composta più da una folla che da gruppi organizzati e questo lo dice lunghe sulle capacità golpiste di quella piazza.

Quando la situazione è degenerata e i manifestanti sono entrati, senza neanche dover forzare troppo, nel Campidoglio qua hanno trovato direttamente gli uomini del Secret Service, ben differenti rispetto alla polizia di Washington. Uno di questi ha intimato ai manifestanti di allontanarsi dalla porta che sorvegliava e non si è fatto problemi a freddare una manifestante che non ha obbedito al suo ordine. Probabilmente questa aveva sopravvalutato il potere del colore della propria pelle.

Quando le forze dell’ordine hanno deciso che lo spettacolino era finito hanno semplicemente gasato il gasabile e hanno sgomberato le aule.

Cosa è successo, in definitiva, a Washington il sei gennaio?

Come già detto viene difficile vedere in tutto questo un piano golpista. Certo, sicuramente una parte dei manfistanti aveva intenzione di ribaltare l’esito del processo elettorale considerando questo come falsato. Si presentavano, per lo meno a se stessi, come i salvatori della democrazia. Sicuramente non avevano l’organizzazione per farlo e nessuno l’ha fornita loro.

Trump in quattro anni si è sicuramente costituito uno zoccolo duro di elettori tra i poliziotti e altri guardiani in prima linea della White Supremacy ma non ha in nessun modo costituito un’organizzazione paramilitare che risponda a lui. Il variegato mondo delle milizie si muove in modo disgregato e, nel corso degli anni, alcune si sono anche distanziate dal suprematismo bianco militante, come si è visto con la spaccatura in quel mondo avvenuta prima della manifestazione di Charlotte.

Ma per due mesi il presidente uscente ha strepitato ai quattro venti di democrazia tradita e di elezioni rubate: qualcosa doveva succedere. Ed è successo. La folla ha agito come agisce una folla in quella situazione: muovendosi in modo disorganizzato verso una direzione. La direzione era occupare Capitol Hill per restaurare la vera democrazia. Una classe media bianca e reazionaria che si sente sempre più in declino che risponde in modo militante a questo declino. Ma che non è organizzata per farlo.

Trump ha probabilmente giocato molto del suo gioco entro il Partito Repubblicano. È probabile che quanto è avvenuto sia stata anche una prova di forza interna al GOP in cui Trump ha mostrato le sue carte alle altre componenti di partito con cui è in rotta. Un modo per rilanciare la sua azione. Ci riuscirà o le conseguenze di ciò che ha evocato lo travolgeranno? Non è dato a sapersi.

Chi nel partito dell’elefante voleva scaricarlo ora ha avuto l’occasione ottima per farlo e ribadire la propria fedeltà allo Stato di Diritto.

Al Democratic Party in questo momento pare di sognare in quanto vede confermate le fantasie in cui si autorappresenza come “resistenza” al trumpismo.

Ma le questioni rimangono tutte sul tavolo. Il Democratic Party rimane pur sempre il partito dell’imperialismo e della guerra. Il rilancio dalla crisi pandemica passerà per ulteriori bastonate sul capo degli sfruttati se questi non sapranno reagire. Il suprematismo bianco, con il suo corollario di poliziotti che assassinano impunemente, è lì da qualche secolo e sparirà solo con la scomparsa di ciò che lo ha generato.

Non ci stupiremmo di una stretta contro tutte le eversioni che colpirà i movimenti sociali e nello specifico il movimento anarchico. Una riproposizione in salsa barbeque della teoria degli opposti estremismi, insomma.

La lunga crisi statunitense è ancora tutta aperta. Se sarà una crisi passeggera o se è uno dei segni del passaggio dello scettro dell’egemonia globale verso l’altro lato del pacifico ancora non si sa.

Che in tutto questo vi sia molto da fare per chi non vuole ne servi ne padroni ne siamo certi.

lorcon

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