Elezioni USA – Cosa incombe sul nuovo alfiere neoliberista

Il seguente articolo, a firma mia e di J.R, è in uscita sul numero di questa settimana di Umanità Nova. Si inserisce nel complessivo lavoro di analisi sulla situazione statunitense che si sta portando avanti da anni e che si dovrebbe concretizzare a breve in una raccolta di materiale.

Balconies of the Brooklyn Army Terminal

Prima di analizzare il risultato elettorale, la cui complessità non risiede solo nelle peculiarità del sistema di voto in sé ma nella struttura stessa dello Stato statunitense del quale è espressione, è opportuno analizzare brevemente la composizione dell’elettorato. Tralasciando per un attimo la middle class bianca, vorremmo focalizzare l’attenzione sull’elettorato afroamericano e latino. Una percentuale di circa il 90% di afroamericani aventi diritto al voto,   elegge rappresentanti del Partito Democratico, è così da oltre cinque decadi ormai, dagli anni ‘60 sono divenuti una componente oramai stabile dell’elettorato democratico.[1] Ora il punto è che questa grossa fetta di popolazione statunitense vota democratico semplicemente perché non potrebbero mai votare per i Repubblicani, per motivi che sembra superfluo descrivere; non essendoci alternative elettorali al duopolio Repubblicani/Democratici si innescano questo tipo di automatismi.

L’automatismo porta il Partito Democratico a dare molte cose per scontate, fino a quando le proiezioni e i sondaggi non danno gli afroamericani su un trend astensionista, in tal caso arriva la cavalleria. Obama noto per le sue posizioni “energicamente centriste” è dovuto correre in aiuto del suo ex Vice Presidente per convincere un elettorato che teme di non essere sufficientemente rappresentato (cosa che sistematicamente si verificherà) a fare uno sforzo e votare compatti Biden, per mandare a casa Trump e un po’ per proseguire il percorso lì dove si era interrotto nel 2016.

Per quanto concerne la popolazione latinoamericana, la questione è un po’ diversa. Il radicamento e l’aumento di questa popolazione ha visto un’impennata negli ultimi cinquant’anni anni. Dal 1970 ad oggi la popolazione americana di origine ispanica è passata da 9,1 milioni di individui, fino a 57,4 milioni nel 2016, ossia il 17,8% della popolazione totale. Inoltre tra il 2016 e il 2017, più di metà dell’incremento demografico degli Stati Uniti è dovuto agli ispanici. In una serie di exit poll condotti dalla CNN e dal Pew Research Center nelle elezioni di midterm del 2018, si dimostra come il voto ispano-americano non sia polarizzato come quello degli afroamericani. [2] Si evince molto chiaramente una distribuzione affatto diversa da quella della middle class bianca (protestante o cattolica che sia) tra il partito democratico e quello repubblicano. Circa il 29% dei latino americani ha favorito i Repubblicani eleggendone un candidato. Questo la dice lunga tanto sugli scenari futuri quanto sulla sostanziale miopia della politica a stelle e strisce su quelle che ancora qualcuno continua a chiamare “minoranze”. Da un lato quindi il blocco afroamericano che oscilla tra astensionismo o voto per i Democratici, dall’altro gli ispanici che sostanzialmente aggiungono i loro voti alla fluttuante middle class bianca. La cosa più interessante è vedere come questa distribuzione demografica non rispecchia poi una proporzionale distribuzione di rappresentanti al congresso. Su 434 membri del 116° Congresso    degli USA solo 54 gli afroamericani eletti alla Camera, mentre al Senato, solo tre. Per quanto riguarda gli ispanici ce ne sono 51 alla Camera e 5 al Senato. Considerando che afro e ispanici da soli costituiscono il 30,8% della popolazione le rappresentanze continuano a non rispecchiare il peso socio-economico dei due gruppi.

Quindi il corpo elettorale che ha votato in questi giorni non è assolutamente nulla di omogeneo o immediatamente interpretabile, e la crisi di rappresentanza da una parte e irrappresentabilità di molti dei candidati dall’altra tendono a rendere particolarmente arduo analizzare il voto dei cittadini dello Zio Sam. Quello che può però essere specificato è che le tensioni in atto nel Paese hanno comunque agito da sprone per una maggiore affluenza alle urne. Si è difatti passati dal 55,7% delle scorse presidenziali all’attuale 67%. Queste tensioni sono riconducibili all’incertezza che la pandemia sta generando verso l’immediato futuro ma non solo, il clima di odio raziale innescatosi durante l’amministrazione Trump ha inasprito condizioni già sostanzialmente instabili e latenti che si trascinavano da decenni e che avevano visto un effetto moltiplicatore nella cosiddetta big recession post crisi 2008. Queste linee critiche sono state vicendevolmente cavalcate tanto dai Democratici quanto dai Repubblicani, senza grosse o sostanziali modifiche alle cause strutturali di tali problematiche. Ovviamente le amministrazioni Obama e Trump, pur differenziandosi nel linguaggio e nel piglio istituzionale, sono due amministrazioni del centro nevralgico e propulsivo del pensiero Neo-liberista. Può al massimo stare più simpatico l’uno o l’altro, può essere l’uno più compito o l’altro più goliardico e istrionico, ma stiamo parlando della poltrona dello studio ovale, ossia un posto nel quale non entri se non sei comunque al servizio del mercato e del relativo ceto dominante.

Al di là della vittoria oramai incassata da Biden (stiamo scrivendo alle 20:38 del 7 novembre), rimane il problema di una vittoria per “mezza incollatura”, con il Senato sostanzialmente spaccato (attualmente 46 seggi a 48 per i Repubblicani) e una Camera con una presenza democratica di soli 214 seggi su 218 per assicurarsi la maggioranza. Dunque le problematiche di ingovernabilità appaiono molto concrete per la nascente amministrazione Biden. Quello che attende gli Stati Uniti è una serie di problematiche interne, dal contraccolpo economico del COVID-19 alle questioni razziali e che tendono a convergere nella questione del sistema sanitario e di previdenza sociale da un lato, ma anche di accesso al credito e all’abitare dall’altro. Sul versante estero ritroviamo intonsa la lotta economica con la Cina, la questione mediorientale, le rivolte in centro e sud America e ovviamente la questione NATO e la zona calda del mediterraneo. È oltremodo ovvio che di questi ambiti di conflitto politico ed economico all’elettore medio a stelle e strisce importa forse meno di nulla, ma questi agiscono spesso da calmiere in quella capacità tutta statunitense di sfruttare i grattacapi esteri come combustibile per incendiare l’orgoglio patriottico interno.

Trump non ha esitato a sfoderare tutto l’arsenale retorico sui “nostri ragazzi al fronte” (una volta tanto per richiamarli e non per mandarceli) o sul senso di responsabilità che la più grande potenza del mondo (ei fù) ha nei confronti di tutti e nel suo “dovere” di intervenire lì dove c’è disperato bisogno di democrazia (sic!).

Politica estera e futuri scenari

Biden dovrà ora raccogliere il lascito del suo improponibile predecessore, su una strada già segnata e assolutamente indipendente dalla volontà dell’inquilino della Casa Bianca. Una strada dettata dall’unica e sola esigenza che manda avanti il paese: garantire guadagni crescenti alle imprese private. Quindi ben venga il fatto di allentare la presa sul Medioriente lasciando sostanzialmente mano libera alla Russia, mantenendo comunque i due alfieri sul campo, Arabia Saudita e sodali da un lato e il fido alleato israeliano dall’altro. Due pezzi da novanta che hanno negli anni intessuto fitte reti di interessi da un capo all’altro del mega continente eurasiatico e che, al netto delle loro disastrose e criminali politiche interne, possono essere due poli contrapposti attorno a cui coagulare interessi di varia natura (magari anche contrastanti) ma con lo scopo di definire sempre dei punti critici rispetto ad una potenza regionale scomoda come l’Iran, o territori di conquista come la Siria o il Libano, segnati da conflitti o crisi profondissime e vicinissimi al tracollo.

A fungere da sostituto per le politiche imperialiste in Medioriente è molto probabile che ci sia l’America centro-meridionale, è credibile che tutto il ciclo di recrudescenze destrorse e il restringimento dell’agibilità politica in molti Stati sia la diretta conseguenza del cambiamento strategico attuto dagli Stati Uniti, che hanno probabilmente optato per uno scenario di potenziamento dei mercati di prossimità per riequilibrare l’economia interna. Creare nuove aree di influenza, o rafforzare quelle esistenti, sostenendo governi ben disposti a mettere sul mercato tutto quello che di pubblico c’è (o è rimasto) è una strategia che dagli anni ’70 sembra essere l’unico attrattore che muove la politica estera di Washington. Soprattutto se i successi all’estero portano vantaggi per la ristrutturazione della domanda interna e nuove risorse con le quali stimolare (o sostenere) iniziative imprenditoriali derivanti da flussi di investimenti federali, che poi sono praticamente quelli che impediscono che il paese si arresti di colpo. Anche questa è una strategia rodata nei decenni, più fatturano le imprese più contribuiscono con le tasse e più investimenti il Governo farà sui programmi per gli alloggi, la sanità ai bisognosi ecc. basta non mettere lingua su come vengono fatti i soldi e non stare a sottilizzare se quei denari puzzano troppo: alla fin fine pacunia non olet.

Interni e scenari presenti: il dopo Trump

Se in politica estera le amministrazioni hanno assai meno problemi per giocare sporco, in politica interna hanno a che fare con la suscettibilità dell’americano medio: bianco, afro o ispanico che sia su certe questioni esiste una sconvolgente convergenza di pensiero, ossia chi paga le tasse, poche o tante che siano, vuol vedere i suoi diritti rispettati. È un mantra che ovviamente attecchisce in maniera differente in funzione dello status sociale. Ed è proprio questa una delle gatte da pelare che Biden si ritroverà tra le mani. Una popolazione impoverita rispetto al 2016, che chiede risposte, e che ha preso anche parecchie batoste, tanto dal COVID-19, quanto dai vari riots che si sono succeduti di recente. I disordini hanno sempre un certo effetto in una popolazione avvezza ad informarsi ancora da radio, TV e giornali, assai più che sul web o riviste di approfondimento. Quindi la psicosi da virus si è sommata a quella da riot e ha scatenato il solito teatrino tragico a stelle e strisce, compresi gruppi di preghiera per l’apocalisse eccetera. Ma al di là del folklore tipico di quelle latitudini rimane pur sempre un grosso problema di reddito medio in discesa.

Biden è praticamente un politico di professione, non avendo fatto altro dall’età di 29 anni, ma ha ricoperto ruoli via via più importanti nell’amministrazione governativa, come Presidente della Commissione Esteri del Senato, Presidente del Comitato di controllo sul narcotraffico internazionale del Congresso e Presidente della Commissione sulla giurisdizione del Senato. Tutte cariche conservate per alcuni anni, cariche tutt’altro che onorifiche ma piene di significato politico nel senso che la parola ha all’interno del Congresso americano. Ossia un ruolo di mediatore fra opposte fazioni che spesso ha alle spalle la mano tutt’altro che invisibile del mercato che richiede questa o quella decisione per tornare a trottare.

Come abbiamo più volte sottolineato sulle pagine di questo giornale [3] la questione della gerarchia razziale non è figlia di un “difetto morale”, come vorrebbe la vulgata liberale fatta propria anche dall’antiamericanismo di sinistra in europa, ma è una componente strutturale degli Stati Uniti fin dalla loro origine. Le rivolte degli ultimi mesi hanno visto centinaia di migliaia di sfruttati, abitanti dei quartieri popolari ma anche figli del ceto medio proletarizzato, scendere compattamente per strada saldando la questione di classe alla questione razziale. Se l’amministrazione Trump ha sicuramente contribuito a polarizzare le posizioni politiche, con la sua esplicita adesione al suprematismo bianco più retrivo, che non è solo quello delle zone rurali ma è un fenomeno proprio anche degli aggregati urbani, e Trump è espressione della classe dominate newyorkese e non della Bible Belt, le tensioni che abbiamo visto emergere in questi mesi sono energie carsiche pluridecennali. Il movimento Black Live Matters è nato in piena era Obama, con la rivolta di Ferguson, contemporaneamente ai movimenti indigeni che si sono mossi sulla questione del land grabbing attuato dall’industria petrolifera.

L’amministrazione Biden non vorrà e non potrà attuare quelle misure atte a garantire il reddito delle fasce di popolazione maggiormente colpite dalla crisi economica di questi ultimi mesi. E l’aumento della sperequazione nel priodo di ripresa seguente alla crisi del 2008 è figlio della politica economica obamiana.

Se la disoccupazione è diminuita, sia durante l’ultimo mandata di Obama sia durante durante il mandato di Trump, almeno fino all’ondata di COVID-19 – e sulla malagestione della pandemia Trump si è probabilmente giocato il posto – va tenuto conto che il livello di reddito non è aumentato come molti si aspettavano.

Insomma l’amministrazione Biden non sarà in grado di “sanare le ferite dell’America” come si augurano gli intelettuali progressisti. Nessuno è in grado di farlo.

La vittoria di Biden è una vittoria di misura. I sondaggi che gli davano venti punti percentuali di vantaggio si sono rivelati delle clamorose bufale. Fino all’ultimo Trump avrebbe potuto vincere, anche lui per un pugno di voti. E Biden non ha vinto grazie a un progetto politico capace di portare dalla sua parte milioni di persone: ha vinto perché milioni di persone hanno votato contro Trump. E non è detto che molti di questi domani non saranno pronti a scendere in piazza contro l’amminstrazione Biden.

È vero, comunque, che si scontrano due diverse visioni degli Stati Uniti. Da un lato intorno alla presidenza Trump si è coagulata la borghesia delle zone rurali, i centri dell’industria estrattiva in affanno e parte consistente della middle-upper class dei suburbi delle grandi concentrazioni urbane, tutti gruppi in affanno e che temono una perdita di potere a favore del “nuovo” capitalismo delle piattaforme che si dimostra più dinamico e aperto al cambiamento.

Dall’altro lato abbiamo le elitè culturali ed economiche delle grandi metropoli e dello stesso capitalismo delle piattaforme che si sono coagulati intorno al Partito Democratico, visto come erede di quel progetto di New American Century che il Partito Repubblicano, mettendo da parte la linea politica NeoCon – momentaneamente o per sempre non è dato a sapersi – e aprendosi alle istanze di quei settori di classe dominante e di middle-upper class in crisi aveva abbandonato.

Il progetto politico Democratico afferma che una gestione tecnocratica può essere più efficiente del vecchio sistema. Afferma di essere maggiormente in grado di gestire lo scontro, oramai conclamato, con la Cina, di saper raccogliere intorno agli Stati Uniti i tradizionali alleati atlantici.

In questo risiede la differenza tra i due gruppi che si contendono il controllo dell’amministrazione federale. Ma non dimentichiamoci che gli Stati Uniti, nonostante l’aumentato potere del governo centrale, non sono uno stato centralista.

Se il comitato d’affari che risiede a Washington ha sicuramente ampia voce in capitolo per quanto riguarda la politica estera e per quanto concerne la politica economica, tramite la Federal Reserve, tutti gli altri aspetti sono demandati a livello locale. E non parliamo di questioni di poco conto: i bilanci di alcuni stati dell’Unione sono imponenti e la scelta di indirizzare la spesa pubblica verso questo o quel settore ha impatto importante sulla vita di chi abita in quei luoghi. Ai singoli stati è demandata buona parte della legislazione sul lavoro, l’amministrazione giudiziaria, le politiche urbane, la gestione delle infrastrutture. E il mantra neoliberista accomuna Democratici e Repubblicani.

Ovviamente questo significa anche che movimenti sociali che da qua appaiono come locali sono in grado, invece, di ottenere importanti vittorie, sia sul piano economico, pensiamo alla mobilitazione degli insegnanti in West Virginia [4] o delle lotte per il salario minimo a 15 dollari/ora, in diversi casi vittoriose, o, ancora, all’impatto di interi distretti di aree metropolitane che si riversavano compatti in strada a chiedere il definanziamento delle forze di polizia (e in certi casi l’abolizione delle stesse) a favore di investimenti in welfare state.

Certamente noi rimaniamo critici verso le rivendicazioni welfaristiche [5] ma intanto vediamo abbozzi di autorganizzazione crearsi nelle contraddizioni che questi movimenti disvelano.

Una certa narrazione pretende che nei paesi del centro del sistema-mondo non possa succedere nulla di interessante in termini di movimenti sociali. Gli ultimi dieci anni di storia negli Stati Uniti ci dimostra proprio il contrario.

Note

  1. Olivier Richomme, “The post-racial illusion: racial politics and inequality in the age of Obama”, consultabile su:https://journals.openedition.org/rrca/464

  1. Historic highs in 2018 voter turnout extended across racial and ethnic groups”, by Jens Manuel Krogstad, Luis Noe-Bustamante and Antonio Flores, consultabile su:https://www.pewresearch.org/fact-tank/2019/05/01/historic-highs-in-2018-voter-turnout-extended-across-racial-and-ethnic-groups/

[3] Tradire la “razza” bianca significa essere fedeli verso l’umanità: https://umanitanova.org/?p=12322

[4]La lotta degli insegnanti del West Virginia – https://umanitanova.org/?p=7805

[5]Note e riflessioni sui percorsi di incompatibilità: https://photostream.noblogs.org/2019/06/note-e-riflessioni-su-percorsi-di-incompatibilita/

Ps fuori articolo: in un precedente articolo, The Age of Quarrel, avevo previsto Trump vincitore con strettissima misura. Invece ha vinto Biden, di strettissima misura. Insomma: avevo previsto come si sarebbe vinto ma non chi. Direi che la mia idea di dedicarme alle scommesse delle corse sfuma.

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The age of quarrel – la crisi statunitense vista attraverso la lente dell’anarchismo sociale

The age of quarrel – la crisi statunitense vista attraverso la lente dell’anarchismo sociale

Gli ultimi anni hanno visto gli Stati Uniti andare sempre più verso una crisi sistemica. Il tentativo di pacificazione sociale perseguito dall’amministrazione democratica sotto i due mandati di Obama è fallito e ha lasciato il posto all’amministrazione Trump, presidenza che nasce grazie alla concomitanza tra la crisi del Partito Democratico che esprime la perdente candidata Clinton e la crisi del Partito Repubblicano che viene scalato da Trump con un’operazione che ricorda un’OPA di Wall Street.

Gli otto anni dell’amministrazione Obama si erano basati sul rilancio dell’economia statunitense dopo la profonda crisi del 2008, sul ricompattare la società intorno a una visione post-razziale e liberale che presentasse gli Stati Uniti, ancora una volta, come guida morale, oltre che economica e militare, del Mondo Libero, superando l’unilateralismo del New American Century delle amminsitrazioni Bush che portarono al pantano Mediorientale.

Il rilancio dell’economia statunitense si è però basato su un’acuirsi sempre maggiore del divario sociale e su un incremento delle poltiche estrattiviste che hanno prodotto gravi crisi ambientali. La questione razziale non è stata affrontata nei suoi caratteri strutturali, non può essere affrontata dalla stessa struttura che su essa si basa, ma è stata affrontata tramite un tentativo di espandere l’influenza della media borghesia afroamericana, mentre il proletariato, sempre più lumpenproletariat, afroamericano cadeva sempre più nelle spire dei processi di crisi del tessuto urbano dei grandi centri post-industriali. I tentativi di impostare strutture welfaristiche per quanto concerne la sanità pubblica sono stati frustrati dalla stessa dirigenza del partito dell’asinello. Il nodo dell’immigrazione dai paesi sud e centro americani è stato affrontato tramite una maggiore militarizzazione, non eccessivamente pubblicizzata, degli apparati di polizia federale che si occupano della gestione dei flussi. La war on drug, nodo che unisce in sè le questioni di razza, status immigratorio e classe, non è stata affrontata a livello federale. I sistema di sorveglianza di massa portati a piena conoscenza pubblica da whistblower come Chelsea Manning ed Edward Snowden hanno al contempo mostrato cone l’amministrazione statunitense abbia continuato a perseguire quella strategi già strutturata all’epoca del Patrioct Act nei mesi immediatamente successivi all’Undici Settembre.

Sul fronte della politica estera,gli Stati Uniti non sono riusciti ad elaborare una strategia di insieme per strutturare un nuovo ordine mediorientale. Il collasso delle strutture statali in Iraq e in Siria, sotto i molteplici colpi delle insorgenze della Primavera Araba, dell’islam politico radicale e degli autonomismi locali, ha lasciato spazio all’espansione di attori regionali – Turchia e Iran in primis – e all’interventismo della Russia, senza che gli Stati Uniti riuscissero ad elaborare una strategia di ampio respiro, come sta avvenendo anche in Afghanistan.

La presidenza Trump non ha fatto altro che quello che poteva fare: acuire le contraddizioni sempre crescenti all’interno degli Stati Uniti. La presidenza Trump non ha nulla a che fare con il fascismo, nonostante a questa categoria venga ascritta da buona parte della sinistra statunitense e dalla quasi totalità della sinistra europea. La nostra tesi, ben rappresentata da un lungo articolo tradotto da CrimethInc, è che l’amministrazione Trump rappresenta il tentativo del suprematismo bianco statunitense di strutturarsi davanti alle sfide del XXI secolo: è la vecchia whiteness che torna prepotentemente in primo piano per riproporsi per quello che è sempre stato: un potente strumento a disposizione del capitale per dividere e controllare in profondità il corpo sociale.

Mentre scriviamo quest’introduzione da oramai quattro mesi e mezzo un imponente movimento che, in parte, trascende la dimensione della protesta rivendicativa, della resistenza e della testimonianza e si pone sempre più sul piano dell’attacco, della rottura radicale, dei tentativi di costruire una reale autonomia che integri pienamente al suo interno i nodi di classe, razza e genere, e che, anche nella sua parole d’ordine più conosciuta, e per molti versi meno radicale, quel “Defund the police” che è risuonato da Minneapolis a Settle a New York, attacca pubblicamente l’istituzione centrale del neoliberismo: la polizia.

Il nodo della razzializzazione non è comunque stato l’unico nodo che ha portato a un aumento del conflitto sociale negli Stati Uniti negli ultimi anni. Possiamo individuare almeno altri due movimenti che hanno prodotto alte fasi di conflittualità: l’insieme delle situazioni che si sono mosse sulla questione ecologista a fronte dell’esproprio di terre native per la realizzazione di progetti legai all’estrazione di prodotti petroliferi di scisto – prodotti il cui incremento nell’estrazione è stato l’asse portante della politica energetica, e di conseguenza della politica estera, statunitense dell’ultimo decennio – e quell’insieme di movimenti che hanno portato in primo piano la questione di classe: le ondate di scioperi degli insegnanti pubblici, il movimento per il salario minimo di 15 USD orari, l’esplosione della sindacalizzazione nel settore delle catene di ristorazione e l’imponente movimento di lotta dei lavoratori detenuti.

Il movimento Black Live Matters che, ricordiamolo non è una novità del 2020 ma risale nella sua denominazione alla rivolta di Ferguson nel 2014 e che altro non è che il riaffiorare di quel fiume carsico che sono state le insurgenze dei settori razzializzati della società statunitense fin dal periodo coloniale avrà avanti a sé grandi sfide. Ma attenzione: la sfida più grande per questo movimento sarà nel caso in cui la vittoria alle presidenziali andasse all’ultra-centrista Joe Biden e alla sua vice Kamala Harris: se riuscirà a resistere alle sirene dei recuperatori professionisti del Democratic Party.

Probabilmente quelli che sono più attrezzati per rifiutare l’elettoralismo sono gli stessi afroamericani che si stanno ponendo come soggetto dotato di un proprio radicale protagonismo. Molto meno attrezzati per resistere alle sirene dell’elettoralismo prima e delle promesse degli appena eletti poi sono gli appartenenti al ceto politico della sinistra radicale statunitense che non ha mai voluto rompere veramente con il Democratic Party neanche quando le sue speranze di vincere le Primarie tramite Sanders sono state frustrate per la seconda volta.

È comunque da notare come gli ultimi anni abbiano visto anche una radicalizzazione a sinistra di settori del proletariato giovanile bianco, radicalizzazione che si riflette in un aumento della sindacalizzazione – anche se con con numeri ben minori dell’epoca d’oro del movimento operaio: si sta pur sempre ricominciando a costruire su decennali macerie – e nella partecipazione all’insorgenza delle minoranze marginalizzate.

I due mesi di costante battaglia contro la polizia cittadina e quella federale in metropoli come Seattle e Portland hanno visto un certo protagonismo di questo proletariato giovanile che tradisce il ruolo che nella gerarchia razziale statunitense gli è stato assegnato e si schiera a fianco, pagando un tributo di sangue, dei soggetti razzializzati. È una delle più grandi paure della classe dominante statunitense fin dalla nascita degli USA: non è un caso che la reazione delle forze dell’ordine sia stata durissima, con vere e proprie esecuzioni extragiudiziare come quella che ha visto Michael Reinoehl cadere sotto il piombo degli Sceriffi Federali.

Davanti a tale situazione c’è chi – condannato alla coazione a ripetere di chi non ha una visione complessiva e brancola nel buio dell’opportunismo – ha pensato di puntare su tentativi, destinati da sempre al fallimento, di scalata alle primarie del Partito Democratico. La cordata guidata da Bernie Sanders è miseramente fallita. La tanto celebrata Ocasio Cortez ribadisce la sua fedeltà alla linea di partito. Chi sa cosa è il Democratic Party non se ne stupisce, lo prevede. Chi si illude ne soffre.

Il centrismo del Partito Democratico ancora una volta vince – e non poteva essere altrimenti – e candida Joe Biden e Kamala Harris. Se sul primo è inutile spendere ulteriori parole sulla seconda qualcosa bisogna pur dire: donna, afroamericana, ex procuratore distrettuale californiano e poi senatrice. Celebrata dalla retorica dell’empowerment del donnismo neoliberale, sostenitrice della war on drug da procuratore distrettuale, portata ad esempio di “donna-afroamerica-che-ce-l’ha-fatta”, Harris è la tipica risposta del Democratic Party alle istanze di rottura che si muovono nella società. Un tentativo di recupero che probabilmente riuscirà ben poco nel suo scopo.

Qualuque sia l’esito delle presidenziali statunitensi possiamo essere certi che il vaso di Pandora ha appena iniziato ad aprirsi.

Nota: questo articolo è l’introduzione a un opuscolo, attualmente in preparazione, che raccoglie il materiale sugli Stati Uniti pubblicato su Umanità Nova negli ultimi anni e altro materiale inedito sul tema. Uscirà nel novembre 2020.

lorcon

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Diventare ingovernabili: un’intervista a Lorenzo Kom’boa Ervin

Il seguente testo è apparso su Umanità Nova numero 28 anno 100

Introduzione e intervista di William C. Anderson

Adattamento e traduzione J.R. e Lorcon

Traduciamo e pubblichiamo questa intervista apparsa originariamente sul sito [1] della Black Rose/Rosa Negra Anarchist Federation a Lorenzo Kom’boa Ervin. Per ragioni di spazio e di comprensione abbiamo operato un adattamento del testo. Riteniamo importante la diffusione di questa intervista in quanto Lorenzo Kom’boa Ervin è una delle principali voci dell’Anarchismo Statunitense, un militante la cui esperienza abbraccia gli ultimi cinque decenni di storia statunitensee la cui costruzione teorica e le prassi sono passate dal Black Panthers Party all’anarchismo sociale. Non siamo concordi con tutte le visioni espresse da Lorenzo Kom’boa Ervin, sopratutto sulla questione del fascismo e sull’imminente crollo degli Stati Uniti e sospendiamo il giudizio su alcune questioni, la polemica con l’Anarchist Black Cross ad esempio. Al netto di queste precisazioni questa è un’intervista importante per comprendere lo stato dell’arte del movimento negli Stati Uniti d’America. Sull’utilizzo del termine “potere” all’interno del testo dell’intervista invitiamo a tenere conto della distinzione tra i concetti di “dominio” e di “potere”.

J.R. e Lorcon

L’autore e scrittore indipendente William C. Anderson intervista il veterano ex Pantera Nera e prigioniero politico sull’attuale crisi politica, il fascismo e la crescente rilevanza dell’anarchismo nero. È in atto una campagna di raccolta fondi per sostenere Lorenzo e JoNia Ervin, entrambi anziani e bisognosi di un supporto economico per le loro spese mediche e la vita di tutti i giorni [2].

Il nuovo coronavirus, noto anche come COVID-19, ha evidenziato i disastri che quotidianamente il capitalismo provoca. La mancanza di assistenza sanitaria, un ambiente sicuro, alloggi e cibo sono una questione quotidiana per un segmento sempre crescente di persone vulnerabili. Ciò ha portato in molte persone un notevole interesse per l’anarchismo. I fallimenti dello Stato sono evidenti nelle soluzioni inefficaci, nell’intenzionale negligenza e nel totale disprezzo per la vita umana. Ciò pone la questione della plausibilità delle soluzioni statali. Per tutta risposta, le autorità riconoscendo i disastri in atto, hanno preferito agire come hanno sempre agito, ovvero con la repressione: crescenti attacchi (a chiunque osasse protestare ndr) e i soliti capri espiatori di sempre: gli anarchici. Nulla di nuovo: è uno schema tipico.

Come al solito, in virtù di interpretazioni errate e tendenziose, all’anarchismo è stata negata una rappresentazione che tenga conto della sua complessità. La complessità di varie esperienze politiche, di principi e approcci anarchici è stata ridotta allo stereotipo del lanciatore di bombe e terrorista. Anche se gli anarchici si sono organizzati prendendo parte a progetti di mutuo soccorso in tutto il paese durante questa pandemia, questo purtroppo non è ciò che l’anarchismo rappresenta per molte persone. Nel bel mezzo di una pandemia globale, l’efficacia di questo tipo di progetti associati ad altri programmi di sopravvivenza è diventata particolarmente rilevante, anche se per gli oppositori era fondamentale la necessità di attaccare queste politiche da tutte le parti. Tuttavia il crescente interesse per l’anarchismo nero è rimasto immutato.

L’anarchismo nero è stato a lungo sostenuto dalle opere di pensatori e rivoluzionari spesso trascurati. Tra loro c’è Lorenzo Kom’boa Ervin. Ho incontrato Lorenzo per la prima volta nel 2012 in un seminario organizzativo che ho aiutato a condurre insieme ad altri militanti in tutto il sud. Non ci volle molto a Lorenzo e alla sua compagna JoNina Ervin per chiarirmi le verità dell’anarchismo. Mi hanno così avviato nel viaggio che mi ha condotto ad abbracciare completamente l’anarchismo nero.

Lorenzo ha vissuto una vita rivoluzionaria. Dopo essere stato introdotto all’anarchismo da Martin Sostre, un “avvocato di prigione” [3], che è stato uno degli artefici del movimento per i diritti dei prigionieri per come oggi lo conosciamo, il quale ha dovuto combattere e sfuggire alle autorità statunitensi più di una volta Lorenzo ha vissuto in tutto il mondo insegnando e organizzando (i compagni ndr.). Questi sono solo alcuni dei motivi per cui le sue riflessioni sulla fase attuale risultano essere meritevoli di attenzione. Ho parlato con Lorenzo dell’autonomia degli afroamericani, del fascismo e di tutto ciò che è necessario per affrontare la crisi.

Questa intervista è stata modificata per brevità e chiarezza.

William C. Anderson (WCA):

Cosa pensi delle attuali rivolte che si stanno verificando in tutto il paese in risposta alla violenza della polizia?

Lorenzo Kom’boa Ervin (LKE):

Penso che le rivolte siano buone, ma stiamo osservandone anche i limiti in quanto rivolte rivoluzionarie. Queste limitazioni consentono allo stato di sovvertirne la natura, “normalizzando” le rivendicazioni nell’ambito delle mere riforme, che lo Stato, i politici liberali e tutti gli altri, sono in grado di utilizzare contro il movimento. Questo tipo di cooptazione avviene ormai da tempo. Ho assistito a 60 anni di proteste e cosiddette “rivolte” e ribellioni e nelle grandi città e nei piccoli paesi come Ferguson, nel Missouri. Ho vissuto 60 anni di tutto ciò fin dal 1964 con la rivolta di Harlem a New York e quello che accadeva ha sempre avuto a che fare con la polizia. In una modo o nell’altro i poliziotti uccidono qualcuno, picchiano qualcuno o sono semplicemente entrati nella comunità e hanno commesso ogni sorta di atrocità. Le persone quindi hanno reagito. Ciò che è successo in questo caso è che la gente si sia ribellata, abbia reagito e che abbia organizzato un fronte di protesta di massa. Poi però la governance cerca di usare la spinta della massa e proporre alcune riforme liberali, che in realtà liberali non lo sono affatto.

Quello cui assistiamo è un acuirsi, o un protrarsi del terrore, del razzismo della polizia. Quindi dobbiamo chiederci: “Ok, stiamo protestando, stiamo stanando il colpevole; ma non stiamo capendo che il nostro ruolo qui ed ora è quello di trasformare la società nel suo insieme? ” Non stiamo cercando di ottenere solo un po’di “tagli ai finanziamenti della polizia” o cose del genere. Il governo non sta concedendo nulla e anche con tutta la pressione delle proteste, non hanno ancora escogitato nulla in termini di programmi per prevenire ulteriori atrocità contro i neri. Ci sono state migliaia di persone uccise dalla polizia negli Stati Uniti e il governo ha garantito l’impunità ai poliziotti assassini.

Questa è, secondo me, una forma di conflitto sociale o di controllo fascista, e dobbiamo capirlo. Stanno usando gli agenti più violenti, specialmente nella comunità nera e nelle comunità povere. Li stanno usando anche per sconfiggere qualsiasi opposizione politica di base. Li stanno usando per creare un nuovo tipo di sistema criminale col quale accusano sommariamente le persone e le sbattono in galera per lungo tempo con condanne draconiane. E questo va avanti da molto tempo. Quindi, le ribellioni sono meravigliose, è bello vedere le persone reagire.

Tu conosci il mio punto di vista, quello di un vecchio attivista di lunga data, e che cerco di guardare all’essenza reale di una lotta, non solo al fatto che stia accadendo. L’orientamento della lotta oggi è molto simile a quello che ho visto nelle fasi finali del movimento per i diritti civili. Li vedi ottenere le riforme, ma non ottenere la trasformazione del sistema. Questa è la differenza tra rivoluzionari e riformatori: noi vogliamo distruggere completamente lo Stato. Non possiamo organizzarci allo stesso modo in cui ci siamo organizzati negli anni 60, non possiamo organizzarci allo stesso modo in cui ci siamo organizzati anche solo 30 o 20 anni fa. Dobbiamo aprire un nuovo terreno politico e avere una nuova teoria politica e nuove tattiche politiche.

WCA: Che tipo di consiglio daresti ai giovani radicali che vogliono trasformare questa società? Che consiglio daresti a coloro che sono politicizzati e che cercano una direzione su come fare le cose che ritieni debbano essere fatte?

LKE: Noi come attivisti, come organizzatori, dobbiamo rendere noi stessi e le nostre comunità ingovernabili. So che hai già sentito questo termine. Significa esattamente quello che dice. Dobbiamo fare in modo di creare un nuovo tipo di sistema politico nostro, che si tratti di doppio potere o di democrazia diretta rivoluzionaria o in qualunque modo vogliamo chiamarlo in questo momento. Dobbiamo creare quel tipo di movimento, un movimento antifascista di massa da un lato, e d’altro dobbiamo avere la capacità, su vasta scala, di costruire una capacità di sopravvivenza di massa basata sulla comunità, basata su cooperative nel ghetto per ospitare i chi si trova senza casa, ricostruire le città e prendersi cura dei bisogni materiali dei proletari. Dobbiamo essere in grado di costruire tutto ciò.

Non sono contrario ad alcuni di questi gruppi che stanno nascendo, perché sebbene non siano radicali, potenzialmente potrebbero trasformarsi in qualcos’altro. Ma ciò che deve accadere è che dobbiamo raggiungere le masse dei pauperizzati urbani con questi programmi. Stiamo combattendo per mettere il potere nelle mani delle persone in una nuova società. Presumibilmente, i rivoluzionari sanno alcune cose in alcune aree dell’organizzazione che la gente non sa. Quindi dobbiamo addestrarli, dobbiamo equipaggiarli per essere indipendenti dall’attuale struttura politica. Penso anche che il Black Panther Party in questo avesse ragione: abbiamo bisogno di programmi di sopravvivenza e dobbiamo andare oltre quello che avevano. Dovremmo cercare di costruire l’economia di sopravvivenza in questo periodo, proprio adesso.

Dovremmo passare da questo periodo nel quale ci sono solo alcune persone che capiscono o praticano il mutuo soccorso mentre le masse non lo fanno. Quindi dobbiamo andare oltre il “semplice aiuto”, per lavorare verso una sorta di economia diversa, un’economia di sopravvivenza sulla via del pieno comunismo anarchico. Forse è il nome che conosciamo, come anarchici, ma in alcune parti del mondo la chiamano “economia solidale” per la sopravvivenza al capitalismo. Qualunque si decida di chiamarla, dobbiamo ottenerla, così da non essere totalmente dipendenti dallo Stato capitalista. Non pretendo di sapere tutto, ma conosco alcune cose e, in particolare, so cosa non funzionerà: non funziona quando permetti agli stessi poliziotti corrotti e razzisti di affermare che sono stati riformati o hai gli stessi politici che affermano: “Beh, questo non è lo stesso sistema, non abbiamo mai trovato un modo per depotenziare la polizia, ma la stiamo riorganizzando, quindi sii paziente!” Lo stesso George Jackson, prigioniero radicale in California e membro del Black Panther Party negli anni ’60, ha affermato che tali riforme della polizia o delle prigioni non sono altro che l’ulteriore ascesa del fascismo. Aiutano il fascismo a diventare accettabile per la gente.

Ci occupiamo di questo da anni, perché avrete certamente notato come la polizia ha utilizzato diversi tipi di guerra psicologica e pseudo campagne come Weed and Seed,[2] o la “polizia di prossimità” nel corso degli anni. Quella roba è stata progettata per conferire più potere alla polizia nelle comunità più problematiche. Sono misure di controllo e profiling razziale e dobbiamo capire cosa sia accaduto fino ad oggi. Trump è solo il culmine o la fase finale della loro costruzione del fascismo. Hanno costruito il sistema carcerario che è il più grande del mondo. L’hanno costruito anni fa. Hanno iniziato a usare la polizia paramilitare anni fa, specialmente nella comunità nera.

Devi porti alcuni interrogativi critici su come sia mai stato possibile consentire che ciò accadesse in un momento in cui hai in giro tutti questi cosiddetti anti-razzisti e antifascisti, almeno di nome, ma che non fanno nulla per far fronte a questo tipo di lotta fascista. Vanno in strada e combattono contro qualche nazista ubriaco, una parodia di campagna antifascista. Ora abbiamo bisogno di molto di più di questo. Abbiamo bisogno della capacità di avere una massa di base, non solo giovani ma comunità, un ampio segmento sociale. Abbiamo bisogno che quella massa di base si aggiunga a un nuovo tipo di politica con il controllo diretto delle persone, piuttosto che di politicanti, predicatori o chiunque altro. Dite ai giovani di costruire movimenti dal basso. Costruire movimenti di resistenza e costruire un movimento abbastanza ampio da non poter essere controllato dallo stato, in modo che sia ingovernabile come accennavo poc’anzi. In questo momento ingovernabile significa molte cose per le persone nel movimento: significa il tipo di tattiche in cui ti impegni per strada, significa come la comunità è organizzata per non dipendere da politici, significa un boicottaggio di massa delle corporazioni capitaliste, una nuova economia di transizione e molto altro.

Una cosa che non mi stancherò mai di ripetere alla gente è che non possiamo organizzarci come facemmo negli anni ’60, non possiamo organizzarci come facemmo 30 o 20 anni fa. Dobbiamo aprire un nuovo terreno politico e avere una nuova teoria politica e nuove tattiche politiche. Questi non provengono da una persona o da un gruppo da solo, deve essere deciso dalle persone stesse.

WCA: Puoi parlarci un po’ del motivo per cui hai avviato Black Autonomy e di cosa si tratta?

LKE: Black Autonomy è stata un’iniziativa scaturita dal tentativo di affrontare il fatto che all’interno del movimento anarchico c’erano pochissime persone di colore. Black Autonomy è stato pensato anche per essere un gruppo di pressione contro il razzismo all’interno del movimento anarchico. A quel tempo, gli anarchici bianchi negli Stati Uniti non stavano realmente indirizzando la loro azione politica verso la comunità nera o verso i militanti neri. Ad essere sinceri, in quel periodo (il movimento anarchico ndr) non era un vero e proprio movimento antirazzista. E alla fine sono giunto alla conclusione che quello che avremmo dovuto fare era creare una tendenza afroamericana/nera all’interno del movimento anarchico, abbastanza forte da reggersi da sola. Questa è stata la stessa ragione per cui ho iniziato a scrivere Anarchism and the Black Revolution, un libro che sollevava le contraddizioni sulla razza, il colonialismo e l’oppressione e invitava gli anarchici ad elevare la loro coscienza. Non l’avevano mai considerato un problema o una questione centrale prima di allora; non hanno mai pensato agli afroamericani a meno che non stessero cercando di cooptare i neri all’interno di una linea di tendenza, ma neanche questo non stava di fatto accadendo quando sono arrivato nei primi anni ’70.

Negli Stati Uniti, il lavoro e le condizioni di vita dei neri sono sempre stati diversi da quelli della popolazione bianca, risalendo fino alla schiavitù. Qualcosa che lo stesso Marx ha definito “piedistallo” per la creazione del capitalismo negli Stati Uniti; la schiavitù nera. Ho cercato di convincere gli anarchici a comprendere il fenomeno e a pensarlo in modo più critico, ma si risentirono parecchio con me per quanto andavo dicendo. Quindi abbiamo creato il nostro costrutto ideologico e la nostra organizzazione, che non era certamente perfetta, creata sotto auspici tutt’altro che provvidi, ma l’abbiamo creata. Fronteggiava la paura, il senso di colpa e all’ostilità degli anarchici bianchi, i quali di fatto non diedero alcun vero sostegno a Black Autonomy.

Abbiamo creato quella che era essenzialmente un collettivo ad Atlanta. Siamo quindi giunti a costituire una federazione nazionale di dieci città e un gruppo a Londra.

Ad Atlanta si discuteva sulla direzione da prendere e dalla strada arrivavano i suggerimenti sulla necessità di organizzare la comunità nera contro le condizioni di miseria e segregazione sociale. Abbiamo iniziato a organizzarci dopo l’assassinio, da parte della polizia del P.D. di Atlanta, di un fratello di nome Jerry Jones nel 1995, abbiamo anche iniziato a organizzarci contro il tentativo del governo della città di sottrarre il sistema di trasporto pubblico ai poveri e ai lavoratori del centro città per darlo ai benestanti residenti della periferia.[3] Avrebbero aumentato così tanto le tariffe che le persone che vivevano in città non sarebbero state in grado di permettersi l’uso dei mezzi pubblici. Così abbiamo fondato il Movimento per la sopravvivenza dei poveri e da questo è nata l’Atlanta Transit Riders Union. Stavamo combattendo contro le autorità che gestivano il trasporto pubblico e abbiamo iniziato a sollevare contraddizioni su razza, classe e povertà che si annidavano da anni negli uffici delle autorità cittadine. Quella è stata una campagna di successo. Siamo stati in grado di respingere per anni gli aumenti delle tariffe. Le abbiamo propinate ai ricchi, al governo della città e alle corporazioni, invece che ai poveri o ai lavoratori che non avevano altre opzioni per spostarsi.

La stessa Black Autonomy era un’organizzazione anarchica, ma comprendeva anche che la sua politica era basata sulla realtà dell’oppressione dei neri negli Stati Uniti e in tutto il mondo. Ci siamo organizzati attorno alle cose che vediamo accadere ancora oggi: la detenzione di massa di persone di colore e omicidi da parte della polizia o dei vigilantes fascisti. Ci siamo organizzati in diverse città negli anni ’90 e anche negli anni 2000. La manifestazione anti-klan del 2013 a Memphis, nel Tennessee, è stata la più grande manifestazione antifascista di quell’anno con 1.500-2.000 persone. Da anni ci organizziamo in diverse città contro il terrorismo poliziesco.

Così Black Autonomy ha iniziato a organizzarsi, proponendo idee che possano raggiungere i giovani e cercando di combattere le carceri in quanto istituzioni. Non solo per combattere i giudici e tutta questa spazzatura istituzionale, ma anche per affrontare il fatto che le carceri siano sistematicamente utilizzate come strumento di oppressione dei neri e dei poveri. Sfortunatamente, non siamo stati in grado di coagulare attorno a noi forze sufficienti su questa faccenda per costruire un movimento di base contro la detenzione di massa. Abbiamo cercato di farci aiutare da gruppi come la Croce Nera anarchica, ma abbiamo fallito quando si sono uniti alla sinistra autoritaria.

WCA: Perché pensi che l’attuale amministrazione si stia concentrando sugli anarchici e sugli antifascisti?

LKE: Trump ha bisogno per prima cosa di un capro espiatorio. Gli Antifa sono disposti a combattere questi fascisti per strada e lo fanno da un po’ di tempo. Quindi Trump è in grado di utilizzare quella “violenza” per giustificare le sue politiche repressive e diventerà più aggressivo col passare del tempo. Penso davvero che voglia perseguirli fin nei tribunali federali per “tradimento”. Vogliono tatticamente proporre gli Antifa come “nemici dello stato”. Penso che avrebbe usato il Dipartimento di Giustizia e la sua squadra di scagnozzi federali per cercare di distruggerli ormai, se non fosse stato per il fatto che ha dovuto candidarsi e non ha avuto le mani completamente libere. Penso che Trump sia convinto, e in una certa misura può essere anche vero, che molte delle cose che stanno accadendo per strada siano dovute agli anarchici che sembrano avere riscosso un sostegno di massa.

Il fatto è che, per quasi 100 anni, il governo ha sempre visto gli anarchici come una seria minaccia. Negli anni passati ci sono sempre state ondate di repressione ai danni degli anarchici, anche se negli ultimi tempi gli anarchici non hanno fatto molto per giustificare questo tipo di repressione. Sono sorpreso che stia arrivando ora, ma non sono sorpreso in un certo senso, perché siamo un comodo capro espiatorio in quanto tendenza più pericolosa a sinistra. I comunisti? Oh i comunisti sono tutti esauriti! (risate) Sono tutti esauriti e corrono per una carica o altro. Non lo dico per dire, ma in questo momento ci sono molti elementi comunisti che flirtano con lo Stato e i capitalisti.

Il Dipartimento di Giustizia e l’FBI vogliono fare del movimento di protesta per i neri un capro espiatorio, in quanto non sono ancora stati in grado di farlo con il movimento nero in sé, anche se, si sono inventati questo cosiddetto “programma di sicurezza” dello Stato qualche tempo fa, col quale stavano cercando di perseguire gli attivisti neri, sai, “estremisti.”

Il movimento di protesta sta spingendo il governo, mettendolo spalle al muro, ma non è in grado di soffocarlo. Ciò di cui abbiamo bisogno è il tipo di movimento rivoluzionario che possa abbattere lo Stato e creare una nuova società tutti insieme.

WCA: Volevo chiederti della crescente popolarità dell’anarchismo nero. Ci sono molte persone di colore che stanno diventando più interessate all’anarchismo e molte di queste si stanno interessando al tuo lavoro. Vorresti parlare del perché pensi che stia accadendo? E vorresti anche dire qualcosa di ciò che speri possano trarre dal tuo lavoro e dall’anarchismo nero?

LKE: In primo luogo, per me è stata una sorpresa persino scoprire che c’erano nuove tendenze anarchiche, tendenze anarchiche nere, sulla scena. Questo è frutto del lavoro svolto con Black Autonomy. Qualunque errore abbiamo potuto commettere nel costruire una tendenza di massa anni fa, parla di quel lavoro. Penso che se non avessi scritto Anarchism and the Black Revolution e fatto tutte le altre esperienze coi compagni con cui ho lavorato, la gente non avrebbe nemmeno saputo delle idee dell’anarchismo nero.

Io sono per un anarchismo che si sostanzia nella lotta di classe. La mia prospettiva è che l’anarchismo proviene dal movimento socialista; è infatti socialismo autonomo o socialismo libertario. Quelle stesse idee del socialismo fondate su autogestione e autogoverno proposte da Bakunin, e non a caso il movimento anarchico faceva parte del primo movimento comunista internazionale. Quindi la mia idea è che, se le persone vogliono avere una prospettiva anarchica o un’idea politica anarchica nera, devono capire che dobbiamo costruire un movimento che dia il potere agli sfruttati. Non è solo un termine artistico, ma stiamo combattendo non per avere un partito, una setta o una leadership. Stiamo combattendo affinché le persone sul campo, dal basso, possano iniziare a costruire una nuova vita tanto per se stesse quanto per una nuova società. Sono in corso svariati dibattiti su come potrebbe essere quella società o su quali fasi transitorie di lotta e costruzione di una nuova società si debbano attraversare.

Credo che dovremo giocoforza attraversare una fase di transizione. Ma a ora, in questo preciso momento, si tratta di organizzare comunità rivoluzionarie, non solo “proteste pacifiche” per fare appello al governo. Dobbiamo adottare un nuovo modo di pensare la resistenza e la ricostruzione delle comunità, in modo da essere ingovernabili da parte dello Stato. Dobbiamo pensare alle persone che costruiscono comuni rivoluzionarie e altre forme di entità politiche indipendenti. In questo momento dobbiamo pensare all’arrivo di milioni di senzatetto e parlare di come diamo loro un posto dove vivere. Come trattiamo il governo per costringerlo a fornire quelle risorse e come lottiamo contro il governo per impossessarci completamente degli alloggi? Il governo ti farà la guerra, che tu sia pronto o no.

Riconosco che una tendenza di massa che utilizza la non violenza in una certa fase storica può respingere il governo, ed è quello che sta accadendo in questo momento. Sì, il movimento di protesta sta respingendo il governo, spingendolo contro il muro, ma non lo schiaccia. Ciò di cui abbiamo bisogno è il tipo di movimento rivoluzionario possa schiacciarlo e creare una nuova società tutti insieme. Queste organizzazioni di cui stiamo parlando, sono soffocate dalla coscienza piccolo borghese, dall’organizzazione piccolo borghese, dalla leadership piccolo borghese e così via, queste spinte creano un certo tipo di movimento che non arriverà al punto di “fare tutto” come si diceva un tempo. Penso davvero che abbiano costruito dei limiti alla loro capacità o alla loro volontà di rovesciare lo Stato o addirittura di parlarne. La cosa divertente è che dobbiamo continuare a pensare a cose del genere, rovesciare lo Stato, non ottenere riforme. Non voglio dire che non dovresti mai ottenere delle riforme se le puoi avere immediatamente. Ma in questa fase, siamo andati troppo oltre. Questo momento è un momento rivoluzionario e sono successe alcune cose per renderlo così, non solo le proteste.

Il sistema stesso vacilla a causa del virus COVID-19. Tutte ciò che sta accadendo sta mettendo lo Stato in un delle posizioni più deboli nelle quali si sia mai trovato. Anche Trump o chiunque si impadronisca dello potere e cerchi di creare uno stato fascista non lo fa da una posizione di forza. Non stanno quindi cercando di imporre la dittatura da una posizione di forza, stanno cercando di imporla da una posizione di debolezza e paura. Ecco perché ho detto che dobbiamo costruire una forza alternativa e radicale, in modo che possa poi funzionare in un modo del tutto diverso dal passato, per rovesciare l’intero sistema. Non più quindi il dualismo Democratici o Repubblicani. In ultima analisi, Trump potrebbe volere una dittatura personale. Ma l’altro ragazzo [Biden], è un agente dello Stato ed è un oppressore a pieno titolo. Ha aiutato a portare il sistema carcerario al punto in cui si trova. La sua compagna di corsa, Kamala Harris, beh, lei è una democratica tanto quanto lui. È altrettanto favorevole all’uso della polizia e del governo contro i poveri. Dobbiamo essere in grado di istruire masse di persone su queste cose mentre creiamo un’alternativa, in modo che non si lascino ingannare. Abbiamo bisogno di una nuova società e di un nuovo mondo.

William C. Anderson è uno scrittore indipendente di Birmingham, Alabama e coautore di As Black as Resistance (AK Press, 2018).

Note

  1. https://blackrosefed.org/ungovernable-interview-lorenzo-komboa-ervin-anderson/
  2. https://www.gofundme.com/f/support-revolutionary-elders-lorenzo-komboa-ervin
  3. Nel testo originale “jailhouse lawer”, un detenuto autodidatta in questioni di diritto penale e carcerario, che cerca di ottenere il rilascio attraverso manovre legali o che consiglia i compagni detenuti sui loro problemi legali.
  4. Weed and Seed è un programma del Dipartimento di Giustizia. La strategia Weed and Seed segue un duplice approccio: le forze dell’ordine locali e i pubblici ministeri cooperano per “estirpare” (o diserbare) i crimini violenti e l’abuso di droghe, e il “seeding” (la semina) porta nell’area servizi sociali che comprendono prevenzione, intervento, trattamento e rivitalizzazione del quartiere. Una componente di polizia collega le strategie di diserbo e semina: gli ufficiali ottengono cooperazione e informazioni dai residenti dell’area, mentre vengono assistiti, e consigliati sulle procedure di rivitalizzazione delle risorse della comunità.
  5. Va compreso che negli anni che vanno dai ’70 ai ’90, in molte aree urbanizzate del Stati Uniti i centri erano occupati da opifici e palazzine per operai, il centro era quindi ben lungi dall’essere il centro città stile europeo, ndr.
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Free-k Pride 2020 – Torino

Anche quest’anno si è tenuto, per il terzo di fila, il Free-k Pride, pride contro dio, stato, capitale, genere, religioni e famiglia. In qualche migliaia da piazza Castello fino ai giardini intitolati a un essere orripilante di cui non facciamo il nome siti tra corso Vercelli e corso Giulio.

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Tradire la razza bianca significa essere leali verso l’umanità

Il seguente articolo è stato pubblicato su Umanità Nova numero 21 anno 100

L’omicidio di George Floyd è uno degli ultimi assassinii compiuti dalle polizie[1] statunitensi nei confronti di coloro che appartengono ai gruppi socio-culturali razzializzati.

Già pochi anni fa, a Ferguson, un fatto simile aveva scatenato giorni di rivolta, portando alla nascita del movimento Black Live Matters. L’omicidio delle persone appartenenti ai gruppi razzializzati da parte delle polizie statunitensi è una costante che risale ancor prima della nascita degli Stati Uniti; ha le sue radici nell’economia schiavista – che si approvvigionava di schiavi dall’Africa Occidentale per alimentare il sistema delle piantagioni – e nell’espansione delle Colonie ai danni delle popolazioni native – che non avevano i diritti garantiti da coloro che avevano il mandato di costruire in terra la nuova Gerusalemme. Sono dinamiche che hanno origine nel controllo e nell’espansione economica e territoriale del Nord-America da parte delle élite britanniche, olandesi e francesi.

Con l’indipendenza degli Stati Uniti dalla Corona Britannica, il sistema schiavistico si è mantenuto fino alla Guerra Civile nonostante la vittoria dell’Unione e l’abolizione della schiavitù. Non è negli scopi di questo articolo ripercorrere le vicende che portarono alla guerra ed alla sconfitta della Confederazione; per chi volesse approfondire, si rimanda ai fondamentali libri di Raimondo Luraghi.[2] Si tenga conto che la classe dominante unionista non era estranea al traffico di schiavi ed all’economia schiavista in toto. L’Unione forniva un fondamentale supporto finanziario e assicurativo tramite le banche del New England e nelle ragioni del conflitto si incrociavano molti motivi – come quello fondamentale sulla natura politica unionista tra Stati e quello dell’indirizzo economico da dare agli USA.

In ogni caso, le speranze di emancipazione per la popolazione afroamericana – quali l’acro di terra e il mulo per famiglia promesso da Lincoln – si sciolsero come neve al sole durante il periodo della Ricostruzione post-bellica. Nel giro di pochi anni entrarono in vigore le leggi sulla segregazione razziale. Gli schiavi emancipati dovettero tornare a lavorare come braccianti dai loro ex padroni.

La forza dell’industrializzazione, nel corso dei decenni successivi, attirò nei grandi centri del nord e del midwest grandi masse di ex schiavi e di figli di ex schiavi, integrandoli nell’economia industriale ma tenendoli sempre su un piano di inferiorità rispetto agli operai bianchi. Gli migranti europei, intanto, venivano integrati con processi contraddittori, lunghi e caratterizzati da giravolte tipiche della “whiteness”, accedendo al gradino più alto della gerarchia razziale statunitense.[3] Saltando avanti di qualche decennio, il patto sociale socialdemocratico figlio del New Deal lasciò, ancora una volta, gli afroamericani esclusi dalla ridistribuzione mediata dello Stato di parte del plusvalore. Nel Sud continuava il sistema segregazionista fino a quando verrà messo in crisi ed abolito solo dall’imponente ondata di mobilitazioni e azioni dirette tra gli anni ’50 e gli anni ’70. Nel Nord e sulle coste, gli afroamericani erano costretti a vivere nei grandi ghetti urbani che verranno ciclicamente scossi da rivolte, spesso scatenate dagli abusi della polizia.

 

La storia degli Stati Uniti è una storia di intersezionalità tra l’oppressione di classe, l’oppressione di razza e l’oppressione di genere. La razzializzazione di certi gruppi sociali, fossero essi composti da afroamericani, nativi o, successivamente, latinos, è stato un potente strumento della classe dominante statunitense nel dividere in profondità gli sfruttati.

Chi valicava i confini di razza in nome dell’unità di classe è stati sempre colpiti con durezza da parte delle pubbliche autorità di qualsiasi livello – veri garanti della gerarchia razziale e del dominio di classe. Il grande incubo della classe dominante statunitense è l’abbattimento dei confini di razza da parte degli sfruttati.

L’omicidio di Floyd è stata la classica goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo fino all’orlo. Oltre alla strutturale e plurisecolare violenza poliziesca, la risposta dei vari livelli di governo alla pandemia di Sars-Covid-19 è stata assolutamente e deliberatamente criminale. Per non bloccare un’economia che, negli ultimi anni, si sta riprendendo dalla crisi del 2008, molti Stati hanno deciso di non intraprendere azioni che portassero al blocco della produzione. Allo stesso tempo il sistema sanitario statunitense, completamente in mano a privati ed al sistema assicurativo, non è stato in grado di reggere l’ondata di ospedalizzazioni richieste da una malattia come il Sars-Covid-19.

Negli Stati Uniti ci sono al momento centodiecimila morti di Sars-Covid-19. Gli afroamericani muoiono tre volte di più rispetto ad altri[4] in quanto lavorano in servizi essenziali e, di conseguenza, sono più esposti al contagio. Non solo: gli afroamericani sono tendenzialmente più poveri, con coperture sanitarie pessime e malattie pregresse come il diabete. Una situazione simile si trova nelle Riserve native.[5] Ancora una volta possiamo vedere come l’intersecarsi tra razza e classe sociale sia un fattore determinante per l’accesso ai servizi di base.

La tanto sbandierata ripresa economica statunitense post crisi del 2008 ha aumentato grandemente la sperequazione e di essa si sono avvantaggiati coloro che erano già ricchi. Chi era povero, fosse esso bianchi o meno, è rimasti povero. Il meccanismo di sfruttamento capitalista si è rafforzato ed al momento di crescita economica non ha fatto seguito un momento di redistribuzione. In tutto questo, la crisi della classe media bianca ha portato a fenomeni come quello dell’Alt-Right e a nuove ondate di razzismo diffuso tra la popolazione.

In questo contesto, la sollevazione contro la violenza poliziesca assume caratteri di critica generale all’intera organizzazione sociale ed economica. Alla lotta contro gli abusi polizieschi si sono unite la lotta per una sanità universale e gratuita e le lotte contro la gentrificazione dei quartieri popolari e le politiche di incarcerazione di massa che colpiscono in modo sproporzionato la popolazione razzializzata.[6]

Chi in questi giorni è stato in strada negli Stati Uniti sa bene che il problema non è quello delle “mele marce” della polizia ma è l’esistenza stessa della polizia. Non è un caso che a Minneaopolis la rivendicazione della piazza fosse stata quella di sciogliere l’intero corpo di polizia della città. In molte altre città le manifestanti hanno detto a gran voce che bisogna tagliare i fondi alla polizia stessa. Come dicevamo nell’articolo “Genealogia della violenza poliziesca”:[7]

(…) L’aumento della militarizzazione della società statunitense è da ricercarsi nelle politiche economiche e sociali portate avanti negli ultimi 40 anni. Con Nixon partì la War on Drugs, la politica di inasprimento delle pene per reati legati a detenzione, consumo, produzione e spaccio di stupefacenti. Politica che portò all’aumento esponenziale della popolazione carceraria, senza far diminuire la diffusione di droghe, sopratutto pesanti. Questa politica venne successivamente rafforzata da Reagan, di pari passo con l’imposizione dell’ordine neo-liberista: dalla guerra alla povertà si passa alla guerra ai poveri. Lo smantellamento di tutti i baluardi del welfare state statunitense, fino agli anni ’70 difeso sia da Democratici che da Repubblicani, la distruzione della sanità pubblica a favore di quella privata (e della finanziarizzazione della assicurazioni mediche), la diminuzione dei salari minimi, la completa distruzione delle organizzazioni dei lavoratori, la gestione della città con la creazione di centri urbani iper-blindati, come la down-town losangelina, la ghettizzazione dei poveri, la diminuzione delle case popolari, la suburbanizzazione del ceto medio, hanno portato ad uno sfarinamento del tessuto sociale delle comunità […] Tutto questo è dovuto passare, giocoforza, per la creazione di rapporti di forza in grado di supportare l’ordine neo-liberista. E i rapporti di forza sono anche di natura militare: ecco una delle cause di un corpi di polizia ipertrofici e iper-armati. Altra causa si deve ricercare, a mio parere, nel famoso apparato industriale-militare statunitense. La vera lobby delle armi non è quella di chi supporta il diritto costituzionale di formare milizie popolari armate e detenere e portare armi ma quella che fornisce un quantitativo enorme di tecnologie militari a governo federale e governi statali. E e non parliamo solo di armi leggere ma di armamenti pesanti e della tecnologia logistica necessaria a gestire forze armate[…] Questo complesso militare-industriale prospera grazie alla diffusione di guerre, interne ed esterne, di dispositivi carcerari, di militarizzazione dello spazio urbano (…).

Le immagini di poliziotti che si inginocchiano per “onorare la memoria di George Floyd” servono a trarre in inganno. Come ha detto un’attivista afroamericana su Twitter “sono come quando il tuo partner violento, dopo averti riempito di schiaffi, ti porta un mazzo di fiori”. In molte occasioni, dopo pochi minuti da queste azioni di propaganda a favore delle telecamere i poliziotti hanno tentato di reprimere le manifestazioni.

In molti casi mal gliene incolse: nonostante l’alto numero di arresti ed una decina di morti, il livello di mobilitazione, mentre scriviamo, non sembra calare. Certo, probabilmente caleranno i riot veri e propri nei prossimi giorni ma la mobilitazione resterà alta.

In molte città, intanto, le statue di personaggi storici razzisti – fossero vecchi sindaci o generali della confederazione – sono stati abbattuti, spesso, dai manifestanti; in altri casi dalle stesse amministrazioni comunali quando queste si accorgevano improvvisamente di avere nelle piazze principali dei monumenti dedicati a personaggi ignominiosi. E volevano evitare che fossero i manifestanti stessi ad abbattarle.

Davanti ai riot ed agli espropri, ovviamente, non sono mancate le reazioni scandalizzate dei vari esponenti della sinistra istituzionale statunitense, quella che si illudeva – e voleva illudere – di vivere in una società post-razziale e di essere l’avanguardia dell’antirazzismo perché aveva portato Obama allo Studio Ovale.

Le insorgenze sociali degli ultimi dieci anni hanno dimostrato come la presa del Democratic Party sui movimenti sociali negli Stati Uniti si stia sempre più sfaldando. La dirigenza del partito non è stata in grado di attuare un recupero delle istanze nate a Ferguson e ha continuato a puntare sul centrismo di Biden o di Clinton piuttosto che aprire timidi spiragli a sinistra. Le componenti di sinistra del Democratic Party, come il DSA, che tanto fa sognare parte della sinistra europea, hanno ribadito la loro lealtà al partito e al futuro candidato alle presidenziali Biden, esponente del peggiore centrismo. Probabilmente, e giustamente, queste componenti della sinistra pagheranno questa scelta perdendo la capacità di organizzare il dissenso degli afroamericani delle metropoli costiere e di recuperare e reintegrare i venti di rivolta dentro dei percorsi istituzionali.

È un gioco che va avanti da quasi quaranta anni. Ma è un gioco oramai rotto che fa sempre meno presa. Negli ultimi anni tra le comunità razzializzate si è ripreso uno dei punti cardine del movimento per i diritti civili degli anni sessanta: l’autodifesa e/o saper difendere, anche militarmente, le comunità aggredite dai suprematisti bianchi e dalla polizia. Ovviamente questa è una parte di storia poco raccontata ma è necessaria per capire che cosa sia stato realmente il movimento che ha portato alla distruzione del sistema segregazionista nel Sud degli Stati Uniti.[8] Il numero di afroamericani, che possiedono armi da fuoco per la difesa personale è aumentato con l’emergere dell’Alt-Right[9] (alla faccia di Clinton, aggiungo) e durante la presidenza Trump – emblema della “whiteness”. Fatto ancora più interessante è come la tematica dell’autodifesa sia ritornata ad essere centrale anche per molte donne e transgender afroamerican*, due categorie che da sempre subiscono appieno l’oppressione di razza, classe e genere.

Nonostante per descriverla si tiri in ballo – a sproposito – il fascismo, la natura politica di questa amministrazione rimane interna al sistema della gerarchia razziale statunitense. Come ben spiegato dall’articolo che traducemmo e pubblicammo sulle pagine di Umanità Nova, “Trump rappresenta il fascismo o l’identità bianca?” (originariamente comparso su Crimethinc):

(…) Una risposta di massa alla vittoria di Trump ha bisogno di prendere in considerazione il tema dell’identità bianca. Deve essere chiaro che dopo cinquanta anni dalla supposta vittoria del Movimento per i Diritti Civili la proposta progressista di un’identità bianca sensibile e tollerante non è una soluzione ma solo un modo per posporre il problema.

L’identità bianca deve smascherata per quello che è ed estirpata. A questo è qualcosa che nessun partito politico può fare. Quale politico potrebbe vestirsi culturalmente con il mantello di George Washington sapendo che questi era il più grande proprietario di schiavi del suo tempo, l’architetto della campagna genocida verso le Sei Nazioni, che lo nominarono il ‘distruttore di città’?

L’identità bianca è stata creata per distruggere la solidarietà tra gli oppressi e per incoraggiare la lealtà verso i padroni. Nelle lotte di mezzo secolo fa l’identità bianca ha operato sia a destra sia a sinistra. Tra i conservatori significava indossare lenzuola bianche e per i progressisti significava controllare l’agenda politica dei riformisti del Movimento tramite finanziamenti e copertura mediatica selettiva. Con l’ondata dell’insurrezione che si è accesa a Ferguson i costumi sono cambiati ma i ruoli sono gli stessi. L’industria del counseling per bianchi con sensi di colpa è l’armata degli alleati passivi, dei rinforzi dell’identità bianca. Nelle strade di Ferguson e di altre città abbiamo visto come si completi la funzione paramilitare di disarmare le persone di colore e prevenire che i bianchi prendano direttamente parte alle ribellioni dove le divisioni razziali tendono a scomparire. ()[10]

Per cercare di comprendere gli Stati Uniti e che cosa stia succedendo in queste settimane, è necessario tenere conto delle questioni che abbiamo velocemente accennato in questo articolo. La questione della razzializzazione di interi gruppi sociali negli Stati Uniti e di come questa si interseca con le questioni di classe e di genere, ha delle caratteristiche peculiari che la rendono non facilmente comparabile con le situazione europea. Se nei paesi europei la razzializzazione è legata principalmente al tema dell’immigrazione ed è, di conseguenza, figlia della seconda metà del novecento – prima era confinata alle sole colonie od a gruppi sociali ben specifici e ristretti come gli zigani e gli ebrei della diaspora – negli Stati Uniti invece è una questione che è sempre stata strutturale e fondamento stesso del paese.

Il titolo di questo articolo è una citazione della rivista Race Traitor, rivista statunitense che, tra gli anni novanta e duemila, affrontò con cipiglio insieme militante e accademico la questione di razza negli USA. Come il collettivo editoriale di Race Traitor, siamo convint* che non basta dichiararsi antirazzist* e continuare, allo stesso tempo, ad assumere l’esistenza delle “razze” come un fatto “naturale” su cui si possa costruire una convivenza in luogo di una guerra come vorrebbero i suprematisti. Riteniamo, invece, necessario esplorare il concetto di “razza” non solo come un fattore storico e sociale e quindi eliminabile. Abolire e disertare lo schieramento razziale in cui la classe dominante ci ha inserito nel corso dei secoli per dividere noi sfruttat* gli/le un* dagli/dalle altr*, è un atto di lealtà verso noi stess*.

lorcon

NOTE

[1] Utilizzo il plurale in quanto negli Stati Uniti le forze dell’ordine si articolano su diversi livelli, spesso autonomi tra di loro: polizie metropolitane/cittadine al comando del potere amministrativo locale; sceriffi a livello di contea e, generalmente, eletti direttamente; polizia statale sotto il controllo del singolo Stato dell’Unione; polizia federale.

[2] Luraghi, Raimondo Storia della guerra civile americana, Collana Biblioteca di cultura storica n.87, Torino, Einaudi, 1966 ed edizioni successive

[3] Ignataiev, Noel How the Irish Became White

[4] https://www.theguardian.com/world/2020/may/20/black-americans-death-rate-covid-19-coronavirus

[5] https://www.theguardian.com/us-news/2020/may/26/native-americans-coronavirus-impact

[6] Le dinamiche delle incarcerazioni di massa sono una parte fondamentale del sistema carcerario-industriale statunitense. Vedasi “Questione Carceraria e Lotta di Classe”, https://www.umanitanova.org/?p=7946 intervista all’Imprisoned Workers Organizing Committee

[7] https://photostream.noblogs.org/2013/10/geneaologia-della-violenza-poliziesca/ pubblicato anche su questo giornale nell’ottobre 2013

[8] https://libcom.org/history/negroes-guns-robert-f-williams

[9] https://www.nbcnews.com/news/nbcblk/age-trump-producing-more-black-gun-owners-n758211

[10]https://photostream.noblogs.org/2017/03/trump-rappresenta-il-fascismo-o-lidentita-bianca/

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I servizi pubblici essenziali tra tagli e saccheggi

Il seguente articolo è stato pubblicato su Umanità Nova numero 15 anno 100

È un dato incontrovertibile che la pandemia da Covid-19 abbia evidenziato quanto il sistema di servizi essenziali nazionale sia inadeguato. Lasciando da parte per un istante le tare dovute alla “mala gestione”, da intendersi come un cocktail di imperizia negligenza e fraudolenza, ci concentreremo sui tagli ai servizi essenziali: in questo caso prenderemo la sanità come esempio chiave per la nostra breve trattazione. Cercheremo di smontare qualche luogo comune partendo da quello che recita: “in altri paesi le cose vanno diversamente”, continuando di mantra in mantra fino a giungere a quello più noto: “in Germania il welfare funziona!”. Cercheremo di decostruire quel non detto che può ribaltare l’evidenza apparente, rintracciando il filo conduttore che collega tutti i fenomeni più controversi del recente passato alla sistematica destrutturazione del welfare state. È doveroso quindi stabilire da alcuni assunti base per poter iniziare l’operazione di dissezione dei luoghi comuni, il principale dei quali è la centralità della “ragione economica”. Il fatto che la spesa pubblica sia un fattore determinante per i mercati finanziari pone il concetto di indebitamento sotto una luce diversa rispetto ad una trentina di anni fa. Come ampiamente illustrato dalle pagine di questo giornale, [1] [2] [3] il meccanismo perverso che ci ha condotti all’attuale stato delle cose si basa su un circolo vizioso che nessun Governo si è mai peritato di spezzare, men che meno i fissati col sovranismo, troppo ancorati agli interessi dei loro sostenitori ai quali le meccaniche neoliberiste vanno benissimo così come sono. In estrema sintesi il luogo comune descrive il meccanismo basato su fattori che si alimentano a vicenda, minore ricchezza del paese (PIL) minore possibilità di spesa pubblica in debito e va da sé riduzione dei servizi. Ma il meccanismo, in apparenza lineare e semplice, è assai più complesso. Tale complicazione non è data dalle sole regole restrittive dei vari trattati europei, vi è qualcosa di assai meno meccanico e molto più ideologico e politico. Gli equilibri tra paesi voraci in espansione e paesi la cui espansione economica è tenuta sotto scacco, non vogliamo, ovviamente, con questo difendere l’italico diritto di accaparrare mercati – diritto che spesso la stracciona classe dirigente italiana lamenta come usurpato da questa o quella potenza estera – stiamo solo descrivendo un processo, le cui implicazioni sociali disegnano lo stato delle cose nel quale stiamo vivendo. Si tratta di fatto di impedire che un paese membro possa adottare strategie di deficit spendingcosì da evitare le azioni erosive ai danni del welfare, in pratica attraverso politiche di espansione evitare di incappare nelle politiche di austerity esattamente come riesce a fare la Germania.

Ma come si sviluppano queste politiche predatorie? Il dato principale è quello della speculazione sul debito cosiddetto sovrano, quello italiano è tra i preferiti tra gli operatori finanziari, l’Italia ha il 151% di debito pubblico seconda in Europa dopo la Grecia, ma in quanto a debito delle famiglie le cose vanno decisamente meglio: il 41% contro il 127% della Svizzera, il 117% della Danimarca, il 107% dell’Olanda.[4] Il debito delle imprese segue un andamento virtuoso superato solo di poco dalla Germania. Proseguendo questa breve carrellata di dati concludiamo con un po’ di numeri sul debito, a partire dal 1992, (tranne il 2009), il bilancio dello Stato è sempre stato positivo, dal 1992 al 2017, lo Stato ha risparmiato un bel po’ di quattrini: si parla di qualcosa come 795 miliardi. Di contro negli stessi anni, le spese per interessi hanno raggiunto i 2094 miliardi con una crescita del debito di 1.299 miliardi. È quindi chiaro che la principale causa dell’aumento del debito pubblico italiano dipende dagli interessi: ricorda un po’ la situazione di chi finisce nella mani dei cravattari. Se questo meccanismo lo immaginiamo governato dalla speculazione finanziaria cominciamo a capire cosa sta dietro al mantra “ce lo chiede l’Europa” o peggio “ce lo chiedono i mercati”. Ma tutto ciò da solo non spiega ancora fino in fondo i “tagli” ai servizi pubblici, e l’inefficienza che ne deriva. Per fare ciò c’è bisogno di inserire nel sistema un paio dei principi cardine de neoliberismo, ossia quello della concorrenza, seguito a ruota da quello di competitività, il cavallo di Troia che li ha inseriti nel sistema pubblico è stato il principio di sussidiarietà introdotto con la modifica dell’art. 118 della costituzione nel 2001. Ciò ha di fatto consentito di inserire la concorrenzialità tra pubblico e privato anche (e soprattutto) in materia di servizi pubblici, aprendo la stagione dell’esternalizzazione dei servizi e dell’aziendalizzazione di fatto del comparto pubblico. Quindi abbiamo da un lato una pressione debitoria che spinge al “risparmio”, dall’altra la costituzione che impone il libero mercato e tutt’attorno sciacalli, iene e avvoltoi che non attendono altro che farci a brandelli. Questo è ciò che succede ogni volta che inciampiamo in qualche crisi, e dal 1992 ad oggi passando per il 2008 (anche se le ripercussioni in chiave di macelleria sociale sono avvenute nel biennio 2010-2011) abbiamo fornito occasioni per cibarsi di pezzi succulenti del welfare ma anche di pezzi importanti del comparto produttivo (manifatturiero in primis). L’assist che di volta in volta viene fornito dai vari governi – e in special modo tutti- sono le riforme lacrime e sangue, le quali di fatto agiscono come machete per staccare il boccone già nelle fauci dei suddetti predatori. Accade così che dopo la crisi del 2008 e le purghe della Troika un’aquila da becco affilato si è infilata prepotentemente nel mercato bancario e nel controllo di numerose aziende manifatturiere, l’aquila in questione è ovviamente la Germania. Oggi la posizione dell’Italia nei confronti della Germania è di pesante subordinazione produttiva, caratterizzata da esportazioni di beni intermedi (semilavorati e componentistica in genere) e importazioni di beni strumentali e tecnologici ad alto valore aggiunto (strumentazione di precisione, macchine utensili ecc.). Ciò spiega il gap di produttività maturato nei confronti dei Paesi-core europei. Gran parte dell’export fa parte di un programma di esternalizzazione della produzione, in pratica molte non sono aziende che vendono alla Germania, ma sono aziende a partecipazione tedesca -se non addirittura aziende assorbite in toto da marchi tedeschi- essendo l’Italia un posto in cui i costi si sono abbassati dopo le politiche di precarizzazione del lavoro (legge Biagi in primis) e in seguito all’austerity post 2008. Il che implica che parte del PIL tedesco viene realizzato in Italia a costi sociali e ambientali tutti italiani e con un regime fiscale tutto a favore dell’imprenditoria teutonica. Le immediate implicazioni di essere territorio di caccia consistono nel fato che meno si guadagna meno si contribuisce alla spesa pubblica, e questo è un circolo vizioso che rischia di trasformarsi in uno stallo a vite. Due dati su tutti: l’82% delle entrate fiscali derivano dal lavoro dipendente, e il 44% di questa popolazione di tassati percepisce redditi mediamente inferiori ai 15.000 euro. Il che implica con un’evidenza sconcertante che la spesa pubblica si regge quasi per intero sul lavoro dipendente e le politice di austerity che abbassano di fatto i salari e diminuiscono i posti di lavoro non fanno altro che stringere il cappio dentro il quale abbiamo infilato il collo.

Questo comincia a mettere in luce l’inconsistenza di quei famosi luoghi comuni. Se è vero come è vero che la Germania ha tagliato meno posti letto, ciò è stato possibile anche grazie ad una produttività maggiore, che implica un PIL più elevato quindi nell’ottica del rapporto debito/PIL, una maggiore libertà di spesa. Ma tutto ciò è vero solo in parte, nel senso che mentre la spesa strutturale sanitaria italiana è tutta sostenuta dallo stato (tranne diagnostica e farmaci che sono in larga parte a carico delle famiglie), in Germania tale spesa è in buona parte sostenuta dalle famiglie attraverso l’introduzione dell’obbligo dell’assicurazione sanitaria [fig.1].

Altro aspetto affatto secondario che divide le due nazioni consiste nelle politiche degli ammortizzatori sociali e gli interventi di sostegno dei consumi. Nel caso teutonico assistiamo negli anni successivi alla caduta del muro e per tutti gli anni ’90, ad una profonda mutazione del rapporto tra Stato e cittadino, dall’assistenza di matrice social democratica al paternalismo di stampo neoliberista, dal welfare al werkfare .[6]

Le riforme introdotte durante gli ultimi due decenni in Germania, la più nota è la famigerata Hartz IV, hanno fatto si, che la retribuzione di parti sempre maggiori dei lavoratori non specializzati e a basso reddito diventassero dipendenti da forme di reddito erogate direttamente dal pubblico. In pratica le imprese sono state liberate dalla necessità di retribuire una quota dei lavoratori e il salario di questi viene erogato dalla fiscalità generale. In cambio? In cambio si esige il rispetto pedissequo di un regime di lavoro particolarmente duro, senza sbocchi migliorativi a livello individuale – e figuriamoci collettivo – controlli dei consumi individuali e familiari da parte di ispettori pubblici che ti insegnano come devi stare al mondo, dato che come percettore di queste forme di reddito sei colpevole di essere un salariato pauperizzato. Ma lo stato tedesco è buono ed è pronto ad aiutarti anche se evidentemente non vivi in stato di grazia con il buon Dio di Lutero e la sua emanazione terrena: lo Spirito Santo del Capitale.

L’apparato di controllo tecno-burocratico si prende carico della gestione della vita di queste fasce di proletariato, che esse siano terze generazioni figlie o nipoti dell’immigrazione anatolica o cittadini dell’ex DDR che non sono riusciti a mettersi in pari con chi viveva ad Ovest della Cortina di Ferro.

Una vera e propria compressione del costo del lavoro per le imprese tedesche che possono godere dei servigi di una manodopera quasi servile, rimasta intrappolata nella spirale del debito e quindi soggetta alla burocrazia che si occuperà di salvarli dopo averli colpevolizzati come si deve. Un capolavoro dell’ideologia neoliberista dell’homo economicus.

Ovviamente questo si è legato con una costante finanziarizzazione della vita economica dei singoli e delle famiglie. Basti pensare al mercato delle assicurazioni sanitarie private in Germania, che sono nei fatti obbligatorie per tutti i residenti di lungo periodo e con costi che variano dalle decine di euro ai centinaia di euro mensili. Un gigantesco flusso di introiti per le casse dell’Allianz e degli altri gruppi assicurativi che viene garantito da quella che è nei fatti un’obbligatorietà nel sottoscrivere tali contratti.

Vi è anche un altro luogo comune, particolarmente pernicioso in quanto molto diffuso nel milieu della sinistra radicale italiana: che tutto questo sia colpa di qualche sordido complotto ordito nel nord-europa ai danni della Grande Proletaria di pascoliana memoria.

Sicuramente un paese come la Germaia, come abbiamo descritto in questo articolo, ha molto guadagnato dal legare a sé in posizione subordinata il comparto manifatturiero italiano ma la borghesia italiana, la stessa che manda i suoi rappresentanti governativi a stracciarsi le vesti a Bruxelles, ha guadagnato enormemente da questa situazione. Lo smantellamento graduale delle forme di assistenza pubblica hanno portato guadagni nelle casse di italianissimi imprenditori. La compressione dei salari, la precarizzazione del lavoro dipendente, la minore ridistribuzione dei proventi della fiscalità, ovvero quello che era il salario indiretto dei lavoratori, è una dinamica che è andata a tutto vantaggio della grande e media borghesia italiana: dai gruppi finanziari, che pure non hanno la levatura dei loro equivalenti tedeschi, alle grandi multinazionali del manifatturiero e giù fino a tutta la schiera delle Piccole e Medie Imprese, campionesse indiscusse dell’arte del “chiagni e fotti”, che, incapaci di trasformarsi in aziende ad alta intensità di capitale rimangono volentieri ancorate all’alta intensità di lavoro, sopratutto se sottopagato: è un dato di fatto la pluridecennale stagnazione dei salari mentre i padroncini continuano a mettere da parte tesoretti. Tanto per rimanere alle più recenti cronache: è noto che nella bergamasca vi sia uno dei più tenaci e mortiferi focolai di Covid-19 e che parte dei contagi siano avvenuti nelle fabbriche che sono state tenute aperte nonostante si levassero numerosi voci che ne chiedevano la sospensione delle attività. Una delle principali fabbriche è la Dalmine di proprietà della famiglia Rocca, capitanata dall’ottavo uomo più ricco del belpaese. Questa famiglia controlla, oltre al polo siderurigo di Dalmine, (tenuto forzosamente aperto inventandosi che produceva beni di prima necessità si producono bombole di ossigeno, ma solo in un reparto con qualche decine di addetti su centinaia di lavoratori impiegati nell’impianto); decine di stabilimenti della filiera dell’acciaio sparsi in America Latina e l’Istituto Clinico Humanitas, uno dei principali gruppi attivi nella sanità privata italiana. Un classico esempio di come finanziarizzazione, integrazione orizzontale che porta una holding ad avere interessi che variano dalla produzione di tubi e profilati alla sanità, costituendo una potenza di fuoco politico – Gianfelice Rocca è stato il presidente di Assolombarda e vicepresidente di Confindustria – che consente di mettere in crisi la salute pubblica.

Quindi pur nella brevità di un articolo, abbiamo cercato di descrivere la complessità di fenomeni socio-economici che sono spesso veicolati con slogan e luoghi comuni. Questi non sono che parole spesso orbe di senso dietro cui si celano i reali processi e gli interessi specifici che governano l’esistenza di milioni di individui.

[1] Fricche, Il meccanismo europeo di stabilità https://www.umanitanova.org/?p=11915

[2] Fricche, La strage di Stato, https://www.umanitanova.org/?p=11854

[3] Fricche, Scenari per l’economia prossima ventura, https://www.umanitanova.org/?p=11774

[4] Andrea Fumagalli, Il grande business del debito italiano, https://www.attac-italia.org/il-grande-business-del-debito-italiano/

[6] JR & Lorcon, Breve discorso sul reddito https://www.umanitanova.org/?p=6036

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Comunità escludente a tinta verde

Il seguente articolo è stato pubblicato su Umanità Nova numero 13 anno 100

La diffusione dell’epidemia di Covid-19 ha rappresentato per gli esponenti dell’ecologia profonda e dell’eco-fascismo un certo ritorno nel discorso pubblico, per quanto ancora relegato principalmente alla diffusione sui vari social network.

È il ritorno della vecchia comunità escludente ma questa volta a tinta verde. Una forma di ecologismo è da sempre presente nei movimenti di estrema destra: pensiamo al movimento völkisch nei paesi di lingua tedesca che fu un’importante base del nazionalsocialismo o, in anni più recenti a personaggi come Paul Watson, fondatore di Sea Sheperd, con il suo tentativo di spostare radicalmente a destra, alla fine degli anni ‘90, il Sierra Club, importante organizzazione ambientalista statunitense di cui era diventato tra i dirigenti, includendo la limitazione dei flussi migratori tra gli obbiettivi dell’organizzazione: una parte del Sierra Club, che si coagulò intorno alla carismatica figura di Watson, vedeva una stretta limitazione dei flussi migratori dai paesi della periferia del sistema-mondo verso il centro dello stesso come necessaria per una stabilizzazione demografica tesa alla conservazione ambientale.

Il tema del controllo delle nascite, non inteso come libera autodeterminazione degli individui ma come politica da imporre in modo autoritario sulla base delle necessità delle borghesie nazionali, è ben presente in buona parte delle rappresentazioni pubbliche del problema dell’iniqua distribuzione della ricchezza globale: il problema non sarebbe la natura predatoria del capitalismo e l’organizzazione gerarchica della società ma bensì sarebbe il fatto che le popolazioni dei paesi poveri fanno troppi figli. Spogliato dell’elemento dell’analisi di classe l’essere parte della grande massa degli esclusi diventa colpa e stigma di chi si trova trova spogliato delle risorse che vengono inserite nei mercati globali.

Intendiamoci: come anarchici abbiamo sempre avuto un occhio di riguardo verso il tema del controllo delle nascite ma intendendolo come possibilità di scelta individuale basata su un’analisi razionale della realtà, libera da vincoli ecclesiastici e morali di sorta. L’esatto contrario della rappresentazione autoritaria, poco importa se liberale, ecofascista o neoliberista in salsa cinese, del problema in cui lo stato deve farsi garante di una stabilizzazione della crescita demografica che deve rispondere ai fini della produzione di merce, ivi compresa la carne da cannone da immolare alle migliori sorti delle borghesie nazionali.

L’ambientalismo liberale come anche l’ecofascismo propriamente detto fanno invece a gara a scaricare come colpa sugli sfruttati l’impossibilità di controllare in modo razionale la crescita demografica.

Si potrebbe pensare che la diffusione delle teorie di stampo ecofascista sia una pura questione di chiacchere su reddit o su 4chan. Ma non è così: sia Crusius sia Trenton, autori rispettivamente degli attacchi terroristici di stampo suprematista bianco avvenuti a El-Paso e a Christchurch, nei loro manifesti politici fanno riferimento, nel caso di Trenton anche in modo esteso, al legame tra immigrazione e problemi ambientali.

Elementi di richiamo verso le teorie ecofasciste erano già presenti nel manifesto di Breivick, l’autore della strage di Utoya. A livello di elaborazione intellettuale più alto tali teorie sono ben radicate nel lavoro teorico di De Benoist, padre intellettuale della Nuova Destra.

L’idea della purezza razziale, della comunità di sangue, si lega direttamente con l’idea della purezza della Natura. Una concezione romantica del paesaggio che si unisce a una visione romantica del Volk. Il paesaggio è naturale e da origine a una comunità naturale, di sangue e di destino. Terra e Sangue: i due grandi topoi dell’estrema destra del ventesimo secolo. Il soldato politico del suprematismo bianco deve prendersi cura dell’ambiente naturale della sua comunità di sangue come un giardiniere si prende cura del giardino: gli immigrati, i diversi, gli estranei alla Tradizione, vanno eradicati così come si eradicano le specie nocive allogene.

La società però non è un giardino e un giardino non è una foresta. Un’idea di Natura con la N maiuscola, fissa e costante, eternizzata e legata indissolubilmente ad un Popolo e alle sue strutture politiche: queste sono le basi dell’ecofascismo e del comunitarismo escludente. Peccato che la Natura non esista, che sia un costrutto culturale decostruito oramai da decenni, che varia così come variano le condizioni di esistenza nei vari angoli del globo. Esistono gli ecosistemi, non la Natura. Sono gli ecosistemi che sono stati intaccati, alterati radicalmente, distrutti. Non da una qualche forza mistica che si oppone alla purezza ma dalle dinamiche proprie della messa a valore e della mercificazione dell’esistente.

La pandemia di Covid-19 ha tra le sue cause prime la distruzione degli ecosistemi, la compressione delle nicchie ecologiche, l’inurbamento forzato della popolazione nelle aree geografiche che la divisione internazionale del lavoro ha integrato forzosamente al suo interno, l’espansione dell’industria della carne organizzata in allevamenti intensivi, un’agroindustria legata a doppio filo alla finanziarizzazione, non tesa al soddisfacimento dei bisogni ma all’accumulazione del capitale. Non sono responsabilità del singolo sfruttato che compra un qualche bene di consumo, come vorrebbe una certa vulgata: è un prodotto specifico della struttura sociale in cui viviamo.

È tornata in qualche modo in auge la storiella che i disastri sarebbero la reazione della Natura ad un’umanità vista come parassita. La realtà è che tale storiella è, appunto, una storia buona per distribuire le responsabilità della crisi ambientale indistintamente su tutta un’umanità, eliminando con un colpo di spugna la differenza tra sfruttatori e sfruttati, tra chi decide e chi subisce le decisioni. Il consigliere di amministrazione dell’ENI, in questa fantasia apocalittica, è responsabile al pari del proletario che, orrore orrore, osa indulgere in qualche consumo ricreativo. La critica dei consumi sostituisce la critica della produzione di merce: si passa a un’individualizzazione della colpa elidente il carattere strutturale della devastazione degli ecosistemi.

La retorica della colpevolizzazione individuale propria del neoliberalismo ha il suo specchio nella retorica ecofascista che vuole il ritorno alla Terra. La critica reazionaria alla modernità, anche quando si traveste con un linguaggio che ricalca quello della critica radicale, non ha niente da offrire a chi vuole emanciparsi dal dominio. Chi decanta le gioie della vita naturale, del morire in accordo con presunti ritmi naturali, del chinare il capo davanti a culturalissime “leggi naturali”, non ha nulla da offrirci.

Il modello di gestione della pandemia adottato dai vari governi ci vorrebbe, per dirlo in modo spiccio, cornuti e mazziati. Gli agenti patogeni sono parte di un ecosistema e con le mutazioni di questo questi mutano. Alterazioni radicali e veloci degli ecosistemi portano a mutamenti radicali degli agenti patogeni. I salti di specie dei virus, l’emergere di batteri antibiotico-resistenti, sono conseguenza diretta dell’agroindustria: allevamenti intensivi con milioni di capi di bestiame, deforestazione incontrollata, inurbamento forzato.

Questi fattori non sono però dovuti a un qualche peccato insito nella “natura umana”, altra storiella essenzialista del cui peso dobbiamo liberarci quanto prima: sono insiti, invece, nella stessa struttura del modo di produzione vigente. L’attacco agli ecosistemi in nome della messa a valore dell’esistente si è, in questa occasione, congiunto con l’attacco alla salute individuale e collettiva in nome della messa a valore della stessa.

Le forze sociali che hanno spinto ad una privatizzazione e ad una finanziarizzazione di un bisogno come quello della salute sono le stesse che hanno spinto a un’espansione di allevamenti intensivi e relativi disboscamenti. In alcuni casi coincidono proprio come soggetti, come la Goldman-Sachs, società finanziaria che possiede quote di allevamenti intensivi in Cina come assicurazioni sanitarie e cliniche private negli USA. Siamo di fronte a una malattia che possiamo definire compiutamente come neoliberale nella sua origine e nella sua gestione.

Il problema, appare evidente, non è né qualche presunto peccato originale dell’umanità né l’esistenza di flussi migratori: ricordiamo che il Covid-19 è arrivato in Europa e USA in aereo, forse in business class, e non su di un barcone o nel doppiofondo di qualche TIR insieme alle masse di esclusi che provano ad entrare nel centro del sistema-mondo alla ricerca di condizioni di vita migliori, ma bensì la specifica organizzazione sociale in cui viviamo. L’abbraccio di ferro tra Stato e Capitale è stato ciò che ha reso possibile le condizioni che hanno dato vita a questo disastro.

Chi diffonde ordini del discorso basati sulla colpevolizzazione individuale, come ha fatto il governo italiano nelle ultime settimane, o sulla colpevolizzazione di segmenti sociali individuati come allogeni e portatori di malattie, come l’estrema destra e gli ecofascisti propriamente detti, altro non fa che nascondere le reali cause della catastrofe in corse.

Non è da escludere che una parte del discorso ecofascista possa essere integrato nella “narrazione dominante” di certi stati che dovranno gestire lo sfacelo da loro stessi creato. L’offrire un capro espiatorio in elementi individuati come estranei e portatori di malattie, fisiche e spirituali, tentare di costruire nuove forme di corporativismo per sostenere gli sforzi della ricostruzione economica, è una dinamica non nuova. La critica reazionaria alla modernità non può essere assunta nella sua interezza dalla classe dominante ma gli utili idioti che si vogliono soldati politici di un nuovo ordine che si rappresenta come antico sono spesso stati i benvenuti.

Il sovranismo, per quanto se preso nell’interezza della soluzioni che esso propone sia inadeguato a offrire un modello di gestione della complessità globale per le borghesie nazionali, ha già in parte svolto questa funzione con i suoi richiami all’ordine naturale, alla famiglia naturale, alla comunità naturale. L’ecofascismo propriamente detto è ben più radicale del sovranismo ma è un attrezzo che può venir comodo a chi tenta di riprodurre il proprio dominio. La storia difficilmente si ripete uguale a se stessa ma certi elementi permangono come invarianze fintanto che non si eradicheranno le cause ultime della loro esistenza.

lorcon

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Overdose di Stato

Articolo pubblicato su Umanità Nova numero 9 anno 100

[Ora d’aria. I detenuti parlano fra loro]

[Voce dall’altoparlante] “Attenzione! Attenzione! La partita di calcio non verrà trasmessa”

[Detenuto #1] “In nome del popolo italiano” [segue pernacchia collettiva dei detenuti]

[Secondino #1] “Rientrate tutti nelle celle”

[Detenuto #2] “Non date retta a quello. Ci spetta un’altra mezz’ora”

[I secondini chiudono la porta che collega le celle al cortile. Urla dei detenuti e proteste sempre più veementi di quest’ultimi. I secondini si appostano sulle mura che sovrastano il cortile]

[Detenuto #3] “Vogliamo giustizia. Non siamo bestie!”

[Secondino #2] “ma che c’entra tutto questo con la partita?”

[Detenuto #4] “pure questo c’entra. E tutte le altre promesse che non avete mantenuto.”

[Secondino #3] “Ignoranti!”

[Detenuto #5] “Ignorante sei tu che stai qui pe’ 80mila lire al mese! Schiavo! Schiavo!”

[Secondino #2] “E voi che ce fate qui avanzo de fogna?!”

[Detenuto #6] “Vogliamo mantenere le nostre famiglie e vogliamo qui il giudice di sorveglianza. Capito?! Il giudice!”

[Detenuto #7] “Perchè nun ce fate i laboratori co’ tutti i miliardi che ce fregano?!”

[Detenuto #8] “Basta con i processi che durano degli anni!”

[Detenuto #9] “Meglio la morte che sto carcere.”

[Maresciallo dei secondini] “Silenzio, rientrare nelle celle. Pazienza ne ho poca. Obbedire!”

[Coro di sfottò dei detenuti] “Duce! Duce! Duce! Duce! Duce! Duce! Duce!”

scena tratta da “L’istruttoria è chiusa: dimentichi”, regia di Damiano Damiani (1971)

Il carcere è sempre stato ritenuto un luogo di punizione dove mandare chi non si fosse adeguato o normalizzato alle leggi vigenti. Il concetto di “correzione” o “educazione” dell’individuo, introdotto nel corso del XIX e XX secolo, è stato un modo per dare una parvenza di “umanità” – che tanto rincuora quelle anime belle intrise di un pietismo cristiano che farebbero impallidire uno Stirner o un Nietzsche dei bei tempi andati -, e formare individui rieducati alla paura ed alle logiche dell’attuale assetto socio-economico.

La retorica della correzione e dell’umanizzazione delle carceri,” scrivevamo in “Carota e mercede”[1], non è altro che un tentativo squallido di nascondere lo sfruttamento e le violenze (fisiche ed economiche) verso i/le detenuti/e.”

Le strutture detentive presenti in Italia possono ospitare massimo 50mila unità. Stando quanto riportato dal Ministero della Giustizia [2], la popolazione carceraria si aggira intorno alle 61mila unità – 10mila in più della capienza che tutte queste strutture possono ospitare.

Anche se l’European Prison Observatory [3] riporta come il sovraffollamento coinvolga anche altri paesi europei come Francia, Ungheria e Romania [4], l’Italia e tutti i suoi governi hanno avuto sempre un atteggiamento di aperto e conclamato dispregio verso la popolazione carceraria.

L’ammassamento di esseri umani in una stanza – similare, oseremo affermare, a degli allevamenti di polli in batteria -, le condizioni igienico-sanitarie disastrate [5], le violenze delle guardie carcerarie [6] e lo sfruttamento economico all’interno delle strutture detentive [7] dimostrano oggettivamente come la punizione sia il punto cardine all’interno delle carceri italiane.

Cosa accade in una situazione del genere quando scoppia una pandemia

Da quando è cominciato a dilagare il Covid-19 in Italia, l’attuale governo ha emanato dapprima il D.L. n. 6 del 23 febbraio 2020 “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19”, per poi prendere ulteriori disposizioni sul contenere e gestire l’emergenza epidemiologica con un D.P.C.M. del 9 Marzo.

In una situazione di crisi del genere, i permessi premio e i contatti tra detenut* e parenti e avvocati sono stati normati attraverso l’articolo 2 comma 8 e 9 del D.L. n.11 dell’8 Marzo 2020, “Misure straordinarie ed urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attivita’ giudiziaria.

Tale norma è stata vista giustamente come un divieto e, da questo, si è scatenata la scintilla delle rivolte susseguitesi nei giorni successivi.

D’altra parte non si capisce come i familiari e avvocati nei colloqui possano essere veicoli di infezione mentre i secondini che fanno avanti e indietro dalla galera a casa loro no. [8] L’augusta idea del governo è stata quella di limitare ulteriormente le poche occasioni di contatto con l’esterno dei detenuti “per il loro bene” eliminando del tutto la possibilità di colloquio al posto di farli svolgere in condizioni di sicurezza.

Le richieste dei/delle detenut* e dei loro familiari, fin dal principio, sono state le seguenti: ripristino dei colloqui, libertà per i/le detenut* con bassi residui di pena, maggiore accesso alle cosiddette misure alternative, fine del sovraffollamento e miglioria delle condizioni igienico-sanitarie dentro le mura carcerarie.

La risposta dello Stato non si è fatta attendere. L’intervento massiccio e violento delle forze dell’ordine ha causato sedici morti tra i detenuti: nove al carcere Sant’Anna di Modena – dove i detenuti hanno saputo che un recluso era risultato positivo al COVID-19 e l’amministrazione non aveva adottato nessuna misura di tutela -, due al Carcere della Dozza di Bologna e quattro al Carcere di Rieti. Imponenti agitazioni si sono avute nelle galere di tutta la penisola.

Le morti sono state tutte raccontate dalle veline del governo come overdosi a seguito del saccheggio delle scorte di metadone e benzodiazepine nelle infermerie cadute in mano ai rivoltosi. Una sola morte, nel carcere di Modena, è stata imputata all’inalazione dei fumi a seguito di un incendio.

Lo Stato si è rifiutato, fino a questo momento, di divulgare le generalità dei morti, i risultati autoptici e i resoconti dettagliati dell’accaduto persino ai familiari, aggiungendo l’insulto al crimine e gettando nella più cupa disperazione centinaia di persone che non sanno quale destino sia occorso ai propri cari.

Abbiamo abbastanza elementi per poter ritenere che la versione delle morti da overdose sia tutta da verificare se non direttamente una pura e semplice menzogna che serve a coprire la violenta repressione attuata dagli organi dello Stato nei confronti dei rivoltosi:

– per andare in overdose di metadone è necessario assumerne dosi massicce. La popolazione carceraria, largamente composta da sopravvissut* della guerra alla droga – il paradigma legalitario della gestione delle tossicodipendenze in voga da decenni – sanno come gestire le sostanze, specie il metadone – regolarmente distribuita dai SERT e con cui, qualunque tossicodipendente da oppiacei, ha esperienza. Risulta difficile credere che nel momento della rivolta, più di una decina di detenuti decida di suicidarsi assumendo dosi massicce di metadone o sbagli a calcolare le dosi andando in overdose accidentale. È da tenere conto come il metadone sia una sostanza che può trarre in inganno e, come tutti gli oppiacei, fa sviluppare una tolleranza; per cui un consumatore abituale può assumere dosi che ad altri risulterebbero letali. Ma è quantomeno strano che nello stesso luogo e nello stesso posto, mentre accade una rivolta, una decina di persone occorra nella stessa disgrazia [9]

– se anche si fosse verificato questo – cosa che risulta ben poco verosimile -, rimane il fatto che quattro dei nove detenuti deceduti di Modena sono morti durante le fasi di trasferimento dal carcere di Sant’Anna verso altri istituti di pena a seguito della repressione della rivolta. L’overdose da oppiacei, anche di sintesi, agisce causando una depressione respiratoria; in alcuni casi può manifestarsi ad alcune ore di distanza, accompagnata anche da altri sintesi. È quindi legittimo ritenere che questi morti siano stati caricati già privi di coscienza o in stato palesemente alterato e in stato di depressione respiratoria sui pullman della polizia penitenziaria. Come minimo saremmo di fronte a una grave omissione di soccorso con persone visibilmente non in salute caricate per un trasferimento verso un altro carcere e non portate in ospedale;

– dalle immagini che circolano è evidente un massiccio uso di lacrimogeni da parte dei reparti antisommossa. I lacrimogeni caricati con il CS sono noti per la loro letalità in concentrazione elevate in ambienti scarsamente areati[10];

– la Polizia Penitenziaria dello Stato Italiano è nota per la sua strutturale brutalità nel gestire la quotidiana non-vita dei carceri.[6] È legittimo e doveroso pensare che gli agenti, grazie alla mancanza di testimoni e alla copertura politica del governo , abbiano pensato di poter agire impunemente e ferocemente nel reprimere le rivolte.

Nella migliore tradizione della storia patria, quanto è avvenuto ha subito un immediato tentativo di insabbiamento sulle responsabilità che vanno dai secondini fino alle più alte cariche istituzionali.

I governi e le principali testate giornalistiche e televisive del paese, al cui coro si sono aggiunte le varie testate telematiche che campano di likes e condivisioni sui social network, hanno volutamente costruito negli anni il clima perfetto per il diffondersi della pestilenza del populismo penale.

Una pestilenza in rapporto simbiotico con l’ordinamento capitalistico della società: la proletarizzazione crescente di intere masse di popolazione e la necessità di mettere in qualche modo a valore o comunque gestire quell’umanità eccedente ai “normali” meccanismi di estrazione del valore dal lavoro.

La gestione capitalistica carceraria

Il crollo del patto sociale socialdemocratico, crollo dovuto alle sue fallacie interne e al tentativo di risolvere le contraddizioni del capitale definendo una cornice di compatibilità sistemica più ampia rispetto a quella del liberalismo classico, ha portato all’esclusione dall’ambito della produzione di ampie parti della popolazione. Una parte di questa popolazione si è potuta riciclare nell’economia dei servizi, sempre più spesso caratterizzata da ampi caratteri di informalità – di cui la gig economy è l’esempio più rilevante – mentre un’altra parte, sopratutto quella razzializzata, si è trovata esclusa tout court. Questa è l’umanità in eccesso rispetto alle esigenze del capitale. Va in qualche modo gestita e il paradigma di gestione è quello del deposito: detenzione amministrativa per chi non ha le carte in regola, detenzione penale per chi è rimasto inviluppato nella tela del diritto penale, che sempre più spesso è diritto penale del nemico.

Inoltre il paradigma carcerario permette di costruire un’economia, e quindi mettere a valore, questi depositi di umanità eccedente: ai carceri è legato tutto un indotto. In alcuni paesi, anche europei, esistono carceri private o a gestione privata (in Italia questo avviene solo per i CPR che sono spesso gestiti da privati) dove la forza-lavoro detenuta è costretta a lavorare a bassi salari[11] per una pletora di associazioni più o meno a scopo di lucro che forniscono servizi “rieducativi” per il “reinserimento in società dei detenuti”.

Il populismo penale fondato sulla certezza della pena, secondini e sbarre per tutt*, è la narrazione pubblica che serve a giustificare queste esigenze economiche.

La gestione emergenziale di fenomeni sociali come la microcriminalità -spesso legata al paradigma proibizionista in vigore per quanto concerne certe sostanze -, il legame tra permesso di soggiorno e contratto lavorativo, il razzismo strutturale e la necessità per le classi dominanti di alimentare continuamente il paradigma bellico sono le basi della carcerazione di massa.

A questi fattori vanno aggiunte certe specificità dell’ordinamento penale italiano quali: il processo di primo grado che ha spesso caratteri inquisitori; i giudici che ragionano nell’ottica del “tanto poi ci pensano i gradi successivi di giudizio ad assolvere”; la possibilità di passaggio da magistratura inquirente a magistratura giudicante; l’alto costo dell’assistenza legale di qualità; l’abuso della detenzione in attesa di giudizio – oltre diciassettemila i detenuti non ancora condannati [12] – ; e la diminuzione del ricorso alle misure alternative.

Da qua la condizione di sovraffollamento delle patrie galere. Alcuni potrebbero sostenere che la soluzione è quella di costruire più galere e di renderle più vivibili, nell’ottica di quella “filantropia gesuitica” già denunciata da Kropotkin [13] e propria dell’utilitarismo anglosassone. Ma la soluzione non risiede nel migliorare le gabbie ma, bensì, smantellarle e smantellare le condizioni sociali della loro esistenza.

Sofia Bolten & lorcon

[1] Umanità Nova, 1 Luglio 2019

[2] Link: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?contentId=SST250612&previsiousPage=mg_1_14

[3] L’European Prison Observatory è un progetto coordinato dalla ONG italiana Antigone e sviluppato con il sostegno finanziario del Programma di giustizia penale dell’Unione europea. Attraverso questo progetto, vengono studiate e analizzate le condizioni dei sistemi penitenziari nazionali e i relativi sistemi di alternative alla detenzione, confrontando queste condizioni con le norme e gli standard internazionali pertinenti per la protezione dei diritti fondamentali dei detenuti.

[4] “Prisons in Europe.2019 Report on Europe an prisons and penitentiary systems”, pag. 6

Link: https://www.antigone.it/upload2/uploads/docs/Prisonsineurope2019.pdf#page=6

[5] Come riportato da Rosalba Altopiedi e Daniela Ronco in “Lo “sguardo competente’ delle relazioni delle Asl redatte ai sensi dell’art. 11 dell’Ordinamento penitenziario”, “nel 18% degli istituti visitati ci sono celle in cui non sono garantiti i tre metri quadri a persona; nel 7,2% degli istituti il riscaldamento non funziona; in un terzo degli istituti (33,7%) manca l’acqua calda nelle celle, mentre nella maggioranza delle celle (51,8%) continua a non esserci la doccia. Nel 4,8% degli istituti il wc non è in ambiente separato. […] Il numero settimanale di ore di presenza dei medici per 100 detenuti varia considerevolmente tra i vari istituti visitati, a conferma della grande disomogeneità dell’offerta del servizio sanitario tra regioni e tra territori di competenza delle singole Aziende Sanitarie. […] Ampia disomogeneità si registra anche rispetto alle ore di presenza di psicologi e psichiatri.[…]

Link: http://www.antigone.it/quindicesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/insalubri-la-salute-incarcerata-2/

[6] Gli ultimi esempi ufficiali sono quelli accaduti tra Settembre e Ottobre 2019 presso il Carcere di San Gimignano (Siena) e la Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino.

[7] Le aziende che assumono detenuti/e all’interno delle strutture penitenziarie ottengono un credito d’imposta per ogni “lavoratore” o “lavoratrice” assunto/a di 520 euro mensili; nel caso di detenut* semiliber*, il credito d’imposta per ogni lavoratore e lavoratrice assunt* è di 300 euro mensili.

Questo credito di imposta spetta “nei 18 mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo per i detenuti ed internati che hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro esterno; nei 24 mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo nel caso di detenuti ed internati che non hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro all’esterno.”

Link: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_3_4_4.wp

[8] Per esempio nel carcere di Sollicciano un agente penitenziario è risultato positivo al COVID-19. Vedasi “Covid-19, positivo un allievo guardia carceraria”, link: https://www.toscanamedianews.it/firenze-covid-19-positivo-tirocinante-guardia-carcere.htm

[9] si veda il sunto sulle informazioni scientifiche presenti in questo articolo: https://blog.sitd.it/2020/03/10/sugli-otto-decessi-carcere-overdose-metadone-forse-uno-eroina/ il resto dell’articolo nella ricostruzione dei fatti lascia molto a desiderare e adotta una prospettiva giustificazionista

[10] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/370336

[11] Si vedano gli articoli: “Carota o mercede” https://www.umanitanova.org/?p=10316 e “Questione carceraria e lotta di classe” https://umanitanova.org/?p=7946

[12] Link: http://wp.unil.ch/space/files/2020/02/SPACE-II_report_2018_Final_200212_rev.pdf

[13] “La prigione”, scriveva Kropotkin in “Prisons and Their Moral Influence on Prisoners, “non previene il verificarsi di comportamenti antisociali. Anzi, ne aumenta il numero. Non migliora chi entra tra le sue mura. Per quanto possa essere perfezionata, rimarrà sempre un luogo di reclusione, un ambiente artificiale, simile a un monastero, che non farà altro che ridurre sempre più la capacità del detenuto di conformarsi alla vita di comunità. Essa non serve ai propri scopi. Degrada la società. Deve sparire. È un residuo di epoche barbare mescolato a filantropia gesuitica. Il primo compito della rivoluzione sarà quello di abolire le prigioni, questi monumenti alla ipocrisia e alla viltà degli uomini.”

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Trovare una cura per il corpo sociale o per l’economia? Il rebus ai tempi delle pandemie

Il seguente articolo è stato scritto dal sottoscritto e da JR e pubblicato su uenne n. 8 anno 100

Il sistema socio-economico nel quale siamo immersi, da occidente sta fagocitando ogni altra forma di strutturazione della società, imponendo una visione monodimensionale dell’esistenza, quella del mercato. questo processo che potremmo tranquillamente definire “l’occidentalizzazione del mondo” anche se in una accezione assai più complessa di quanto immaginato da Latouche.[1] È la complessità in sé che qui analizzeremo, l’estrema complessità che rende fragile e delicato il sistema sorretto dall’ideologia neoliberista e reso pulsante dalle infrastrutture del processo di integrazione globale. Complessità estrema che decreterebbe il collasso del sistema se questo non fosse in grado di rigenerarsi, cannibalizzando parti di sé stesso. Questa visione truce, quasi un misto tra una creatura da girone dantesco ed un mito arcaico, è invece quanto di più attuale e reale possa esserci, anzi è forse l’unica realtà autentica che abbiamo d’innanzi. In queste righe cercheremo di fornire una analisi essenziale non tanto della pandemia da coronavirus in sé e per sé, volta invece a capire in quale contesto essa si stia evolvendo, descriveremo cioè in quale complessità essa stia esplodendo e le condizioni nelle quali versa il corpo sociale nel quale questa pandemia sta facendo il suo corso.

La questione quindi va al di là della pericolosità o meno del virus: non ci sbilanceremo a soppesare cifre e statistiche per verificarne o confutarne la letalità. Quello che qui si vuol indagare sono i meccanismi di difesa che i vari governi stanno impiegando (le più disparate misure difensive senza molte strategie comuni) che giocoforza si scontrano con la complessità del sistema socio economico. Si va dal blocco totale e dall’obbligo di dimora per la Cina, alle serrate degli aeroporti per i probabili infetti nel resto del mondo, alle serrate a macchia di leopardo in Europa. Un mese di protocolli antivirus hanno piegato l’economia finanziaria di mezzo continente asiatico che ha trascinato con se il resto delle piazze di scambio azionario: le ultime due settimane di panico europeo hanno assestato un’altra sonora bastonata alle borse che non hanno fatto altro che andare giù ad una media di quasi il -3% giornaliero.

Cosa succede? Succede che queste misure di sicurezza (giuste o sbagliate che siano) stanno dimostrando come l’intero sistema possa entrare in crisi in pochissimi giorni. Se pensiamo alla grande depressione americana, ci sono voluti quasi dieci anni per arrivare al venerdì nero del ’29, oggi basta invece il blocco di una regione come la Cina per meno di un mese e comincia ad entrare in crisi un settore che sta all’altro capo del mondo. Ciò è essenzialmente dovuto a due elementi strutturali del sistema economico globale: da un lato le connessioni e le relazioni complesse che formano il network globale, dall’altro il principio economico che le governa, la competitività (per semplicità e per contenere l lunghezza dell’articolo condenseremo in questi due concetti tutto il succo della teoria neoliberista).

L’uno è funzionale all’altro, una rete infrastrutturale efficiente abbatte i costi di trasporto e rende economicamente vantaggioso delocalizzare la produzione, ciò però non basta. Per essere competitivi bisogna abbattere tutti gli altri costi, il lavoro diventa super flessibile, ossia precario: ti assumo e ti licenzio come e quando voglio con contratti senza garanzie, ma non basta ancora. Altri costi da tagliare, con l’efficientamento e la robotizzazione: via gli “sprechi”, via i magazzini, non servono, ingombrano e costano troppo, andiamo col just-in-time; rapido, economico e flessibile.

Una macchina da corsa agile e scattante, ma che per guadagnare in velocità non ha dispositivi di protezione o ruota di scorta. Siamo inciampati su una bestiola piccolissima, più microscopica di un granello di polvere che ha inceppato il meccanismo. Ma da sola questa spiegazione non basta, il sistema non è solo delicato ma è anche in equilibrio instabile, in perenne recessione ed è in terapia intensiva dal 2008, in perenne rallentamento, e per mantenere questo minimo di abbrivio ha cominciato ad autodigerirsi, ha fatto fuori tutte le “spese inutili”, eroso il welfare, mandato in soffitta ogni simulacro di patto sociale welfaristico, abbandonato le strategie di sviluppo programmato e trasferito sempre più fondi a garanzia dei mercati finanziari: in pratica abbiamo infilato la testa nel cappio ed abbiamo cominciato a dondolare sullo sgabello…

Le procedure d’emergenza per arginare la pandemia si incardinano in una situazione già assolutamente instabile, agendo su un corpo sociale sfinito, impaurito e per questo aggressivo. Agendo su un sistema economico in crisi e su un sistema di servizi martoriati da tagli e clientelismi furfanteschi, le misure per circoscrivere la possibile pandemia stanno finendo per mettere la famosa toppa peggiore dello strappo. Passata la pandemia avremo il corpo sociale in agonia, disgregato e impoverito, con tutta probabilità saremo più indebitati di prima e con molte meno speranze nel miracolo europeo (quale?). Ma non è tutto, il rancore sociale non lo spazzerà via il morbo o lo filtreranno le mascherine: questo rimarrà nell’aria appestando peggio del virus, spalancando le porte al peggior pensiero reazionario.

Un popolo furibondo fiaccato e impaurito che cerca come una belva affamata qualcuno con cui prendersela. Un rancore fomentato dall’informazione farcita di casi umani, narrazioni apocalittiche, tecnici improvvisati o “esperti e luminari” che non appaiono mai nelle riviste in cui ci si attenderebbe di trovarli. Ma dal momento che per quanto rancoroso e iracondo il popolo difficilmente se la prende col nemico giusto, andrà a stanare gli ultimi degli ultimi o troverà un colpevole oltre confine, l’odiata gente teutonica, i cugini mangiarane, i detestati mangiariso, quelli che arrivano su un barcone o nel doppiofondo di un tir. Difficilmente alzerà lo sguardo per trovare il giusto colpevole.

Fuori dalla narrazione altisonante dal sapore antico, la realtà è assai più becera dell’immaginazione; le azioni funamboliche di governi sempre più proni ai mercati e sempre più sordi ai rantoli della società in agonia, cercano di tamponare una situazione disperata. Un interrogativo impossibile: curare il corpo sociale o salvaguardare l’economia che ha condotto la società ad uno stato di coma?

Spesso si sente dire che nelle crisi si possono intravedere delle opportunità di cambiamento – sarebbe quindi il caso di ragionare e non farsi prendere dal panico. Occorre capire che la propagazione della pandemia è inevitabile in un mondo globalizzato; che per fortuna a diffondersi non è un qualcosa di letale come una nube radioattiva ma un qualcosa di controllabile, capire inoltre che c’è una stretta connessione tra la propagazione e lo stile di vita che abbiamo abbracciato.

La delocalizzazione produttiva porta con se la necessità di spostamenti per varie ragioni e lo spostarsi è diventato un business di per sé, se questo si blocca comincia ad incidere su altri pezzi di produzione, i quali innescano crisi locali che si trasferiscono ad altre catene produttive in una sorta di fibrillazione cardiaca che corre in lungo e in largo per il globo. Queste sono le conseguenze di un mondo in accelerazione costante, in perenne connessione e in perenne mutamento, fluido flessibile dinamico ma incommensurabilmente sensibile.

Partire quindi da queste crisi per ripensare non soltanto al fatto di essere all’interno di questa follia ma al senso che questo sistema da all’esistenza umana. Il momento di crisi come un ripensamento dei paradigmi esistenziali dell’esserci qui ed ora come elementi funzionali ad un sistema, sacrificabili in nome di un’entità astratta dietro cui si celano interessi concreti. Ripensare quindi a forme di conflitto che partano dalle evidenze che crisi come queste mettono in luce, innescare una contronarrazione di entità quali lo Stato e similari, i quali dimostrano, nella loro compagine burocratica, di non avere reali dubbi circa le scelte da prendere, se salvare la prospettiva esistenziale della società o gli strumenti di annichilimento sociale dei mercati globali.

Il modello di gestione della crisi adottato dallo stato italiano prevede lo scarico dei costi di essa sulle spalle dei singoli individui, nella speranza che le reti di welfare familiare, ancora una volta, reggano. Vengono vietati gli assembramenti per manifestazioni politiche e culturali ma vengono sostanzialmente lasciati aperti i luoghi di produzione e di consumo. Come se il COVID-19 si trasmettesse solo in cortei e concerti ma non nelle mense aziendali, negli uffici, sugli affollati mezzi di trasporto per pendolari, nei reparti delle aziende, negli ipermercati.

I lavoratori del settore dei servizi di ristorazione e dei servizi culturali, che sono stati tra i più esposti alla precarizzazione, vengono man mano lasciati a casa dal lavoro ed agli arguti governanti non passa nemmeno per la testa di introdurre delle misure di sostegno al reddito, attive, tramite elargizione diretta di ammortizzatori sociali in sostegno del reddito, o passive, tramite il blocco di bollette e fitti. Il blocco della didattica va a colpire tutti quei lavoratori tramite cooperativa dei settori educativi, tenuti fuori da contratti stabili grazie l’esternalizzazione di questi servizi avvenuta negli ultimi decenni, e, anche qua, non ci si pone il problema di come questi potranno arrivare a fine mese.

Le aziende improvvisamente scoprono lo smartworking per i lavoratori cognitivi ma ne fanno ricadere i costi di implementazione sui lavoratori stessi, in barba ad una normativa che prevederebbe accordi sindacali e individuali, costo dei dispositivi digitali e connessioni telematiche a carico all’azienda: in nome dell’emergenza si implementa il telelavoro facendone pagare i costi ovviamente solo ai lavoratori. Non hai il computer a casa? Compratelo. Non hai una connessione internet decente? Utilizza il tuo cellulare come hot-spot, a spese tue.

Le patrie galere sono, oltre che schifose per il semplice fatto di esistere, da sempre sovraffollate, grazie alle politiche di war on drugs ed all’infame gestione dei flussi migratori, con standard igienico-sanitari pessimi, dove una percentuale non indifferente di detenuti è afflitta da malattie croniche. Davanti a tutto questo la logica imporrebbe immediate misure che abbattano i tempi della detenzione preventiva, spesso abusata da pubblici ministeri alla ricerca di notorietà come sceriffi, accesso facilitato ai domiciliari e misure alternative di sorta, chiusura dei CPR. Ma il paradigma del populismo penale impedisce anche l’adozione di misure come quelle sopra elencate che di certo non sono rivoluzionarie. Come risultato si preferisce tenere pericolose situazioni di sovraffollamento, in attesa di avere interi bracci carcerari trasformarsi in lazzareti. Ma tanto, si dirà, quelli sono corpi che non contano. Vuoti a perdere, popolazione in surplus, se muoiono sarà come un’accidente che guasta la merce in un magazzino.

Il sistema sanitario è stato massacrato da decenni di tagli: vi è una cronica mancanza di personale e di strutture, ed in Italia va ancora bene rispetto ad altri paesi del centro del sistema-mondo a dirla tutta. Già normalmente capita che i ricoveri in pronto soccorso, anche per condizioni gravi, durino dei giorni perché i reparti sono pieni. Figuriamoci con una pandemia che impone il ricorso alla terapia intensiva per una percentuale relativamente alta di malati cosa può succedere. Improvvisamente si scopre che mancano posti in terapia intensiva. Chi finisce in quarantena rimane isolato in casa senza che le aziende sanitarie pubbliche si premurino di fornire alimenti e beni di prima necessità.

L’irrazionalità del sistema capitalistico ancora una volta si dimostra incapace di gestire le emergenze, di pianificare in anticipo, di avere una visione complessiva che ponga al centro i bisogni umani e non le esigenze dell’accumulazione di capitale. Ieri era Seveso, oggi è il Coronavirus.

NOTE

[1] Serge Latouche, L’Occidentalizzazione del Mondo, traduzione di Alfredo Salsano, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, pp. 159, ISBN 88-339-0655-8.

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Mare Nostrum, para bellum! – Strategicità del Mediterraneo ed economia militarizzata

Il seguente articolo, mio e del compagno JR, è stato pubblicato sul numero 5 anno 100 di Umanità Nova.

Questo articolo si inserisce in un quadro di analisi geopolitica fin qui condotta in una serie di articoli, aventi come soggetto le mire espansioniste della Turchia, tanto nel discorso di ampliamento nei Balcani e verso Cipro,[1] quanto nelle ambiziose aspirazioni verso le zone a sud del Mediterraneo.[2] Partendo quindi dalle “esigenze” espansioniste di un singolo Stato, si vuole qui cominciare una disamina più organica dei sommovimenti degli ultimi tre lustri, per comprendere la situazione attuale nella sua complessità e fornire una lettura dei futuri scenari che si apprestano a ridisegnare gli equilibri di un’area geografica sulla quale si riversano le aspettative di tre continenti. Che il Mediterraneo stia riacquistando una centralità strategica tanto per il commercio quanto per il rafforzamento delle infrastrutture, spina dorsale e tessuto connettivo del processo di integrazione globale, è un punto sul quale è difficile non concordare. Che questo interesse si estrinsechi con accordi commerciali “supportati” da una crescente presenza militare, che a vario titolo affolla ogni giorno di più tanto le sponde quanto le acque di un mare di anno in anno sempre più ambito, non è neanche esso un gran mistero per nessuno. I soggetti pronti a contendersi lo sfruttamento della logistica e delle catene estrattive non solo sono in numero sempre maggiore, ma si fanno sempre più agguerriti. Alcuni di essi sono scossi, o lo sono stati nel recente passato, da forti conflitti interni che hanno ridisegnato l’assetto e l’equilibrio geopolitico della zona sud est dell’intero Mare Nostrum. Altri dopo alcuni scossoni, tipo le primavere arabe, hanno visto un incremento della loro produzione indotta da investimenti in settori strategici e capitali esteri; miracoli delle rivolte! I paesi facenti parte dell’area denominata MENA (Medio-Oriente e Nord-Africa) soprattutto Marocco, Egitto, Turchia, Tunisia e Cipro, hanno accelerato la loro produzione in campo chimico, automotive, energia e ICT (innovative communication technology),[3] diventando esportatori da e per il continente europeo. Salvo il Marocco e Cipro, le altre nazioni debbono buona parte della loro attuale condizione all’uso delle forze armate, vuoi per essere di fatto repubbliche militari (Egitto), vuoi per essere paesi aggressivi nei quali l’apporto delle forze armate è decisivo nell’equilibrio interno oltre che tattico per le mire espansioniste (Turchia), vuoi per avere di fatto i militari all’interno dei partiti (Tunisia).

Tralasciando per ora il discorso delle forze armate europee e NATO (ci torneremo con un articolo dedicato vista la loro complessità incomprimibile in queste righe), restano in ballo alcuni soggetti che pur non affacciandosi direttamente sul Mediterraneo hanno comunque molti interessi in quest’area. Il primo soggetto è la Cina, che alla voracità per gli approdi associa una certa propensione al rafforzamento della sua dotazione militare, soprattutto in termini di naviglio. Attraverso la China Ocean Shipping Company, (COSCO) la Repubblica popolare cinese sta facendo man bassa di attracchi in giro per il mediterraneo, sia acquisendo quote partecipative, sia acquistando per intero Hubs strategici. Attualmente la COSCO possiede o controlla oltre al Pireo (100% Cosco), Valencia (51% Cosco), Vado Ligure (40% Cosco), Bilbao (40% Cosco),[4] senza contare i recenti accordi con Trieste. Ciò trova una sua ratio nel raddoppio del canale di Suez, facente parte della strategia della Belt Road Initiative (BRI), anche nota come nuova Via della Seta. Questa nuova condizione fa del mediterraneo la nuova porta per il commercio e i mercati occidentali, nuove infrastrutture che avranno bisogno di spazi fisici o aree giurisdizionali su cui snodarsi. Ma questa non è che una parte del processo in atto, difatti la Cina non è il solo soggetto interessato a poter liberamente agire sul e nel mediterraneo. Troviamo ora la Russia che attraverso una serie di azioni predatorie sta estendendo la sua influenza nell’area Sud-Est dell’area mediterranea. La Russia arriva in quelle acque passando dal Bosforo, grazie al colpo di mano che le ha garantito l’ annessione della Crimea con il relativo porto di Sebastianopoli (2014) e il successivo rafforzamento del porto di Tartus in Syria, storicamente una base logistica dei tempi del patto di Varsavia. Guadagnando posizioni strategiche in posti chiave, come le porte del Medioriente e il corridoio tra la Libia e la Turchia, proponendosi come venditore di tecnologia militare (terrestre, aerea e navale) e godendo di una eredità storica di commercio e relazioni con Medioriente e con il Nord-Africa, la Russia pur non intervenendo direttamente nella mischia gioca un ruolo di primo piano. Marocco, Egitto e Algeria annoverano nelle loro flotte alcuni sottomarini di fabbricazione russa,[5] così come la Turchia annovera tra i suoi armamenti tecnologia russa per quanto riguarda i sistemi antimissile. La Russia non si limita a piazzarsi in posti strategici e a mercanteggiare in armamenti, ma, forte della sua possibilità di transitare nel Mediterraneo, tra il 2013 e il 2015 ha avviato una serie di esercitazioni nelle quali ha dispiegato il grosso della sua flotta (compresa quella del Baltico). Nel 2015 le esercitazioni furono programmate in forma congiunta con la marina cinese, sotto il nome di “Mare Unito”, queste operazioni assunsero la forma di una ufficializzazione della presenza della marina russa nell’area sud-Orientale del Mediterraneo, ma lanciarono anche un altro forte segnale, ossia quello di un “asse di riequilibrio” russo-cinese, in risposta alle alleanze nippo-statunitensi. Lo stesso posizionamento che la Federazione Russa è riuscita a crearsi in Medioriente pone il paese nelle condizioni di doversi affacciare nel Mediterraneo. La Russia ha una fitta rete di rapporti diplomatici con tutti i paesi dell’area, ha avuto la capacità di intessere profondi rapporti con Israele come con la Siria, con l’Iran come con la Turchia. In Siria si pone come forza esterna necessaria per un qualsiasi accordo di pace che possa andare oltre a una tregua di pochi giorni. Questa capacità è stata costruita sia tramite azioni di soft-power, accordi commerciali, scambio di favori e informazioni tra agenzie di intelligence, sia dimostrando una capacità di proiezione militare in Siria, migliaia di uomini e mezzi aeronavali e terrestri schierati nel giro di pochi giorni, che hanno sancito il ritorno in grande stile di Mosca nella regione e l’affermarsi come potenza con ambizioni globali, in grado di sostituire gli USA, che oramai considerano il Medioriente come un pantano da cui sottrarsi. Gli interessi Russi nel Mediterraneo sono strettamente collegati ai meccanismi della rendita petrolifera. La Russia è uno dei maggiori produttori globali di idrocarburi e anela a una maggiore penetrazione nel mercato Europeo. Il corridoio est/ovest a Nord, quello che passa dai paesi Baltici verso Germania e Francia, e a sud verso l’Italia, ovvero i principali paesi manifatturieri d’Europa, è difficilmente percorribile dato lo strettissimo legame tra i paesi baltici e gli Stati Uniti, legame rinsaldato dalla rapida integrazione di questi nell’Alleanza Atlantica e dalla virulenta retorica revanscista e anti russa messa in campo dai governi dell’area. Diventa fondamentale, a questo punto, l’utilizzo dei corridoi balcanici e meridionali, per esportare la materia prima da un paese con forti capacità estrattive e produttive ma con scarso mercato interno verso l’Europa, che ha una sete insaziabile di idrocarburi, nonostante l’annunciata Green Economy. Da questa descrizione portata avanti solo per accenni, si evince come i conflitti economici necessitano del supporto militare, ma non nei termini di uno mero strumento aggressivo, questa è una lettura che seppur calzante non restituisce la complessità del funzionamento della riproduzione del capitale in questa fase storica. Nella fase di stagnazione economica e dei redditi medi in caduta libera, quando anche il mattone non svolge più la sua storica funzione di volano e quando infine il debito per il welfare, “viene fatto pesare di più” rispetto agli investimenti in tecnologia bellica, pur rappresentando una spesa dieci volte inferiore, allora si comincia a guardare alla macchina militare come al nuovo volano globale dell’economia. Un volano un po’ strano in quanto risucchia energie anche (soprattutto) nelle fasi passive, ma sembra che l’indebitamento per le spese militari sia un debito che forse impensierisce assai meno, come fu per la Grecia “invitata” ad acquistare sottomarini Poseidon, carri armati Leopard 2A6 Hel, missili Stinger e i caccia F-15. Prodotti da Krauss-Maffei Wegmann, casa Tedesca. Il Fondo Monetario Internazionale all’epoca fece eco alle richieste di Junker di non tagliare le spese militari. Sono questi gli episodi che rivelano gli interessi dietro, e spesso al cuore dei conflitti. L’imperare di conflitti funzionali alla stabilizzazione o alla destabilizzazione di aree strategiche ha sempre un codazzo di aziende e partecipate di varia natura, pronte ad accelerare la produzione. Un tempo si discuteva su come spartirsi la ricostruzione delle aree devastate, oggi si preferisce il conflitto permanente fintanto che non sia chiarito come spartirsi il territorio, la Siria ne è un esempio classico. Il problema si pone nelle macro-aree come la zona Sud-Est del Mediterraneo, con tanti interessi in contrasto permanente è difficile capire quali saranno gli sviluppi già da qui ad un anno. Gli approdi della Belt and Road Initiative, il transito dei gasdotti, le rotte commerciali, la concorrenza Nord-Africana eccetera, nel momento in cui la situazione non trova un equilibrio, il che appare abbastanza difficile, – visto e considerato che dal 2012 al 2018, sono state attuate 381 misure protezioniste,[6] di cui circa la metà fra paesi che affacciano sul bacino stesso- l’opzione militare sembrerebbe la carta che queste menti gloriose sanno mettere in campo per non rallentare i flussi di capitale e salvare un sistema in crisi permanente.

Gli ultimi quindici anni hanno rimarcato la centralità del Mediterraneo, ma soprattutto che una delle aree più ricche del mondo, l’Europa -estrema propaggine occidentale del continente euroasiatico-, non può sostenersi solamente sui traffici atlantici. L’emergere delle economie dei paesi nord-africani che si affacciano sul bacino mediterraneo che vanno integrate nell’economia europea, il ruolo acquisito da Russia e Turchia, il disimpegno statunitense dal Levante per concentrarsi sullo scenario del Pacifico, e in prospettiva Artico, hanno cambiato le carte in tavola rispetto agli anni novanta. La guerra e la politica sono in un rapporto post-clausewitziano: se per il grande teorico militare prussiano, imbevuto di idealismo Hegeliano, la guerra era continuazione della politica con altri mezzi, grande duello tra stati organici, ma pur sempre sottomessa agli obiettivi politici che venivano determinati da chi deteneva la sovranità, oggi assistiamo a una sempre maggiore integrazione tra l’ambito della politica e del militare. Non è un processo nuovo, anzi, affonda in profondità le sue radici nel novecento, ma oggi si rinverdisce: il militare diventa volano dell’economia e della ricerca, sia di base che applicativa, uomini con formazione militare passano senza soluzione di continuità dalle forze armate alla Pubblica Amministrazione o al management privato – non è un caso che aziende come Amazon ricerchino personale con esperienza nella sussitenza militare per gestire i propri centri logistici – si lega saldamente con le grandi aziende parastatali, emblematico è il caso dell’ENI. Supera in capacità di previsione e di determinazione degli obiettivi di lungo periodo gli stessi governi: emblematico è la critica rivolta dallo stato profondo italiano, ENI e militari, ai governi, felpati o in grisaglia, che si sono mostrati incapaci di gestire con fermezza la crisi libica. La stessa gestione dei flussi migratori, che ha alla sua base la determinazione a non aprire canali di migrazione accessibili, viene demandata a missioni militari, sul confine marittimo, come l’operazione Mare Nostrum, come in profondità nel continente africano, con missioni in Niger. Per uscire dal teatro mediterraneo non si può dimenticare come lo strumento militare sia, tanto nella storia quanto l giorno d’oggi, strumento principe per rendere sicure le rotte commerciali. Missioni come quelle antipirateria, che hanno coinvolto un’area marittima estesa dalle coste somale fino a quelle indiane, come ben sanno i pescatori indiani finiti mitragliati della marina italiana, con il loro corollario di morti mostrano come per tenere attivi i flussi logistici alla base delle Global Value Chains (GVCs) l’opzione militare non sia affatto secondaria. Come non lo è nella corsa all’accaparramento delle materie prime, come ben dimostrano vicende come quella del golfo del Niger dove la rendita petrolifera delle grandi aziende energetiche mondiali è garantita manu militari dal genocidio degli Ogoni da parte dell’esercito nigeriano. Si può anche fingere di dimenticare la guerra ma la guerra – difficilmente – si dimentica di noi.

[1] “Quanto resta della note?”, Lorcon, UN, anno 99, https://www.umanitanova.org/?p=10840

[2] “La Turchia nella situazione geopolitica dell’area del mediterraneo”, JR, Lorcon, UN, anno 100 n° 2

[3] COFACE, “Le nuove rotte commerciali del mediterraneo passeranno dal sud e dall’est della regione”shttps://www.coface.it/News-Pubblicazioni/News-sul-mondo-Coface-Coface/Le-nuove-rotte-commerciali-del-Mediterraneo-passeranno-dal-Sud-e-dall-Est-della-regione

[4]Startmag, “tutti i dettagli sulla presenza cinese nel Mediterraneo”, https://www.startmag.it/mondo/tutti-i-porti-cinesi-nel-mar-mediterraneo-e-altre- storie/

[5]CASD, IM, CeMiSS, “Strategia marittima ed interessi nazionali: rinnovata presenza militare e penetrazione economica della Federazione Russa in Mar Mediterraneo e nel Mar Nero” https://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/DocumentiVis/Rcerche_da_pubblicare/pubblicate_nel_2018/Ricerca_AM_SMD_02.pdf

[6]Ibd. COFACE.

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