Energia e rivoluzione industriale

Il seguente articolo è stato pubblicato su Umanità Nova numero 20 anno 96

Energia e rivoluzione industriale10341684_10152220982138218_6785141664726746815_n

Con questo mio articolo voglio riprendere l’interessante riflessione sull’energia avviata da Marco Tafel con il suo articolo “Quanta? Quale?”: la questione della dipendenza energetica e di come questa sia legata all’organizzazione della società. Una storia poco scritta della contemporaneità è quella della storia delle infrastrutture energetiche. La prima rivoluzione industriale, quella dei motori a vapore, si fondò sulla disponibilità di carbone e iniziò un ciclo a feedback positivo in cui la maggiore disponibilità di combustibile permetteva di estrarne ancora maggiormente: una delle prime grandi applicazioni del motore a vapore fu l’azionamento delle pompe che permettevano di tenere asciutte le miniere di carbone. Da lì il passo alla primitiva meccanizzazione dell’estrazione, con i montacarichi azionati a vapore, e del trasporto con le prime locomotive, fu breve. Insomma: maggiore era la quantità di carbone estratto e maggiore diventava la velocità di estrazione di altro combustibile. Questo feedback positivo si interruppe solo nella tarda seconda metà del ventesimo secolo, con l’esaurimento delle maggiori vene carbonifere in Europa occidentale o con la completa sostituzione con un combustibile più economico: il petrolio. Allo stesso modo la seconda rivoluzione industriale, quella del motore elettrico, maggiormente performante a parità di combustibile immesso e con minori costi di mantenimento e costruzione rispetto a quello a vapore, è stata potenziata dalla messa a valore del petrolio e dei suoi derivati, che hanno un potere calorifico maggiore rispetto al carbone.

11008052_1068777023136278_6160242365124724365_nMa i giacimenti di petrolio sfruttabili, così come quelli di gas naturale, sono meno diffusi rispetto a quelli di carbone e questo ha portato ad una crescente necessità di infrastrutture: gas/oleodotti, navi petroliere e gasiere. Parliamo di infrastrutture molto più complesse rispetto a quelle richieste dal carbone e con maggiori implicazioni geopolitiche: basti pensare che il famigerato accordo Sykes-Picot è basato sulla necessità da parte di Regno Unito e Repubblica Francese di garantirsi linee logistiche sicure per il rifornimento delle coste del mediterraneo con il petrolio estratto in Siria e Iraq da importare poi nei rispettivi paesi[1]. Per quanto il famoso aneddoto del righello sulla carta geografica ben rispecchi la concezione coloniale, quel righello era mosso e impostato dalla necessità di controllare una delle commodities più importanti al mondo. Allo stesso modo grande fu l’importanza delle linee logistiche per il rifornimento energetico durante la seconda guerra mondiale: cosa sarebbe successo se la Germania hitleriana al posto di lanciarsi nell’attacco all’URSS si fosse lanciata nell’assalto alle zone ricche di giacimenti di petrolio in Mesopotamia? E cosa sarebbe successo se al posto di impantanare l’armata di Paulus a Stalingrado lo stato maggiore tedesco l’avesse utilizzata per prendere il controllo del Caucaso russo? Nel secondo conflitto mondiale l’importanza della logistica energetica diventa uno dei punti focali del conflitto. La guerra totale impone linee logistiche estremamente lunghe, con tutti i problemi che nella scienza militare questo comporta, e necessità di energia.

Questi grossi interrogativi strategici furono alla base delle tre guerre mediorientali avvenute in parallelo alla seconda guerra mondiale: la Gran Bretagna, per mettere in sicurezza le fonti primarie di petrolio prima e per garantire una via di rifornimento all’URSS in caso di crollo sul fronte caucasico dopo, prima occupò repentinamente la Siria formalmente governata da Vichy, poi invase l’Iraq da poco indipendente e il regno di Persia, che in quel momento avevano governi a cui l’Asse non dispiaceva affatto, che ventilavano seriamente il blocco della fornitura petrolifera alla Gran Bretagna e la chiusura del corridoio verso i territori sovietici. L’URSS, confinando direttamente con quei territori, partecipò direttamente alle operazioni militari che ebbero come conseguenza l’occupazione inglese di Teheran, l’abdicazione dello Scia Reza Pahlavi in favore del figlio Mohammed e la blindatura della fornitura energetica attraverso la costituzione della Anglo-Iranian Oil Company. Contemporaneamente il presidente Roosevelt e il re dell’Arabia Saudita firmavano personalmente il primo accordo che garantiva una sicura fornitura petrolifera agli USA da parte del regno wahabbita.
Tornando alla più stretta contemporaneità si pensi al peso delle scelte legate agli oleodotti North e South Stream per gli assetti geopolitici di tutta l’Europa e del Mediterraneo.

Il controllo delle linee logistiche dei combustibili fossili sono di pari importanza rispetto al controllo dei giacimenti stessi.

Normalized_Rorschach_blot_10La terza rivoluzione industriale, quella basata sulla telematica e sull’informatizzazione dei processi produttivi, ha poi ulteriormente acuito la necessità di energia. Il processo di decolonizzazione dei decenni immediatamente precedenti ha inoltre intaccato la capacità degli stati maggiormente industrializzati di controllare estrazione e linee di rifornimento dell’energia: questa è, a mio parere, la ragione principale della corsa al nucleare per scopi civili a partire dagli anni cinquanta e sessanta, ulteriormente acuita dopo i due shock petroliferi del ’72 e del ’79[2]. Non che l’uranio venga dal nulla ma un conto sono le risorse da investire per controllare un’area con miniere da cui estrarre uranio da importare in quantità relativamente discrete e un conto è controllare non solo le aree da cui estrarre combustibili fossili da importare costantemente ma anche i gas/oleodotti da tenere in sicurezza necessari per garantire il costante rifornimento. Certo, esistono le riserve strategiche, i depositi di combustibile fossile più o meno lavorato che ogni stato mantiene sul proprio territorio, ma queste riserve sono bastanti per pochi mesi. È facile capire come questo insieme di infrastrutture necessarie per l’uso delle risorse fossili sia estremamente fragile, si estende e ramifica per migliaia di kilometri, e aumenti la vulnerabilità dell’importatore finale.

Basti pensare al famoso shock petrolifero degli anni settanta o a quello che sta succedendo nell’ultimo anno con il prezzo del greggio tenuto al minimo; per altro ci sarebbe da fare un’ulteriore riflessione di come il prezzo del petrolio possa rimanere basso, anche nei periodi in cui non lo appare, scaricando i costi ambientali sulla società tutta. Anche le attuali scelte geopolitiche statunitensi sono segnate dalla necessità di smarcarsi dal pantano mediorientale raggiungendo un’autosufficienza energetica mediante i prodotti di scisto[3].

La seconda rivoluzione industriale e il ciclo economico di tutto il novecento si sono basati sulla costruzione di una capillare, gestita in modo centralizzato, rete di distribuzione dei combustibili fossili e dell’energia da essi ricavata.

La quarta rivoluzione industriale sarà ancora più energivora ma potrebbe contenere al suo interno i germi della dissoluzione della centralizzazione energetica. L’emergere di internet ha generato una economia di scala che ha delle profonde conseguenze su moltissimi piani: quella dei big data. Come si lega questo con la questione energia? Intanto le reti telematiche consumano moltissima energia elettrica in quanto sono basate essenzialmente sulla trasmissione di segnali elettrici. Secondariamente: i big data, sopratutto quelli legati ai social network, stanno trasformando interamente e sottilmente gli stessi esseri umani in macchine che mettono a valore le loro stesse relazioni sociali. Paradossalmente l’economia dei big data fonda un’ampia parte dei suoi processi produttivi su energia ricavata da fonti differenti rispetto a quelle abituali: noi non andiamo ad elettricità. I nostri smartphone si, ma essi sono solamente il tramite che mette in comunicazione il nostro cervello con la rete. Il nostro cervello funziona tramite energia chimica. In realtà l’intero paradigma dell’Internet of Things, strettamente correlato con i big data, presuppone, per svilupparsi al suo massimo stadio, un completo ripensamento del paradigma della produzione di energia basata su combustibili fossili. Non è un caso che un imprenditore come Elon Musk stia investendo nella ricerca di una soluzione, come il progetto delle batterie Powerwall, che diminuirebbe moltissimo la dipendenza da reti di distribuzione energetica a gestione centralizzata, creando batterie collegate a pannelli solari ad alto rendimento sia per uso domestico che per uso veicolare. Ma anche altri aspetti della rivoluzione industriale in corso prevedono un aumento dei consumi energetici che i combustibili fossili non sarebbero in grado di garantire nel lungo termine: l’automazione non solo dei processi produttivi ma anche di quei lavori intellettuali, dal trading azionario automatizzato basato su algoritmi genetici a certi lavori giurisprudenziali per l’elaborazione di contratti, dall’analisi automatica delle immagini alle blokchain. Tutto questo prevede l’aumento delle capacità computazionali e di conseguenza un diverso modo di concepire la messa a valore delle risorse energetiche.

E in questo si inserisce anche un altro importante aspetto dell’attuale rivoluzione industriale: le nanotecnologie. È evidente che una macchina molecolare non possa essere alimentata dalla normale rete di distribuzione energetica e le batterie a ioni di litio hanno dei precisi limiti fisici nelle possibilità di miniaturizzazione. Anche qua si dovrà andare verso altri modi di sfruttare l’energia chimica: dall’ossidoriduzione degli idrocarburi in grosse centrali ad olio combustibile all’ossidoriduzione del glucosio, o chi per esso, in elementi energetici di dimensioni cellulari, o anche minori.

Questo significa che da qua a pochi anni vedremo i combustibili fossili andare in soffitta? No, affatto: il picco petrolifero è più lontano di quanto si pensasse e le tecnologie sopracitate sono ancora in via di sviluppo. Inoltre gli idrocarburi di scisto, per quanto penalizzati dal basso prezzo del greggio hanno profondamente modificato la geopolitica energetica. E non scordiamoci di un fatto: il petrolio non è solo energia ma anche materia prima fondamentale per le materie plastiche. Le risorse fossili convenzionali diventano sempre più difficili da controllare a causa della sempre maggiore instabilità sistemica dovuta all’amento di conflitti macroregionali e il nucleare a fissione ha mostrato tutte le sue possibilità catastrofiche. Se è vero, come ricordano alcuni, che il nucleare a fissione ha fatto meno morti dei combustibili fossili è anche vero che il nucleare ha la sgradevole caratteristica di poter potenzialmente, e Chernobyl e Fukushima ce lo ricordano, creare incidenti catastrofici che nel giro di poche ore rendono completamente inabitabili interi territori. Per questo non può essere una valida alternativa ai combustibili fossili. Inoltre ha dei costi di gestione altissimi.

Una società basata interamente sulla telematica come quella che si sta delineando ha due basi imprescindibili: la quantità di banda disponibile e la quantità di energia trasformabile in forma utilizzabile. In questo si può delineare un possibile scenario basato sull’energia disponibile da un lato sul nucleare di nuova generazione, basato sulla fusione e non sulla fissione, per i grandi apparati e su una miriade di fonti energetiche che si basano su solare, eolico, chimico. Sottolineo che non sto sostenendo che vi sarà una scomparsa della produzione manifatturiera a favore della produzione cognitiva ma che la produzione manifatturiera verrà ulteriormente automatizzata: per quanto ne dicano certi teorici le reti telematiche sono qualcosa di molto fisico: cavi, computer di varie dimensioni e apparati di alimentazione.

Attenzione: il rischio di un’illusione accelerazionista, in cui tutte le contraddizioni attuali vengono automaticamente risolte in un ipotetico eschaton immanentizzato, è dietro l’angolo. Se è vero che questo nuovo ipotetico paradigma tamponerebbe la crisi ambientale dovuta al modo di produzione profondamente irrazionale in cui viv11062715_1552006671731600_3560229771383029280_niamo, è vero che potrà anche portare a nuove e più sottili forme di dominio.

All’interno di questo nuovo paradigma sarà necessario, nel senso più stretto del termine, aumentare la capacità di incidere nella realtà da parte di chi si pone in una prospettiva rivoluzionaria di superamento radicale dell’esistente. Non può esistere un capitalismo razionale, non può esistere un capitalismo dal volto umano: il capitalismo è per sua natura basato sulla messa a valore dell’esistente, sul valore di scambio e non su quello d’uso e permarrebbe la necessità di uno stato come ente regolatore della moneta e garante della pace sociale. Anzi: la necessità di mettere completamente a valore l’intera esistenza sociale, l’intera esistenza di ogni individuo, sarebbe l’apogeo dell’alienazione.

Uscire da una società basata sull’accumulazione e sul dominio dell’uomo sull’uomo è possibile solo in senso rivoluzionario. Non c’è scappatoia di sorta: nostro è il compito di appropriarci di queste tecnologie e utilizzarle per costruire una società a nostra misura. Le potenzialità della scienza dei sistemi complessi, la cibernetica, sono immense e non possiamo lasciarle nelle mani di un meccanismo basato sulla strutturale alienazione dell’uomo.

lorcon

[1] https://www.foreignaffairs.com/articles/middle-east/2016-05-17/pipelines-sand

[2]https://en.wikipedia.org/wiki/File:Nuclear_Energy_by_Year.svg e https://en.wikipedia.org/wiki/Nuclear_power_by_country

[3] http://www.limesonline.com/shale-gas-e-rivoluzione-energetica-leta-del-petrolio-non-e-ancora-finita/47049

Pubblicato in articoli | Contrassegnato , , , , | Commenti disabilitati su Energia e rivoluzione industriale

In viaggio verso una possibile utopia – Recensione di Kobane Calling

Pubblico di seguito la mia recensione dell’ultimo libro di Zerocalcare, pubblicata sul Umanità Nova numero 18 – anno 96.

Recensione – In viaggio verso una possibile utopia

Kobane Calling

Negli ultimi mesi abbiamo potuto assistere alla pubblicazione di diversi libri e reportage, di 12qualità disparata, sulla situazione siriana, sullo Stato Islamico e sull’esperienza del Rojava. Tra queste pubblicazioni spicca il diario di viaggio a fumetti realizzato da Zerocalcare in Kurdistan, sia in Rojava che nella zona di Qandil. L’opera è realizzata con un’ottima amalgama di umorismo e reportage vero e proprio, che, di conseguenza, non risparmia neanche gli elementi più ambivalenti e drammatici di una situazione di guerra. D’altra parte l’autore ha già dato prova in passato di essere in grado di padroneggiare egregiamente l’alternanza tra narrazione umoristica e drammatica, basti pensare a “La profezia dell’armadillo”. Ma il vero punto di forza dell’opera, sopratutto per chi come il sottoscritto la legge anche in un’ottica militante, è la capacità dell’autore di non cedere a facili apologie e di mantenere uno sguardo critico e curioso, ma mai cinico, e di mettere continuamente in discussione ciò che vede, cogliendo le contraddizioni che saltano all’occhio e sospendendo, in certi momenti, il giudizio.

Zerocalcare sa di recarsi in una realtà complessa e riesce ad affrontare questa complessità molto meglio di altri ben più blasonati “analisti”, mostrando quella complessità nello spaesamento che lui stesso prova di fronte alle biografie delle persone che incontra lungo il viaggio e alle situazioni che vede e vive. In questo mostra anche l’alterità delle esperienze tra chi si trova a vivere e ad agire in territori in uno stato di guerra, che per il Kurdistan turco dura da decenni, e chi invece quelle esperienze le vede a distanza. Un fumetto post-coloniale, verrebbe da dire, sopratutto alla luce di certe interpretazioni delle esperienze del confederalismo democratico che sono emerse all’interno del movimento negli due anni. E non mi riferisco solamente all’atteggiamento di stroncatura a priori assunta da certe componenti della sinistra comunista ma anche all’atteggiamento di adesione acritica e spettacolare assunte da certe componenti che interpretano l’azione politica in chiave pop.

Kobane Calling restituisce l’esperienza della lotta in Rojava in un modo non ipocrita, non sta a tirare questa esperienza per la giacca nel tentativo di legittimare altre azioni politiche in Italia, rileva la complessità dell’azione e costruisce una narrazione basata sul profondo rispetto dell’autore verso quell’esperienza, rispetto basato anche su questa consapevolezza di una certa alterità.

Interessantissimo è anche lo spazio che nell’opera è dato alla presenza femminile. Penso che sia oramai innegabile che le azioni svolte dalle militanti del confederalismo democratico, e non mi riferisco solamente a quelle sul campo di battaglia, siano state elemento di rottura non solo nella nostra rappresentazione della condizione femminile in Medio Oriente ma sopratutto, ed è questo ciò che conta, nella stessa struttura sociale del Rojava e, in generale, del Kurdistan. Nel fumetto emerge chiaramente come questo sia stato possibile grazie ad un lavorio sotterraneo di anni che hanno modificato sostanzialmente i rapporti di forza, anche manu militari dove necessario. La lotta di liberazione della donna e le tematiche di genere hanno assunto un’importanza fondamentale nell’azione delle forze confederaliste democratiche in quanto sono riuscite a mettere in crisi una delle chiavi di volta delle società mediorientali, e utilizzo questo termine anche per includere le componenti sociali non islamiche in cui rimane schietta l’oppressione delle donne. Alcuni passaggi del fumetto possono risultare stranianti per un certo pubblico occidentale, penso specificatamente all’episodio che si svolge nelle basi della guerriglia nel Qandil in cui l’autore conosce una ragazza sedicenne che vive e si addestra con le guerrigliere. Certuni sarebbero portati ad esclamare “Ohibò, ma qua parliamo di bambini soldato (anche se nel fumetto viene specificato che non è una combattente), indottrinati e fatti vivere in un ambiente militarizzato!” ma ecco subito che emerge la complessità della situazione, quella che costringe a riflettere: la ragazza è scappata da una famiglia che l’aveva venduta come sposa e da uno zio violentatore, le montagne, la preparazione alla lotta armata, il vivere la guerriglia sono per lei l’unico modo disponibile in quel contesto per essere libera o per lo meno per costruire una possibile libertà da una società patriarcale. L’idea e l’azione conseguente sono logicamente concatenate: davanti ad una società che legittima l’oppressione di genere solo le donne potrenno essere agenti della loro stessa emancipazione.

L’idea che emerge dall’opera è quella di un percorso di trasformazione sociale in senso rivoluzionario ancora in corso e che si percepisce costitutivamente come non finito se non addirittura come non finibile. Zerocalcare non fornisce soluzioni o giudizi definitivi: offre con questo fumetto uno sguardo interessante e interessato ad un mondo complesso, pur con una coerenza e dei punti fissi che lo portano a fare una precisa scelta di campo tenendo però a mente interrogativi, vedendo contraddizioni e con la volontà di comprenderle.

In definitiva: uno dei migliori fumetti, o graphic novel dir si voglia, degli ultimi anni, paragonabile senza problemi alle pietre angolari del genere quali i reportage a fumetti di Joe Sacco o Delisle. Godibile e ricco di spunti sia per chi come il sottoscritto si occupa da un po’ di tempo delle “vicende mediorientali” sia per chi invece ha seguito la vicenda del Rojava più di sfuggita. Un fumetto forse ancora più utile per chi affronta queste questioni con cipiglio militante in quanto fornisce un’ottica allo stesso tempo appassionata, militante, e uso questo termine nel suo significato migliore, razionale e analitica, amalgama non facile ma sempre piacevole.

lorcon

Pubblicato in articoli, recensioni | Contrassegnato , , , , , , | Commenti disabilitati su In viaggio verso una possibile utopia – Recensione di Kobane Calling

Antivaccinari – Un’introduzione storica e attuale di un’idea antiscientifica – “seconda edizione”

Nel marzo 2015 avevo scritto l’introduzione dell’opuscolo “Antivaccinari – Un’introduzione storica e attuale di un’idea antiscientifica”, curato da LaHyena. A distanza di un anno sempre a sua cura esce la seconda edizione dell’opuscolo, liberamente scaricabile qui, con gli articoli riveduti e corretti. Per questo ritengo utile, anche alla luce dell’interessante dibattito sul legame tra anarchismo e metodo scientifico che è scaturito sia sulle pagine di Umanità Nova che di A – Rivista Anarchica, ripubblicare l’introduzione da me scritta e la nuova edizione dell’opuscolo stesso.

 

Prefazione alla “Seconda edizione”

A distanza di un anno (Marzo 2015), esce questa versione corretta e riveduta dianti_vaxxers
questo opuscolo che non modificano più di tanto l’originale.
Inutile ribadire che il presente lavoro non vuol osannare o giustificare un
modello di produzione che permette l’esistenza delle case farmaceutiche (in
particolare Novartis e Bayer) ma, semmai, di un esproprio e di una
riappropriazione della medicina.
LaHyena, 27 Maggio 2016

Introduzione

In questo ultimo decennnio, abbiamo constatato un attacco sempre più incisivo
di martellamento terroristico sui vaccini: 600 casi di morbillo nel 2014, più gli
80 dall’inizio del 2015 ai primi di febbraio, quando nel 2000 la malattia era
considerata eradicata dal suolo statunitense[1].
Il movimento “antivaccinaro”, riesploso negli ultimi anni grazie alla facilità con
cui si diffondono le menzogne via internet, è una traccia carsicamente presente
nella storia degli ultimi secoli, ovvero da quando esistono i vaccini. Un
movimento che si nutre di bufale antiscientifiche, paure ataviche e irrazionali,
un movimento che si riproduce nelle paranoie complottiste e nei cargo cults, nel
suprematismo bianco statunitense e nel patriarcato. Un movimento che, al di
fuori dell’occidente si riproduce nella melma islamista in Pakistan (2) e in
Nigeria (3) e in alcune chiese episcopali-cattoliche ed evangeliste del resto
dell’Africa. (4) Un movimento, insomma, specificatamente riconducibile alle
diverse forme di dominio di questo capitalismo di ouverture du siécle con cui
ci confrontiamo quotidianamente. E quindi da affrontare, analizzare e smontare
non solo da un punto di vista tecnico, indubbiamente necessario, ma anche da
un punto di vista sociale.
Il movimento antivaccinaro in occidente si ricollega, a nostro parere, a due
grossi filoni: il primo è quello più specificatamente religioso, attivo sopratutto
nelle zone meridionali degli States (ma tragicamente espansosi anche in altre
parti del mondo) (5), presente da sempre ed ampliatosi con i reborn christians
dall’epoca reaganiana ad oggi, legato ad una visione millenaristica e totalizzante
della religione; il secondo filone è quello che, in modo forse riduttivo,
potremmo chiamare “new age”, diffusosi sia nella classe media bianca
statunitense ed europea: una concezione del mondo misticheggiante, anche se
non sistematica e organica come quella delle religioni tradizionali, che rifiuta,
in termini più o meno espliciti, la concezione razionale e scientifica del mondo
in nome di un superamento fittizio di quelle che sono erroneamente percepite
come cause della propria alienazione, ma senza mettere in discussione le reali
cause della stessa.
In Africa e in Asia il movimento anti-vaccinaro è organico ai movimenti
religiosi islamici e cristiani. Le decine di volontari delle campagne di
vaccinazione antipolio uccisi in Pakistan (6) e in Nigeria, (7) la chiesa cattolica
del Kenya che si oppone alla campagna di vaccinazioni contro il tetano
neonatale, (4) sono la logica conseguenza dell’azione di gruppi di interesse
economico-politico che agiscono all’interno di un generale movimento di
cooptazione delle popolazioni all’interno di schemi di dominio teocratici, i quali
indicano nei vaccini gli strumenti del nemico per sterilizzare le donne detentrici
del compito naturale della produzione di nuovi sottomessi alla legge di dio.
Inoltre abbiamo potuto vedere negli ultimi anni anche la penetrazione di queste
tematiche all’interno di certi settori del “movimento”, al pari dei deliri sulle scie
chimiche e similari, anche se, fortunatamente, finora solo a titolo individuale.
Pensiamo che la migliore definizione per questi fenomeni sia “socialismo degli
imbecilli”. Pensare di criticare lo stato delle cose a partire dal rifiuto dei
vaccini, o dall’inventarsi inesistenti scie chimiche o complotti degli illuminati, è
da imbecilli. È lo stesso errore di quanti, neanche tanti anni fa, prestavano fede
ai Protocolli di Sion, scritti tra l’altro dalla polizia segreta zarista, e attaccavano
i presunti complotti giudeo-plutocratici senza rendersi conto che le cause prime
della propria alienazione risiedevano, oggi come ora, nei rapporti sociali e di
produzione e non nella presenza di gruppi dediti ad organizzare piani deliranti e
inutilmente complicati per oscuri scopi. (8) Sostituiamo i perfidi giudei con il
cargo cult della tecnoscienza e otteniamo lo stesso risultato: il socialismo degli
imbecilli. La diffusione di queste spiegazioni irrazionali all’interno del
“movimento” ci mostra come molto sia il lavoro da fare anche tra quanti si
dichiarano anticapitalisti.
Che gli anti-vaccinari siano tali in nome della religione tradizionale o di
qualche delirio new age sul ritorno alla natura, poco cambia nei risultati ultimi:
pile di morti. La diffusione di queste menzogne, unite alla mancata diffusione di
farmaci e altri dispositivi medici tra i gruppi più poveri della popolazione
globale -proprio a causa delle normali dinamiche del capitalismo-, ha come
unico risultato quello di produrre milioni di morti; morti che saremmo in grado
di evitare se fosse garantito universalmente e gratuitamente l’accesso alle più
avanzate cure mediche e si facesse piazza pulita di tutte le concezioni
antiscientifiche e reazionarie. Ma questo potrà essere il risultato solo di un
cambiamento radicale delle condizioni vigenti, di un radicale stravolgimento
dei rapporti sociali che costruisca una società di liberi, eguali e solidali.
Lorcon

Note
(1) http://www.cdc.gov/measles/cases-outbreaks.html e
http://pediatrics.aappublications.org/content/early/2015/01/13/peds.2014-2715
(2) https://www.ctc.usma.edu/posts/the-pakistani-talibans-campaign-against-
polio-vaccination
(3) http://www.nbcnews.com/id/7316179/ns/health-infectious_diseases/t/anti-
vaccine-sentiment-plagues-nigeria/#.VPbv85-Fo8o
(4) http://www.bbc.com/news/world-africa-29594091
(5) Vedere:
http://www.slate.com/blogs/bad_astronomy/2013/08/26/antivax_communities_
get_measles_outbreaks_linked_to_denial_of_vaccines.html
http://www.vice.com/read/the-religious-rights-anti-vaccine-hysteria-is-reviving-
dead-diseases
(6) http://www.arezzoweb.it/2015/pakistan-attacco-a-campagna-anti-polio-
rapiti-e-uccisi-4-volontari-286958.html
(7) http://www.lastampa.it/2013/02/08/esteri/nigeria-uccisi-volontari-anti-polio-
eJObXQu9wyPqM8kZGNufvM/pagina.html
(8) Una delucidazione, la troviamo nello scritto di Michel Bounan, Lo Stato
Astuto, scaricabile da questo sito: https://mega.co.nz/#!DIhnXCaL!
U1CAVAPCGKSqHPv5hD-AW0h8ZqMovQJvdCuCIMp_Zuw

Pubblicato in General | Contrassegnato , , , | Commenti disabilitati su Antivaccinari – Un’introduzione storica e attuale di un’idea antiscientifica – “seconda edizione”

Populismo penale

Con immane ritardo pubblico qua l’articolo mio pubblicato sul numero 13 anno 96 di Uenne.

Chi si trova a seguire con occhio critico l’universo dell’informazione italiana, cartacea, televisiva o digitale che sia, non ha potuto non notare il progressivo imbarbarimento dell’informazione stessa. E il completo fallimento di quella stramba teoria che sosteneva che la diffusione del social web avrebbe automaticamente migliorato la qualità dell’informazione.10291699_666767840024959_9202963160758324509_n

Il recente caso di Duina Matei, la donna condannata per l’omicidio preterintenzionale di Vanessa Russo, avvenuto otto anni fa nella metro di Roma, è indicativo. Avendo ricevuto una condanna a sedici anni, che per un omicidio preterintenzionale non è poco, avendo passato già metà della condanna in carcere e dimostrato ravvedimento Duina otteneva la semilibertà. Apriti cielo: avendo ella postato su Facebook delle foto in cui si trovava al mare ed essendo queste foto trovate da qualche “giornalista” di qualche gazzetta locale si apriva la porta al peggiore populismo. Alla fine il giudice di sorveglianza le revocava il beneficio della semilibertà con motivazioni risibili. In questa vicenda possiamo notare una serie di attori che hanno agito affinchè si arrivasse a ciò: in primo luogo il magistrato di sorveglianza stesso che ha deciso che la vox populi è fonte di diritto, in secondo luogo le varie gazzette, cartacee o web che siano e, in terzo luogo, il famigerato “popolo del web”, quella massa informe, atomizzata e influenzabile di utenti, tra cui una buona fetta di analfabeti funzionali.

Quando, quasi un decennio fa, iniziava ad emergere il fenomeno dei social network c’era chi si diceva convinto che questi avrebbero automaticamente portato ad un incremento della trasparenza e della qualità dell’informazione, aprendo le porte ad un citzein journalism diffuso. In questi dieci anni invece quello che abbiamo ottenuto è stata un’informazione fatta di articoli sempre meno approfondita e orientata verso l’emotività perchè questa è ciò che va messo a valore sui social network: il citzein journalism si è fare foto per segnalare ai giornali locali, con tono indignato per il degrado, i barboni che dormono sulle panchine; la trasparenza è il social manager della testata che decide che titolo dare in base a quello che garantirà più interazioni, ovvero entrate pubblicitarie.

Tutti i casi di cronaca nera recenti hanno dovuto scontare questo passaggio per le forche caudine del popolo del web. Inutile dire che tutto questo influenzi, come ben si è visto nel caso della Matei, le decisione dei magistrati andando a contribuire ad un inasprimento di una società già di per sé repressiva.

E non si faccia l’errore di credere che questa modalità di fare informazione riguardi solo giornali locali o testate telematiche: i grandi giornali nazionali o sovra-regionali utilizzano, seppure con maggiore eleganza, le stesse modalità. Gramellini, dal suo fondo quotidiano sulla Busiarda, si univa al linciaggio della Matei fornendo argomenti digeribili anche alle anime belle per contribuire al massacro. Identico il ruolo, non in questo ma in altri casi, di Michele Serra su la Repubblica, memorabile quando dall’altro della sua poltrona giustificava l’omicidio barbaro e a sangue freddo di Davide Bifolco da parte di un carabiniere. In questo caso, di cui già parlammo in “Note a margine di un omicidio” a settembre 2014 (http://tinyurl.com/note-omicidio) emergeva anche la componente razzista e antimeridionale dell’opinionista de la Repubblica. Il 7 aprile 2016 Stefano Folli, già dirigente del PRI è riuscito, sempre dalle colonne de la Repubblica, a fare il bis: chi il giorno prima ha contestato Renzi a Napoli, centri sociali in primis, è manovrato da logiche camorriste. Non solo: qualsiasi contestazione che venga da Napoli è per sua natura di origine Sanfedista. Noi non dubitiamo che Folli sia convinto di quello che scrive: stronzate di questo calibro rientrano perfettamente nel DNA degli intelettuali organici dell’attuale ceto politico. Ci limitiamo a rilevare un fatto: Folli non è l’ultimo arrivato, non è un oscuro giornalista di una gazzetta provinciale, è un editorialista di punta di molti giornali da anni, è stato anche direttore del Corriere della Sera. E non è neanche un arrogante in malafede come Rondolino. Quello che emerge è quindi un pensiero strutturalmente razzista e classista che viene poi a sua volta amplificato dai social media. Perchè le opinioni di un Serra, di un Gramellini o di un Folli ricevono ampia visibilità sui social network e dettano l’agenda della discussione del giorno.

Di queste narrazioni tossiche ci siamo occupati più volte, e tante più volte le abbiamo viste all’azione.

Tanto per fare un esempio spicciolo: moltissime persone sono convinte che i rifugiati che giungano in Italia siano ospitati in strutture alberghiere di lusso e non in CARA e CIE fatiscenti e militarizzati, che vengano nutrite con costosi e raffinati cibi e non con il cibo preparato al massimo ribasso, che ricevano addirittura un sussidio di trenta, o cinquanta, a seconda delle versioni, euro al giorno. Leggende metropolitane, balle razziste diffuse ad arte da piccoli imprenditori del web, amplificate da siti riconducibili ad organizzazioni fasciste. Eppure queste minchiate sono diventate parte del “comune sentire”. Per non parlare dell’enorme quantità di bufale che gira in ambito scientifico-medicale.

Insomma: i social media, per lo meno nel contesto italiano, ben lungi dall’avere aiutato a creare reti informative trasparenti e obiettive hanno aumentato il livello da propaganda in circolazione. Non ce ne stupiamo: l’informazione è mercato e, anzi, al momento è uno dei mercati più floridi del pianeta.

A noi il compito di trarne conseguenze e percorsi di segno opposto.

lorcon

Pubblicato in General | Commenti disabilitati su Populismo penale

Uragani di guerra?

In anteprima il mio pezzo per il numero 6 anno 96 di Umanità Nova

L’intricata situazione siro-irakena rischia di evolvere sempre di più verso un macro-conflitto regionale.
Le forze fedeli al governo di Assad avanzano nel nord della Siria, con sotto la copertura aerea russa e con l’appoggio del PYD, sottraendo terreno alle bande islamiste appoggiate dal governo turco. L’avanzata sta chiudendo inesorabilmente i corridoi logistici utilizzati dagli islamisti sunniti per ricevere rifornimenti dalla Turchia, mettendo in seria difficoltà il governo di Erdogan; l’Iran è sempre più presente in Irak e questo preoccupa seriamente il governo saudita e le altre petromonarchie del Golfo che, al contempo, devono affrontare una crisi economica data dei bassissimi prezzi del greggio.
1505668_10152381853887176_180548918_nNon a caso in questa settimana si sono fatte sempre più concrete le possibilità che una coalizione turco-saudita intervenga via terra in Siria, causando di fatto una guerra con l’asse siro-russo-iraniano. Ma molte componenti dello stato turco non ne vogliono sapere di intervenire senza una copertura Usa e, implicitamente, NATO, alleanza di cui la Turchia fa parte, copertura che, al momento, sembra completamente assente, nonostante l’avvicinamento tra governo tedesco e turco nel tentativo di gestire la crisi dei profughi siriani.
La situazione, insomma, si intrica giorno per giorno. La politica di potenza con copertura ideologica neo-ottomana/pan-turca del governo di Erdogan è messa alle strette: se l’apertura del conflitto siriano aveva dato la possibilità di entrare prepotentemente nel territorio del vicino meridionale per dichiarare la propria tutela sulle popolazioni turcomanne del nord-ovest della Siria e utilizzare in funzione anti-PKK/PYD lo Stato Islamico l’avanzata, a sud e ad est, delle milizie dei gruppi che si richiamano al confederalismo democratico del PYD e a nord-ovest e ad est delle forze lealiste e sciite a guida iraniana ha completamente fatto a pezzi questa strategia. Nel contempo l’Iran ha rinforzato la sua posizione in Irak: se il centro del paese non è caduto nelle mani del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi questo lo si deve solamente all’impegno militare delle milizie sciite irakene, come quelle di al Sadr che tanto filo da torcere diedero agli USA dieci anni fa, appoggiate dalla Repubblica Islamica. L’asse sud di proiezione strategica del governo turco si trova stretto in una morsa e segmentato. Il governo del despota di turco si trova costretto a tentare la carta del tutto per tutto, ammesso e non concesso che lo stato profondo turco, che in parte ha resistito alla riorganizzazione voluta dagli attuali vertici dell’AKP, gli faccia giocare questa carta. Ovviamente potrebbe anche decidere di proiettarsi per reazione a nord per (ri)aprire una guerra assimetrica con la Russia nel Caucaso e, forse nella stessa Ucraina. Ma in ogni caso si aprirebbe una situazione di conflitto molto più aperto con la Russia. Putin ha costruito il suo potere sulla pacificazione, sanguinosa, della Cecenia e del Caucaso musulmano e l’ha fatto in modo intelligente: ha si spazzato via gli islamisti radicali eterodiretti dal Golfo Arabico ma ha anche dato potere alle elitè musulmane-moderate filo russe, la Cecenia è una repubblica federata con la Russia Federale, gode ampia autonomia, difficilmente si potrebbe accusare Putin di discriminare la popolazione musulmana in Russia. Il conflitto si potrebbe spostare nell’inner-core euroasiatico delle repubbliche ex-sovietiche nel tentativo di distrarre le risorse russe in guerre e guerriglie. Ma intanto senza un diretto intervento in Siria il governo di Assad sotto protezione russa acquisisce di giorno in giorno un maggior potere negoziale nei colloqui di pace. E allo stesso modo il PYD si rafforza: pur non essendo certamente interessato a tenere sotto controllo le zone non kurde del nord ovest siriano ha dimostrato un’alta capacità militare. E ha dimostrato di essere il vero ago della bilancia nella questione. Meno di un anno fa c’era il concreto rischio che si riaprisse il conflitto armato tra PYD e governo siriano ma questo è stato costretto a scegliere quello che considera il male minore: un kurdistan siriano autonomo e autogovernato è più accettabile rispetto ad uno Stato Islamico rafforzato, ovvero ad una maggiore ingerenza turco-saudita nel levante.
Intanto, in Irak il governo regionale del Kurdistan Irakeno, difatti completamente indipendente rispetto a Baghdad, dopo le iniziali batoste prese dell’IS è riuscito a riguadagnare terreno. La sua strategia di contenimento basata su una difesa di profondità ha funzionato e ha potuto tornare all’attacco: ma per farlo, nella zona di Mosul e nei territori Yazidi, ha dovuto appoggiarsi, oltre che al consueto alleato statunitense, al PKK e al PYD. Un’alleanza inedita, e vittoriosa, dettata anche dalla pressione della stessa opinione pubblica kurda, che per ora sembra già finita. Pochi mesi fa il KRG permetteva all’esercito turco di stabilire una base in territorio irakeno, scatenando la protesta irakena, russa, e americana. Dopo neanche una settimana i turchi erano costretti a ritirarsi. Quello è stato il segnale che si erano definitivamente incrinati i rapporti tra USA e Turchia. L’amministrazione di Obama non ha tollerato la mossa turca che rischiava di alienare i rapporti con il governo di Baghdad spingendolo ancora di più verso l’Iran. Al contempo l’Iran non può permettersi un rafforzamento delle formazioni kurde legate al PKK-PYD: l’Iran occupa parte del Kurdistan settentrionale e il PJAK, il partito kurdo in Iran che ha fatto sue le teorie del confederalismo democratico, è in conflitto con la teocrazia di Theran.
Nel frattempo l’Unione Europea, dando ennesima prova di idiozia, si è messa a regalare miliardi di euro al governo turco per “l’emergenza profughi”. In pratica si sta cercando si subappaltare la gestione crisi dei profughi siriani ad un governo che ne è stato una delle principali cause. Tra l’altro l’UE sa benissimo quali sono i metodi turchi per la gestione dei flussi migratori: raffiche di mitragliatrice, filo spinato e cannonate. Una politica criminale di cui l’UE è pienamente complice. Ma c’è da stupirsene? No: qualcosa di simile lo si fece con Gheddafi.
Una possibile interpretazione di questo complesso quadro suggerisce che l’amministrazione 10329272_10152053912522035_54689573893007516_nstatunitense abbia tutto l’interesse a mantenere in continuo conflitto il teatro siro-irakeno per fare impantanare i russi e gli iraniani in guerra mediorientale. Ma allo stesso tempo ha tutto l’interesse a non far si che la situazione precipiti in una aperta guerra tra il blocco sunnita del Golfo e la Turchia da un lato e l’asse Russo-Iraniano: in un conflitto aperto il governo Turco sarebbe necessariamente perdente, non tanto contro un parigrado come l’Iran, ma contro la Russia che è una delle prime due potenze militari al mondo. Se l’amministrazione statunitense manterrà una linea di fermezza nei confronti delle pretese turche e saudite e aprirà delle serie trattative con la Russia si potrà arrivare ad una soluzione diplomatica, anche se necessariamente temporanea. Al contrario si scatenerà un conflitto dalle evoluzioni difficilmente prevedibili ma che non farebbe comodo a nessuno.
Nel frattempo il governo di Erdogan deve affrontare una difficile situazione nel Bakur, il Kurdistan Turco. La volontà di Erdogan di riaprire un conflitto aperto con il PKK, o nel tentativo psicotico di spazzarlo via o nel tentativo più razionale di ridimensionarlo e metterlo in una situazione di minorità in una riapertura del tavolo di pace, ha portato l’esercito turco in una guerriglia urbana nelle principali città, che hanno dichiarato l’autonomia sul modello del Rojava. Finora il PKK, in modo intelligente, non ha ripreso la strategia degli attentati, probabilmente definitivamente abbandonata, attuata nel corso degli anni novanta, prima della svolta a sinistra della sua dirigenza. L’attentato della settimana scorsa che il governo aveva provato ad imputare al PKK-PYD è stato rivendicato dal TAK, formazione lottarmatista kurda che ha una politica nazionalistica ed è slegato da anni dal PKK.
Se si verificherà quanto detto prima da parte degli USA e della Russia e, al contempo, il PKK-PYD riuscirà a mantenere la sua strategia sui binari del cambiamento sociale, anche se giocoforza con una forte componente militare, senza tornare ad una fallimentare politica nazionalistica rimarranno aperte le possibilità di un radicale cambiamento sociale nella zona.

Nel frattempo in tutto questo non abbiamo parlato se non con brevi cenni del convitato di pietra: il prezzo del petrolio. La cretina strategia saudita dell’anno scorso di mantenere alta la produzione, e bassi i prezzi, delle commodities energetiche ha si colpito la Russia e l’Iran, la cui ripresa dopo stralcio delle sanzioni ONU stenta a decollare del tutto, e i paesi latino americani legati alla Russia, ma si è ritorta contro la stessa casa reale degli al Saud. E contro i produttore di shale oil statunitensi.

Che cosa dobbiamo trarne noi dall’analisi di questa intricatissima situazione? Per chi si muove nel campo rivoluzionario, in tutto il mondo, la lezione, a nostro parere, è questa: non ci salvera ne dio, ne Cesare ne alcun tribuno. La politica del PKK-PYD, pur tra mille difficoltà e alcune contraddizioni, ha dimostrato che è possibile costruire un’alternativa radicale anche nelle aree devastate dalle guerre e davanti a stati dittatoriali come quello Turco o quello Siriano. Rafforzare i legami con chi nel mondo si muove su binari libertari e di classe, riaffermare l’importanza dell’internazionalismo di classe, dell’opposizione all’imperialismo, sia esso russo o americano, l’azione diretta. Sono questi i rimedi alla devastazione delle nostre vite da parte delle strutture autoritarie e gerarchiche.

lorcon

Pubblicato in General | Commenti disabilitati su Uragani di guerra?

La propaganda alla prova dei fatti pt 2

Armi negli Stati Uniti

La propaganda alla prova dei fatti pt 2

Questo articolo è il proseguimento ideale del pezzo “La propaganda alla prova dei fatti” apparso su Umanità Nova numero 31 anno 95 (20 ottobre 2015 – http://tinyurl.com/usa-armi / o anche su questo blog).

Razza, classe, genere e Gun Control

Nel suo discorso di inizio anno il presidente statunitense Obama ha annunciato una serie di misure atte a rendere più difficile l’accesso alle armi a soggetti “pericolosi”. È un obiettivo che il presidente persegue da anni e che, data l’opposizione del congresso federale, a maggioranza repubblicana, e dove anche una parte del Democratic Party non vede con favore le misure dirette al gun control, ha visto, per il raggiungimento di questo fine, l’utilizzo di un “executive order”: dato che il sistema politico americano è presidenziale e che il presidente svolge anche la funzione del capo dell’esecutivo potremmo, per rendere parzialmente l’idea, comparare questo atto ad un decreto legislativo del governo in Italia. Ovviamente il fatto di prendere decisioni in modo autoritario su un argomento oggetto di ampio dibattito pubblico ha suscitato diverse polemiche negli USA e non è esclusa che la decisione presidenziale possa essere ribaltata da decisioni delle varie corti giudiziarie, compresa la corte suprema.1512846_10201206860371919_6499244040486419883_n
Invece i media liberals hanno urlato dalla gioia, sopratutto New York Times e Washington Post. Anche la stampa europea ha accolto con un certo entusiasmo la decisione di Obama. In Italia abbiamo potuto assistere ai redattori de la Repubblica gongolare per la decisione, sopratutto l’infausta coppia Zucconi & Serra. Addirittura Serra ha preso spunto, nella sua quotidiana rubrica[1], da questo fatto per una disquisizione su che cosa voglia essere di sinistra, finendo, al solito, nel più totale nonsense.
Il portale della post-autonomia “Infoaut” è riuscito addirittura a superare a destra il presidente statunitense: nell’articolo “Chi crede alle lacrime di Obama?” il redattore si lamenta del fatto che il presidente non possa/voglia fare abbastanza per limitare il numero di armi circolanti e si lancia in un’arguta disquisizione sul legame tra cultura liberale, diritto di possedere armi e sulla famigerata lobby delle armi, fornendo cifre in modalità “ad mentula canis,” banalizzando un fenomeno complesso e confondendo milizie con “guardie nazionali” (chiamate federali nell’articolo, sic). Questi aquilotti delle analisi di classe (totalmente scomparsa dal pezzo citato) dimostrano di essere completamente confusi, pronti ad inseguire la polemica del giorno per ottenere visibilità, sacrificando completamente il senso dell’analisi. Su una cosa comunque siamo d’accordo con loro: le lacrime di Obama sono ipocrite.
Il presidente americano è a capo del maggiore esportate di armi e sistemi d’arma del pianeta[3] ed è a capo dell’apparato militare più importante al mondo. Le sue lacrime non valgono per le migliaia di vittime del programma di omicidi tramite droni, vittime che in moltissimi casi non erano minimamente legate agli obiettivi delle missioni[4]. Le sue lacrime non valgono nemmeno per più di mille persone uccise, in molti casi in modo ingiustificabile anche per le stesse categorie democratico-liberali, dalle forze dell’ordine statunitensi[5]. Non valgono per chi muore sotto le bombe dell’USAF.
E la vera lobby delle armi negli USA non è tanto l’NRA, su cui torneremo in seguito, ma è il complesso militare-industriale.
A questo bisogna aggiungere un’altra serie di considerazioni che fanno emergere il lato fortemente classista e razzista delle misure che espandono il gun control. Il meccanismo che l’executive order va ad implementare serve ad introdurre obbligatoriamente i background check in tutto il territorio statunitense e ad eliminare una serie di cortocircuiti legislativi che permettevano di acquistare molto più liberamente, evitando i controlli già esistenti (al contrario di quanto sostenuto da molti opinionisti negli USA le armi non si comprano legalmente con la stessa facilità con cui si compra il pane). I background check sono delle misure di controllo dei precedenti penali, se questi sono presenti vanno ad inficiare la vendita dell’arma. E qua sorge il problema: la polizia statunitense, a livello di contea come a livello statale, da sempre si impegna in quella simpatica pratica che si chiama “racial profiling”: se sei nero/latino/nativo vieni fermato in modo casuale per controlli di polizia, se sei pulito si 1546090_207617809426909_1183947519_ninventano qualche reato da appiopparti[6]. E parliamo di reati a volte assolutamente fantasiosi, come bere una lattina di birra in pubblico, vestirsi in modo non consono, crimini non violenti, come il consumo di droghe anche leggere. Le peculiarità del sistema penale statunitense, evolutosi insieme alle esigenze del capitale di tenere sotto controllo una crescente massa di poveri ampliatesi dopo il ciclo di crisi degli anni settanta e ottanta coincise con la deindustrializzazione e la conseguente creazione di ampie fasce di disoccupati o working-poors in aree urbane, hanno portato all’applicazione di un vero e proprio diritto penale del nemico[7]. La convergenza tra questi fattori, la War on Drugs, il patriarcato e il razzismo strutturale, presente, pur in varia misura, in tutti gli stati dell’unione, ha portato ad un’esplosione delle dimensioni della popolazione carceraria e delle persone con precedenti penali, spesso ridicoli[8]. Inoltre l’introduzione di questi controlli mette in profonda difficoltà gruppi come quelli delle sex workers che coniugano due caratteristiche: svolgere un lavoro che spesso porta ad avere piccoli precedenti penali (sopratutto per crimini non violenti quali atti osceni) ed essere estremamente esposte a rischio di aggressioni sessuali. Altra categoria che verrà colpita è quella delle persone che hanno ricevuto diagnosi psichiatriche, anche anni prima, e stiamo parlando di un paese, gli USA, dove diagnosi di questo tipo vengono distribuite con generosità e precocemente. Un paese dove è più evidente l’uso della psichiatria come mezzo di controllo sociale.
Insomma la tendenza evidenziata dalla decisione di Obama è quella di una maggiore restrizione dell’accesso alle armi per una serie di categorie oppresse, per razza, classe e genere. Cosa ci sarebbe di sinistra in tutto questo? Nulla, checché ne dicano Serra e Infoaut.
E attenzione: l’opposizione a queste misure da parte del Partito Repubblicano e della NRA è estremamente ipocrita. Nei fatti l’NRA si è ampiamente profusa, a partire dagli anni sessanta, per limitare l’accesso alle armi alla popolazione di colore, nello stesso periodo in cui emergevano i movimenti per i diritti civili, che spesso, al contrario della vulgata corrente, si appoggiavano per la difesa immediata alla possibilità di reagire manu militare ai raid del KKK[9].

Comprendere i biases
Nota metodologica: il paragrafo seguente rientra nel piano delle mere ipotesi di studio, l’autore non ha avuto tempo e modo di studiarsi articoli e libri dotati di consenso accademico in merito all’argomento trattato. Pertanto prendetelo per quel che è. Per insulti e osservazioni: ottimismo@anche.no

Il punto di osservazione europeo sugli USA è, a nostro parere, viziato da una serie di biases che vedono lo statunitense medio come una persona incapace di intendere e volere. Un’origine di questo insieme di biases può essere, forse, ricercato nel fatto che gli USA sono visti ancora in un ottica coloniale, sopratutto in Gran Bretagna. Intendiamoci: una serie di personaggi politici, di alto profilo, emersi in ambito statunitense aiutano questa tesi: detto ciò è come se si prendesse di analizzare l’intera società italiana partendo da Borghezio o quella francese partendo da Le Pen. La società statunitense è molto più variegata di quanto si possa pensare normalmente e presenta al suo interno una serie di contraddizioni che sono tutte da analizzare. La rappresentazione degli USA in Europa è, a nostro parere, soggetta ad un interessante paradosso: gli Stati Uniti sono riusciti a raggiungere l’egemonia dei paesi occidentali e del capitalismo globale tramite la notoria unione di capacità di egemonia culturale più capacità di dominio militare ma al contempo la loro egemonia culturale viene continuamente messa in discussione dagli stessi paesi europei che, grazie al legame con gli USA, sono riusciti a riprendersi dalla sconfitta della seconda guerra mondiale, a contenere l’espansione del blocco sovietico, e, sopratutto, a mantenere una posizione di forza nello scacchiere globale, pur subordinata a quella statunitense, dopo l’esaurimento degli imperi coloniali.
Questo, unito ad un antiamericanismo d’accatto presente nell’estrema sinistra, con tanto di contorno rosso-bruno e campista, che confonde le classi dominanti negli USA con quelle dominate, porta a delle chimere concettuali profondamente radicate e dannose che, paradossalmente, rafforzano la presa del potere neoliberale, inficiando le possibilità di dialogo con le realtà che negli USA si muovono sul terreno dell’autorganizzazione di classe e spostando su un piano morale e idealistico l’analisi.

Milizie e miliziani

Nel momento in cui scriviamo presso il Malheur Wildlife Refuge, in Oregon, stato rurale della costa del Pacifico, è in atto un’occupazione di terreno federale da parte di una milizia privata. Questa milizia è guidata dalla famiglia Burns, dei medi proprietari terrieri entrati in conflitto con il governo federale. Parte dell’opinione pubblica 1493126_817307944953327_710124873_nstatunitense li sta presentando come eroi, un’altra parte come terroristi. Entrambe le teorie sono a nostro parare errate. Da un lato l’utilizzo del termine “terrorismo” è fatto a sproposito: gli occupanti non hanno sparato un solo colpo e non hanno usato violenza fisica verso nessuno. Dall’alto lato lungi dal “difendere i propri diritti contro un governo tirannico” stanno perpetuando un modello di sfruttamento coloniale e razzista delle terre, il territorio occupato è storicamente di una tribù indiana, nel tentativo di metterlo a valore tramite pascoli. Un interessante articolo apparso sul sito “It’s going Down” giunge alla conclusione che:

To do this, it seems important to continue to sharpen distinctions between us and the Patriot movement.[…] It means allying with black people and other communities of color, as well as Indigenous peoples and other disenfranchised people struggling for collective liberation, including rural white opponents and potential-opponents of militia activity. Though the “anti-authoritarian” streak is strong in the militias, […] the militias’ power is reinforced by the institutional repression that backs them up. In particular, that support comes from the white supremacy of the government that would ruthlessly destroy similar dissent from communities of color. It also comes from the media, which offers them control over the stream of images, giving them full attention and preferable treatment by covering up their cracks and hypocrisies, […]. By fighting against institutional repression, we might also be able to create space for honest discussions of reactionary activity and how to confront it”

[10]. Insomma: combattere le milizie di estrema destra, problema realmente presente nelle realtà rurali statunitensi, non significa appellarsi al governo, federale o statale, che con le milizie ha molti punti di contatto strutturali, ma costruire situazioni di solidarietà nelle comunità locali, al di là delle barriere di razza imposte, per combattere contro lo sfruttamento dei vari speculatori. Questo significa togliere il terreno sotto i piedi alle suddette milizie considerando il fatto che alcuni simpatizzanti di base, non organicamente coinvolti in esse, hanno tutto l’interesse ad essere coinvolti in processi di emancipazione di carattere rivoluzionario.

Conclusioni (non definitive)

In definitiva le attuali misure che il governo federale sta tentando di imporre non possono che portare ad un peggioramento delle condizioni di vita delle classi popolari, limitando, o tentando di farlo, la capacità di autodifesa di gruppi che sono sottoposti ad oppressione strutturale. Una società sempre più massacrata dalla barbarie del capitale, sottoposta a processi di mercificazione e cicli di accumulazione di capitale che avanzano, o meglio si rilanciano, nelle zone rurali, si guardi al land grabbing legato al fracking, i cui individui sono sempre più alienati è la causa della violenza al suo interno. Appellarsi a presunti governi illuminati per risolvere alcune contraddizioni che, in qualche modo, saltano maggiormente all’occhio è inutile e controproducente. Gli Stati Uniti sono da decenni, e lo saranno ancora a medio termine, il centro dell’economia-mondo globalizzata in cui viviamo. Capire che cosa si muove al loro interno e quale è lo spazio politico dell’azione rivoluzionaria è fondamentale; necessitiamo di conseguenza l’abbandono di tutte quelle false concezioni moraliste e fallaci che spesso offuscano la capacità di analisi.

lorcon

Note:

[1]La Repubblica, Mercoledì 6 gennaio 2016
[2][2]http://tinyurl.com/infoaut-usa[3]http://tinyurl.com/wp-export
[4]http://tinyurl.com/drones-casualities
[5]http://tinyurl.com/killer-police
[6]http://tinyurl.com/academic-racial-profiling
[7]http://tinyurl.com/diritto-penale-del-nemico [autocitazione]
[8]http://tinyurl.com/qxtroo3
[9]http://tinyurl.com/racism-gun-control si veda anche http://tinyurl.com/rdk-guns
[10]http://tinyurl.com/jk6ewbv

Pubblicato in articoli, General | Contrassegnato , , , , , , | Commenti disabilitati su La propaganda alla prova dei fatti pt 2

Rompere la gabbia della guerra

In anteprima il mio pezzo sul prossimo numero di Umanità Nova (n 38 anno 95)

Rompere la gabbia della guerra

La forte concentrazione di contingenti militari di stati con interessi diversi e contrastanti in Siria ha portato all’inevitabile: uno scontro diretto. L’abbattimento di un SU-24 russo da parte di un F16 turco, con una dinamica ancora da chiarire, e il successivo dispiegamento da parte delle forze armate russe dei sistemi S-400, che con le loro capacità e il loro raggio di azione in grado di coprire tutta l’area del c.d. Levante rappresentano lo stato dell’arte dei sistemi antiaerei e antimissilistici, e il dispiegamento dei moderni SU-34 con armamento aria-aria presso Latakia sono il sintomo di una forte escalation.

In Siria oramai si giocano più partite fondamentali: il governo turco si sta giocando le ultime carte per la realizzazione del disegno neo-ottomano, con tanto di riesumazione della propaganda panturca, il governo Russo sta giocando le sue carte per mantenere un governo alleato nella regione e mantenere la sua base navale (e, ultimamente, aerea) a Latakia e presentarsi come fattore d’ordine in medioriente, insieme all’Iran, per contrastare la politica dell’insieme delle petromonarchie islamiste del Golfo, la cui politica estera è tra le maggiori cause dell’attuale situazione.

In questo si intrecciano gli interessi energetici: lo stato di tensione tra Turchia e Russia potrebbe portare al definitivo annullamento del progetto Turkish Stream, i bombardamenti russi sullo Stato Islamico hanno provocato la diminuzione dei flussi di petrolio di contrabbando verso la Turchia. Ma anche all’interno del blocco NATO vi IRA Derry 1971potranno essere cambiamenti: alcuni governi europei, la stessa amministrazione statunitense, cominciano a mostrare irritazione per le politiche spregiudicate di Erdogan ma al contempo l’Unione Europea ha bisogno dell’appoggio del governo turco per regolare il flusso di rifugiati dal medioriente. E in questo si inserisce anche la Grecia, presente sia nella NATO che nella UE, seppure con un ruolo secondario: i rapporti con i governi turchi non sono mai stati sereni, la questione cipriota non si è mai realemente risolta, le violazioni dello spazio aereo greco da parte dell’aviazione turca sono state una costante e si potrebbe creare un asse greco-russo per contrastare le velleità imperialistiche di Erdogan e della sua cricca.

La mossa di Erdogan, probabilmente già in caldo da qualche settimana, ha avuto lo scopo di intralciare una saldatura tra gli interessi russi e il rinnovato impegno francese contro il Califfato. Interessi contrastanti, il governo francese è ostile a quello di Assad, ma che potrebbero trovare un punto di accordo su un piano di transizione per la Siria che da un lato garantisca un’uscita di scena dignitosa per il presidente siriano e risolvere la questione profughi, e che dall’altro permetta di contrastare in modo più efficace lo Stato Islamico, sopratutto dopo l’attacco a Parigi del 13 novembre.

Ipotesi, ovviamente. È difficile prevedere che cosa succederà in quelle regioni da qua ad un mese, figuriamoci fare previsioni di medio periodo. Troppi i fattori in gioco, troppi gli attori, troppi gli obiettivi.

Una cosa è certa: le partite che si giocano in Siria sono dirimenti per i futuri assetti globali e per il Mediterraneo Orientale. È uno scenario che ha la stessa importanza di quello del Pacifico, area verso la quale gli Stati Uniti stanno spostando sempre più risorse, ben lieti di lasciare il posto nel pantano mediorientale alla Russia di Putin. D’altra parte le necessità energetiche degli Stati Uniti dipendono sempre meno dall’area mediorientale: gli ingenti investimenti sulle rinnovabili e le nuove tecnologie che permettono l’estrazione di petrolio sia dallo scisto che da zone oceaniche prima impraticabili hanno reso possibile una politica molto più agile agli Stati Uniti. Ovviamente permangono alcune grosse criticità: l’OPEC, a guida saudita, con la politica di compressione dei prezzi del petrolio ha colpito sia la Russia che gli Stati Uniti: l’estrazione dalle sabbie di scisto è molto più costosa rispetto a quella tradizionale e quindi è minore il guadagno per le compagnie.

Poi c’è il nodo israeliano: il governo di Tel Aviv ha interesse ad avere il vicino siriano in uno stato di caos perchè fintanto che vi sarà una guerra civile non ci sarà nessuna fazione in grado di rappresentare una minaccia. Ma intanto sempre più fonti parlano di un’espansione di gruppi legati al Califfato nei territori palestinesi, a scapito sia dei partiti palestinesi laici che di quelli islamisti. Prima o poi il governo israeliano dovrà prenderne atto e agire, anche di concerto con le autorità palestinesi.

I movimenti siriani che avevano iniziato le insurrezioni contro il regime di Assad sono finiti stritolati in una morsa: da un lato la feroce repressione governativa, dall’altro le altrettanto feroci bande islamiste al soldo degli stati del Golfo e lo stesso Stato Islamico. Nel Kurdistan siriano i processi sociali, anche con carattere rivoluzionario, pur con tutte le contraddizioni del caso, sono riusciti ad avanzare nonostante l’attacco dell’IS sponsorizzato da Erdogan. La saldatura con i movimenti sociali nel Kurdistan turco e in Turchia, le capacità militari dimostrate e l’ampio risalto internazionale hanno nei fatti costretto il governo turco a rimandare il suo piano di creare una “zona cuscinetto”, infame scusa per invadere il Rojava. La situazione di tensione che si è creata con la Russia e l’irritazione delle altre potenze NATO contribuiscono a rendere impraticabile per Erdogan questa mossa. A meno che in maniera completamente imbecille decida di aprire un conflitto a tutto campo con quello che rimane del governo di Assad, con la Russia e con l’Iran oltre a scatenare definitivamente la guerra civile all’interno del paese. Conflitto che difficilmente potrebbe permettersi. E non è detto che la grande borghesia turca e lo stesso esercito decidano che Erdogan rappresenti un pericolo per la tenuta stesso dello stato a quel punto. Perchè l’AKP ha si vinto le elezioni ma ha vinto con una maggioranza risicata e si è inimicato amplissimi settori della popolazione turca e kurda, dai lavoratori sulle cui spalle è stato costruito il boom economico e che ora subiscono la stagnazione alla borghesia liberale. Nei fatti nel Kurdistan turco vige una situazione di guerra civile, scientemente scatenata dallo stato turco, e ci vorrebbe poco perchè questa infiammi il resto del paese.

Intanto in Europa si stringe ulteriormente la maglia della repressione e delle politiche autoritarie. In Francia sono stati nei fatti sospesi le libertà civili e politiche. È la dimostrazione che solamente una costante azione diretta può preservare e ampliare ciò che si è conquistato in duri secoli di lotta contro la tirannia. In Belgio abbiamo potuto assistere alla messa in stato di assedio di un intera città, fatto che non accadeva da oramai sessanta anni. Una mossa propagandistica per coprire le abnormi lacune dimostrate dal governo belga e dei suoi apparati di sicurezza nella prevenzione del jihadismo. Una mossa con l’obiettivo di abituare ad uno stato di eccezione permanente. Ma intanto in Francia c’è chi ha dimostrato di non starci: le manifestazioni contro il COP21 e in solidarietà ai migranti di questi giorni hanno fatto emergere chiaramente che c’è chi si oppone a queste politiche autoritarie e tiranniche.

10386819_307545342703311_8766846505903096387_n

La gloriosa cavalcata verso la decomposizione. Immagine via Drawing cocks on the local newspaper

La crisi oramai generalizzata del capitalismo globale ha creato un balletto schizofrenico: un continuo stato di guerra, a lungo rimasto sotterraneo nelle zone più ricche del globo ma ora esplicitatosi, ha mandato in crisi i vincoli tra i vari stati, introdotto profonde crepe nel blocco che era uscito vincitore dalla Guerra Fredda, messo in crisi i patti sociali interni agli stati occidentali. Le Primavere Arabe, pur con il loro carico di contraddizioni irrisolte e irrisolvibili in uno scenario dominato da grandi potentati economico-politici, hanno incrinato le classi dirigenti mediorientali. Anche laddove la situazione è stata normalizzata a colpi di fucile come in Egitto permangono e si espanderanno ulteriori criticità che non renderanno vita facile all’assassino Al Sisi e alla sua controparte islamista della Fratellanza Musulmana.

Le sfide davanti a noi sono enormi: urge affrontarle, impegnarsi in una seria analisi che faccia stracci delle false concezioni dominanti all’interno dello stesso milieu della sinistra radicale, del rossobrunismo strisciante, dei rigurgiti identitari.

La guerra è sempre stata in casa nostra, i nemici hanno sempre marciato alla nostra testa.

lorcon

Pubblicato in articoli | Contrassegnato , , , , , , , | Commenti disabilitati su Rompere la gabbia della guerra

Le loro guerre, i nostri morti

Di seguito l’editoriale, apparso sul numero 37 anno 95 di Umanità Nova, scritto dal sottoscritto e dagli altri redattori di Uenne, in merito alle stragi a Parigi e in Medioriente

Le loro guerre, i nostri morti

Ancora sangue a Parigi, ancora sangue a Beirut. Nel giro di quarantotto ore lo Stato Islamico rivendica le stragi nei quartieri sciiti di Beirut, quaranta morti, e nel centro di Parigi, centoquaranta morti. Nemmeno un anno fa l’ultima eclatante azione jihadista in Europa, il massacro della redazione di Charlie Hebdo e le stragi nei negozi kosher a Parigi.

Ad inizio novembre il vigliacco attentato ad un aereo civile russo in Sinai aveva fatto altre centinania di morti. E tra questi attentati ad aerei colmi di turisti e a locali a Parigi uno 

fonte: l'internet

fonte: l’internet

stillicidio quotidiano, Beirut è solo l’ultimo, in tutto Bilad al-Sham(il cosiddetto Levante di eurocentrica memoria essendo la sponda orientale del Mediterraneo, l’antica provincia settentrionale dei Califfati Omayyadi e Abbasidi, che comprende le regioni storiche di Siria e Palestina, attuale Libano compreso) e Iraq.

Ma intanto numerose sono state le sconfitte subite dal califfato sul campo. Le popolazioni del Rojava hanno resistito agli assalti e agli assedi e hanno ricacciato le truppe di Daesh oltre l’Eufrate in una fascia di decine di chilometri; hanno liberato tutto il corridoio dall’Eufrate al confine con l’Iraq in cui la Turchia confina con la Siria, creando enormi difficoltà logistiche per gli islamisti; le milizie degli Yazidi, oggetto di un vero e proprio genocidio da parte islamista neanche un anno fa, hanno riconquistato le loro terre, agendo insieme alle milizie dei cantoni confederati curdi e ad unità del governo regionale curdo in Iraq, e tagliando in due il territorio dello Stato Islamico, dividendo le due principali città, Raqqa e Mosul.

Per il Califfo Abu Bakr al-Baghdadi i tempi sono cupi. La grande scommessa fatta dalla sua organizzazione è stata la creazione di un nucleo territoriale in cui restaurare l’islam medioevale, in cui fondarsi come stato. E così è stato: la capacità di controllare le risorse economiche del territorio, il tentativo di omologazione della popolazione tramite l’eliminazione fisica o l’espulsione forzata dei culturalmente diversi, cristiani e yazidi, la pacificazione dei conflitti tribali, il drenaggio di risorse economiche tramite la fiscalità. Ma tutto questo ha avuto un prezzo: l’ISIS si è innalzato in potenza ed è arrivato a preoccupare gli stessi che l’hanno finanziato come le petromonarchie teocratiche del Golfo Arabico. Ma ancora conta alleati in regione: la Turchia di Erdogan continua a chiudere due occhi sulle basi logistiche del califfato sul territorio turco, continua ad aiutare sottobanco l’ISIS per colpire i processi rivoluzionari in corso nel Kurdistan e nel tentativo di dare una spallata finale al regime di Assad in Siria. Gli stati a governance sunnita, o per lo meno frazioni delle loro classi dominanti, continuano ad usare l’ISIS e le organizzazioni similari in funzione anti-iraniana, e notiamo di sfuggita la coincidenza delle stragi a Parigi con la programmata visita in Europa del presidente iraniano, ad ora rimandata. Il governo israeliano se ne sta in disparte: fintanto che si massacrano nelle sue immediate vicinante non potrà emergere nessun attore in grado di sfidarlo manu militari come fece Hezbollah nel 2008. E il Califfato sa benissimo che non può permettersi di affrontare sul campo, nella zona vicino al Golan dove Israele e Califfato confinano, l’esercito di Tel Aviv: l’abnorme disparità di forze, tecnologie e capacità militari porterebbe alla disgregazione immediata delle truppe islamiste.

Ma se sul campo si prendono le bastonate dalle milizie dei cantoni confederalisti-democratici, dai peshmerga del governo regionale del Kurdistan iracheno e dalle milizie sciite irachene (braccio armato dell’Iran sul fronte iracheno ma accusate di pulizia etnica verso i sunniti, soprattutto durante la riconquista di Tikrit) coordinate con l’esercito siriano e con il supporto aereo, molto contraddittorio al suo interno, della Coalizione Internazionale e della Russia, che cosa cosa rimane al Califfo? Resistere sul campo, certo, e resisteranno ancora a lungo perchè nei fatti si sta instaurando un equilibrio di forze, ma anche provare a mascherare le sconfitte con qualche azione spettacolare nel cuore dell’Europa; provare a mantenere l’immagine di invincibilità derivata dai successi militari di un anno e mezzo fa.

Molti di coloro che in Europa e in Nord Africa, i due attacchi della primavera ed estate scorsa in Tunisia sono emblematici, erano sensibili alle sirene del Califfo sono emigrati nei territori sotto il suo controllo, alcuni sono tornati con addestramento, soldi e contatti, e hanno aggregato a loro altre persone. In questo si mistificano contemporaneamente due fatti. Il primo è che le intere comunità musulmane europee siano il nemico interno: una banale questione di numeri lo dimostra dato che gli islamici europei radicali, più o meno militanti, sono poche migliaia a fronte di una comunità di decine di milioni di individui, concentrati sopratutto in Francia, Regno Unito e Germania. Il secondo fatto che viene demistificato è che le misure di intelligence messe in campo dai governi occidentali siano di alta qualità. Un attacco alla sede di Charlie Hebdo e la successiva strage al’Hyper-Kosher potevano essere compiuti da pochi individui con armamenti leggeri e un minimo di addestramento base e in questo più difficilmente individuabili mentre i sette attacchi coordinati di venerdì 13 hanno necessariamente visto la partecipazione di decine di persone, anche con capacità tecniche non comuni, per procurare armi, munizionamento ed esplosivo, mezzi logistici. Le notizie al momento in cui questo articolo vengono scritto dicono che l’intelligence irachena avesse avvisato le sue controparti europee già giovedì che qualcosa di grosso sarebbe successo a breve dato che al-Baghdadi aveva ordinato rappresaglie contro i paesi impegnati a colpire gli obbiettivi islamisti, quindi non solo paesi NATO e arabi ma anche Russia e Iran; inoltre pare che la mente dell’attacco sia un belga residente nei territori dello Stato Islamico. Come mai l’intelligence francese, che pure ha un’esperienza decennale con il jihadismo a causa della guerra civile in Algeria negli anni novanta, non ha individuato quello che si stava preparando? Eppure gli ipertrofici e policentrici apparati di sicurezza dispiegati in tutto il mondo occidentale non dovrebbero servire proprio a questo? Le legislazioni antiterrorismo non dovrebbero servire appunto a colpire questa gentaglia? A quanto pare, invece, sono più funzionali per estendere un apparato di vigilanza continuo su tutta la popolazione che per bloccare una banda di tagliagole.

Il paradigma della “guerra al terrore” da cui derivano legislazioni e pratiche emergenziali, e il conseguente stato di eccezione, più o meno permanente, è finalizzato ad un maggiore disciplinamento dei dominati all’interno degli stati occidentali più che alla difesa da un qualunque nemico esterno, ed è servito, in Afghanistan e Irak, a fornire la copertura ideologica per un’operazione di predazione imperiale atta a conseguire un maggior controllo sulle risorse energetiche e a fornire un momento di accumulazione all’industria bellica statunitense. Inoltre la paura, il terrore, la guerra si possono mettere a valore. Il mercato della sorveglianza di massa, che sia condotto da aziende squisitamente private come le grandi multinazionali statunitensi o di carattere parastatale come Finmeccanica o altre aziende europee, ha subito un’impennata da quell’oramai lontano settembre del 2001, insieme al settore della difesa privata, comprese le aziende che forniscono esclusivamente sistemi e piattaforme logistiche per gli eserciti. Hollande, dopo aver fatto bombardare Raqqa per tutta la notte, ha dichiarato che “la Francia è in guerra”, “chi sfida la Francia sono solo i perdenti della Storia”, e chiede di modificare gli articoli 13 e 36 della Costituzione Francese, proprio quelli che disciplinano i poteri presidenziali e lo stato d’emergenza e di guerra, col fine dichiarato di poter prorogare lo stato d’emergenza per i prossimi tre mesi oltre i dodici giorni che la prassi prevede per decisione presidenziale e senza approvazione del parlamento. http://www.corriere.it/esteri/15_novembre_16/attentati-parigi-hollande-isis-ci-combatte-diritti-dell-uomo-279939f6-8c73-11e5-b416-f5d909246274.shtml http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/16/attentati-a-parigi-hollande-al-parlamento-la-francia-e-in-guerra/2224486/

La logica dell’emergenza è servita a disciplinare e mantenere in uno stato subordinato il Kuniyoshi_Utagawa,_Dragon_2proletariato immigrato e i suoi figli delle periferie. È servita a tenere una costante tensione interna al proletariato europeo e a dividerlo su base etnica. E in questa logica rientra anche, in modo edulcorato e addolcito, il paradigma multiculturale caro alla sinistra progressista: mantiene una divisione in frazioni etnico-religiose delle classi subalterne e crea nuovi corpi separati e intermedi costituito dall’associazionismo religioso, nel tentativo di disinnescare i conflitti di classe interni alla popolazione di origine immigrata. Lampante il caso del deputato del PD Kalid Chaouki, che finita la gavetta che lo vede fondatore e poi presidente dell’associazione “Giovani musulmani d’Italia” e membro della “Consulta per l’Islam italiano” presso il Ministero dell’Interno, incomincia quella giornalistica e politica nei ranghi del PD fino a diventare deputato e responsabile nazionale immigrazione del partito: vedasi http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/16/attentati-parigi-chaouki-pd-musulmani-scendano-in-piazza-senza-di-loro-esercito-e-intelligence-non-bastano/2224159/.

Che i morti siano parigini o abitati di Beirut o di qualche sperduto villaggio siriano o, ancora, degli affogati nel Canale di Sicilia a noi non interessa.

Non interessa perchè ovunque sono loro a guadagnarci dalle guerre, ovunque siamo noi a subire quelle guerre. Ne consegue che ovunque ci dobbiamo opporre alle loro guerre e affermare la necessità e la volontà di costruire una società radicalmente diversa: laica, pluralista, solidale, senza frontiere, egualitaria e libera. Una società in cui tutti possano soddisfare i propri bisogni e perseguire i propri desideri.

Per questo è necessario ampliare le lotte e disinnescare i meccanismi securitari, classisti e razzisti che si fondano sulla creazione di un discorso nazionalista, sulla retorica dell’unità nazionale, sulla cooptazione della popolazione nelle logiche di guerra. È necessario e doveroso denunciare che la canea fascista europea è speculare alla canea islamofascista: entrambi sono portatori di una visione bigotta, reazionaria e classista dei rapporti sociali. È necessario denunciare che la logica del terrorismo risiede nelle strutture sociali su cui si mantiene l’ordinamento globale. È necessario affermare il valore della diserzione dalle loro guerre, del superamento del supremo spettacolo del terrorismo e dell’antiterrorismo, e rifiutare sia il ruolo di vittime passive della macelleria islamista che di carnefici al soldo delle classi dominanti occidentali.

La Redazione Collegiale di Umanità Nova

Pubblicato in articoli | Contrassegnato | Commenti disabilitati su Le loro guerre, i nostri morti

UrbEx Officine Meccaniche Reggiane

In quel di Reggio Emilia a nord rispetto alla stazione FS abbiamo quelll’enorme monumento Re.2000_propagandaalla deindustrializzazione che sono i capannoni abbandonati dell Officine Meccanche Reggiane (o OM Reggiane). Da importante centro industriale della prima metà del novecento dove venivano costruiti aerei militari (tra cui i famosi Caproni) materiale ferroviario e grandi strutture, bombardata dagli alleati e teatro di una strage compiuta dall’esercito badogliano il 28 luglio del 43 a danno dei lavoratori e delle lavoratrici in sciopero, a polo delle lotte operaie dei primi anni cinquanta (la famosa occupazione e il famosissimo trattore autocostruito R60) alla normalizzazione voluta dall’intero arco costituzionale negli anni 50 e 60 fino alla nuova conflittualità operaia negli anni settanta e ottanta. Da importante centro produttivo, uno dei più grossi della regione, con un indotto mostruoso e migliaia di operai, alle restrutturazioni industriali degli anni 90, con privatizzazioni e passaggi di mano tra vari proprietari. Da un decennio circa sono cessate tutte le attività e i capannoni e le palazzine uffici sono diventate rifugio per un numero non ben quantificato di persone senza casa e polo d’attrazione per decine di writers che hanno prodotto opere notevoli. Ciclicamente i tromboni del comune reggiano in concorso con i tromboni dell’UniMoRe, e ultimamente ri rockers da strapazzo come Ligabue, cianciano di riqualificazione, costruzione di un centro eventi, espansione di un tecnopolo. Peccato che il sito è enorme, pieno di amianto e con i terreni impregnati di olio minerale e altre sostanze chimiche. Paradossalmente la soluzione ideale sarebbe quella di non fare niente nell’area se non lasciare i writers fare i writers, costruire soluzioni abitative dignitose per chi ci abita suo malgrado dentro, e, magari, fare un museo dell’industria, che male non fa, dentro gli ex uffici. Qua sotto una selezione di foto della minima parte di capannoni che ho visitato con altri compari nei giorni scorsi

 

urbex_om_re_18

 

urbex_om_re_0

 

urbex_om_re_1

urbex_om_re_13

foto non scattata da me. il sottoscritto appare nell’alquanto inedito ruolo di soggetto.

urbex_om_re_2 urbex_om_re_3 urbex_om_re_4 urbex_om_re_5 urbex_om_re_15

urbex_om_re_10  urbex_om_re_12 urbex_om_re_11 urbex_om_re_6 urbex_om_re_7 urbex_om_re_8 urbex_om_re_14urbex_om_re_17 urbex_om_re_16

Pubblicato in General | Commenti disabilitati su UrbEx Officine Meccaniche Reggiane

La propaganda alla prova dei fatti

Questa è la prima parte di un lavoro diviso in due parti sulla questione della diffusione delle armi da fuoco negli Stati Uniti. La seconda parte si trova qua.

Articolo apparso su Umanità Nova numero 31 anno 95

Armi negli Stati Uniti

La propaganda alla prova dei fatti

[…]La Home Guard può esistere solamente in un paese dove gli uomini si considerino liberi. Gli stati totalitari possono fare grandi cose ma ce ne è una che non possono fare: non possono dare al proletario un fucile e dirgli di tenerlo a casa, di tenerso nella camera da letto. Il fucile appeso al muro dell’appartamento di un operaio o nel suo cottage è il simbolo della democrazia. É nostro dovere fare in modo che stia lì.”

George Orwell, traduzione a cura dell’autore dell’articolo

La Home Guard era la milizia territoriale creata durante la seconda guerra mondiale per la difesa del territorio della Gran Bretagna da una possibile invasione da parte dell’Asse. In essa un pensatore socialista, libertario e democratico radicale come Orwell, forte dell’esperienza maturata nella Catalogna rivoluzionaria, vedeva la base stessa della difesa non solo dalla “bestia nazifascista” ma da qualsiasi attacco alle condizioni di vita della classe lavoratrice, da qualsiasi atto autoritario. Una simile concezione, scevra spesso dagli elementi di classe, è largamente presente tra la popolazione statunitense. Negli ultimi anni abbiamo assistito a continue polemiche riguardo alla diffusione delle armi negli USA e pensiamo che sia l’ora di mettere a fuoco una serie di problemi largamente taciuti sia da parte dei settori della destra del Democratic Party che da parte del Republican Party. Innanzi tutto prenderemo in analisi i dati e le statistiche riguardanti la diffusione delle armi da fuoco e degli atti di violenza, poi passeremo ad un’ipotesi di lavoro tesa a spiegare le differenti posizioni in merito alla questione e, infine, ad un’ipotesi di lavoro in merito alle contraddizioni presenti.

I dati

Secondo le statistiche compilate dal Centers for Disease Control (CDC) e dal Boreau Justice Statics statunitensi in questi anni c’è stato il più basso numero di crimini con uso di armi da fuoco, e questo nonostante il bando sulle armi full-auto voluto dall’amministrazione Clinton nel 1994 sia scaduto nel 2004. Tanto per dare qualche dato: 18.253 omicidi nel 1993 contro 11.101 omicidi nel 2011 e un milione e mezzo di vittime di crimini non fatali commessi con armi da fuoco (ferimenti, rapine a mano armata eccetera) nel 1993 contro i 467.300 del 2011. Le sbandierate trentamila morti l’anno causate dalle armi da fuoco negli USA, nel 2010 sono state 31,672 ed erano così composite: 19,392 suicidi, il restante omicidi. E in mezzo a questi dati ci sono anche tutti gli omicidi commessi per autodifesa contro un assalitore armato. E la provenienza per le armi usate per commettere reati? I dati più recenti, che purtroppo risalgono al 2004, e ci danno questo quadro: 10% da rivendite come i banchi dei pegni, 37% ottenuto in vario modo, quindi anche non consenziente, da familiari, 40% dal mercato illegale.1

//// Aggiornamento con i dati 2016, inseriti il 6/10/2017 ////

Tenendo sempre per buoni i famosi 30.000, equivalenti allo 0.000000925% della popolazione totale, morti per armi da fuoco all’anno come dato di massima nel 2016 abbiamo avuto la seguente composizione:

il 65 % di questi sono stati suicidi
15% sono stati morti causati da agenti di polizia (di qualsiasi livello) in servizio (legalmente parlando non sono crimini ma va necessariamente aperta una questione sul perché la polizia statunitense ammazza così tanto, cosa che ho fatto qui https://photostream.noblogs.org/2013/10/geneaologia-della-violenza-poliziesca/ , qui https://photostream.noblogs.org/2016/07/black-lives-matters/  e qui https://photostream.noblogs.org/2016/07/la-stretta-autoritaria-negli-usa/ )
17% omicidi volontari in vari contesti e con armi ottenute dalle più svariate fonti (per quanto riguarda gli omicidi nell’ambiente della criminalità quasi esclusivamente da fonti illegali)
3% morti accidentali

Il 17% equivale a 5100 morti sul territorio federale e il 25% di questi omicidi è concentrato in quattro città: Chicago (9,4% con 480 omicidi), Baltimora (6,7 con 344 omicidi), Detroit (6,5 con 333 omicidi) e Washington D.C (2,3 % 119 omicidi). Tutte e quattro queste città si trovano in stati con delle leggi sul controllo delle armi piuttosto restrittive (Washington per altro non appartiene a nessuno stato, è distretto federale). Baltimora, Detroit e Chicago sono città con un tessuto sociale che è stato letteralmente devastato negli ultimi 30 anni, tra delocalizzazioni e epidemie di consumo di stupefacenti (con annessi conflitti tra gang). A proposito di epidemie di consumo di stupefacenti il New York Times riporta (https://www.nytimes.com/interactive/2017/06/05/upshot/opioid-epidemic-drug-overdose-deaths-are-rising-faster-than-ever.html) che nel 2016 ci sarebbero state più di 59.000 morti dovute a overdosi di stupefacenti, legate alla nuova ondata nella diffusione di oppioidi (fentanyl, oxycodone che hanno largamente sostituito l’eroina in una dinamica che è tutta da analizzare) con un aumento del 19% rispetto al 2015. A queste va aggiunto il numero di morti dovute alle conseguenze a lungo periodo del consumo di oppiacei (problemi epatici, AIDS, infezioni, problemi circolatori, incidenti) in un paese dove l’accesso alla sanità è legato alle disponibilità finanziarie e dove il problema delle dipendenze è stato sempre affrontato con un rigoroso proibizionismo (tolto per il THC in alcuni stati e negli ultimi anni). Si muore dodici volte di più per la nuova epidemia di oppiacei che per le famigerate armi da fuoco, anche considerando picchi statistici come i grandi mass shooting (sulla cui definizione si torna poco più avanti). Si muore per le logiche del nostro modo di produzione. Le fonti dei dati di questo aggiornamento sono sempre le statistiche del CDC.

//// Fine editing 6/10/2017///

Insomma a fronte di un generale incremento delle armi in circolazione negli Stati Uniti, 310 milioni nel 2009, il doppio che nel 1968 e molto maggiore rispetto agli stessi anni novanta, il tasso di omicidi commessi con armi da fuoco è sceso del 49% dal 1993 al 20112. E i così detti “mass shooting”, ovvero quegli eventi che periodicamente riempiono le cronache di quotidiani e tv? Secondo quanto affermato dalla propaganda di Obama e dei suoi sodali sarebbero aumentati e diventati routine. Ma qua interviene un piccolo problema: come viene definito un “mass shooting”? È definito come una sparatoria in cui siano coinvolte almeno quattro persone, quindi qualsiasi conflitto tra gangs nelle aree metropolitane, quelle devastate dal deserto sociale per intenderci, a livello statistico viene definito un “mass shooting”; è facile capire, a questo punto, come i dati a questo punto risultino falsati dato che parliamo per lo più dei così detti “omicidi razionali”, ovverosia omicidi avvenuti per interesse economici e non per follia dell’esecutore, e che sono commessi per lo più con armi ottenute tramite canali illegali, l’esatto contrario della favoletta propagandata da certi settori del Democratic Party. La cosa preoccupante però è che soltanto il 12% dei cittadini americani è conscio del fatto che il tasso di omicidi commessi con armi da fuoco è calato enormemente dal 1993 mentre il 56% è convinto che sia aumentato.3

Bene, questi sono i dati, e di questi bisogna tenere conto prima di aprire una qualsiasi discussione.

Percezione dell’insicurezza e democrazia clientelare

Ora possiamo passare al piano delle ipotesi. Nella nostra opinione è evidente che la politica securitaria, quell’abominio politico che si fonda sulla consapevole distribuzione di notizie, tendenziose o direttamente false, tese ad aumentare il sentimento di insicurezza e paura tra la popolazione, sta continuando a fare i suoi danni dato che a livello di percezione si è convinti che gli omicidi siano aumentati quando in realtà si sono dimezzati. I mass media continuano a rappresentare le strade cittadine come un’orgia di sangue e violenza recapitata gentilmente a domicilio da piccoli delinquenti strafatti di crack quando i crimini sono diminuiti. A chi persegue la costruzione di una società militarizzata, dal conservativegunsgoverno federale con i suoi freddi burocrati o da quello statale con i suoi sceriffi alcolizzati, a chi come i liberal alla Clinton o come certi editorialisti del Washington Post, toglierebbe le armi a tutti per lasciarle solo alle forze armate federali e alle polizie locali a chi, come la Palin o Trump, darebbe le armi a qualsiasi maschio bianco cristiano e le toglierebbe volentieri a qualsiasi afroamericano o ispanico o nativo, sopratutto se povero, questa percezione fa comodo. La disinformazione e l’insicurezza diffusa sono i migliori strumenti per chiunque abbia un’agenda politica autoritaria.

Inoltre bisogna tenere conto di altri fattori per comprendere le differenti agende politiche dei democratici e dei repubblicani in merito alla questione delle armi, sopratutto quali sono le circoscrizione in cui prendono più voti. Al netto di un astensionismo intorno al 50% i Democratici si sono consolidati nelle aree urbane mentre i Repubblicani sono forti in ambito rurale. In mezzo a tutto questo bisogna tenere conto che le circoscrizioni elettorali americane sono disegnate in un modo che a primo occhio appare completamente irrazionale e che in realtà risponde alla logica delle lobby, non necessariamente rappresentanti del grande capitale ma anche di gruppi di interesse popolari e locali, e del fenomeno collegato del gerrymandering, le due grandi costanti della storia politica statunitense. Ora, a partire dagli anni settanta nelle aree urbane c’è stato un incremento della sensazione di insicurezza, per un periodo anche giustificato dai fatti, che ha portato ad avere i “rappresentanti delle comunità locali”, ovvero quelli che procacciano voti e detengono pacchetti di voti, preoccupati in merito alla diffusione delle armi da fuoco. Al contrario nelle aree rurali, comprese quelle storicamente depresse, questa sensazione è stata molto meno presente e il pericolo è visto sopratutto nello straniero, in chi ha una religione diversa o non ne ha una, nelle propaggini del governo federale. E al contempo nelle aree rurali detenere armi da fuoco è perfettamente normale data la forte tradizione venatoria e i retaggi della mentalità da pionieri.

La doppia contraddizione

Ora, teniamo conto di una cosa: l’ideologia americana radicata in ampissime parti della popolazione, a prescindere dalla collocazione di classe, è, a vario livello, antistatalista. La Carta dei Diritti, l’insieme degli emendamenti della costituzione statunitense in merito ai diritti individuali, è l’unica carta costituzionale al mondo che non solo riconosce il diritto all’insurrezione armata contro il governo ma che fornisce anche una copertura legale e ideologica agli strumenti per metterla in atto, l’organizzarsi in milizie armate. Chi scrive questo articolo non è certo un fan delle costituzioni ma bisogna ammettere che il secondo emendamento è fortemente indicativo della mentalità antistatalista che alberga in moltissimi statunitensi. Eppure questo sentimento è spessissimo legato ad un fortissimo patriottismo e ad una visione quasi randiana dell’economia, in una contraddizione tutta da affrontare. Il problema è che la sinistra americana, e intendo tutto quello che si muove alla sinistra della sinistra del Democratic Party, ha per lo più preferito concentrarsi sull’analisi del proprio ombelico e in deliri liberal/lifestyle in merito a qualsiasi cosa al posto di togliersi la molletta dal naso e andare a parlare con i proletari delle zone rurali che sono così rozzi e poco politically correct ma che non hanno altro da perdere che le loro catene fatte da piccoli-medi imprenditori locali, altri “rappresentanti delle comunità locali” di cui sopra, e dalle propaggini di qualche grande industria che ha spostato gli stabilimenti in zone storicamente poco sindacalizzate. E che al contrario di molti liberal-progressisti, diffidano istintivamente per l’azione statale.4

In mezzo a questo abbiamo poi altre due grandi questioni: quella dell’oppressione di razza e quella dell’oppressione di genere. I nostri biases sugli USA ci portano a pensare al possessore medio di armi come ad un redneck con posizioni politiche da Ku Klux Klan, che quando non è impegnato a bere whisky moonshine picchia la moglie con la cinghia. Il punto vero è che storicamente la possibilità di detenere e portare armi è stato un’importante fattore nei movimenti di emancipazione degli afroamericani in quanto era la base per costruire le squadre di autodifesa che agivano nelle zone rurali degli stati del sud per difendere i centri di aggregazione delle comunità nere, scuole, sale civiche e
congregazioni religiose, e le stesse abitazioni della comunità afroamericana. L’autodifesa armata è stata una tematica che ha attraversato trasversalmente le lotte dei neri: dal reverendo Martin Luther King, non violento ma non masochista che dopo un attacco alla sua casa si comprò svariate armi, ai settori più radicali e a tratti militaristi delle Black Panthers, che disposero che ogni membro dovesse armarsi. Stessa dinamica c’è stata per il movimento di emancipazione degli indigeni nel corso degli anni settanta, uno dei grandi rimossi della storia contemporanea statunitense.

Anche nell’ambito della risposta immediata all’oppressione di genere, l’autodifesa femminile davanti alle aggressioni, bisogna tenere conto dell’enorme numero di donne, sopratutto di fasce povere, che grazie alla detenzione di armi riescono a reagire e a fermare a tentativi di violenza.

Inoltre la visione liberal sui detentori di armi, spregiativamente chiamati gun-nuts5, ha un profondo substrato di odio di classe e razzismo nei confronti delle decine di milioni di proletari americani che vivono al di fuori dei confini delle grandi città metropolitane sulle coste, che hanno un diploma superiore da scuola pubblica o al più un diploma di un community college, che lavorano nell’agricoltura e nel settore industriale. Persone, di qualsiasi gruppo etnico, viste tramite l’ottica di una mentalità coloniale, incapaci di autoemancipazione, da educare e disciplinari alle magnifiche sorti progressive.

Negli Stati Uniti esiste un problema di violenza? Certo: in questi anni è toccato il picco dei morti causati dalla polizia6, coincidente con il picco in negativo dei poliziotti morti o feriti durante il servizio7, alla faccia della “war on cops” tanto sbandierata dalla Fox News, un numero altissimo e non facilmente quantificabile di statunitensi, di tutte le etnie, è costretto a vivere nei “trailers park” dove le condizioni di vita, tra lavori sottopagati e abbrutimento, spingono verso la violenza, il razzismo è sempre questione attuale, così come l’oppressione di genere, decine di migliaia di ragazzi ogni anno si trovano davanti alla necessità di arruolarsi come carne da cannone nell’esercito per potersi pagare gli studi o mettere da parte il tanto necessario per comprarsi una casa, migliaia di veterani delle ultime guerre si ritrovano senza sussidi sociali (il tasso di homelessness tra i veterani è molto alto8). E la galleria potrebbe tranquillamente continuare.

Insomma: la violenza è strutturale e quotidiana, e nel 99,999% non data da pazzi armati che sparano ai compagni di classe, come in qualsiasi società basata su una non equa distribuzione delle risorse e su sistemi politici autoritari.

lorcon

L’analisi continua qua

1 http://tinyurl.com/cqcbfr8

2 http://tinyurl.com/pvz6ll4

3 http://tinyurl.com/pvz6ll4 e http://tinyurl.com/kdnkcae

4 Si veda a tal proposito l’ottimo libro “La bibbia e il fucile” di Joe Bageant, Bruno Mondadori, 2010, che esplora gli aspetti meno conosciuta dell’”America profonda”

5 https://libcom.org/library/rednecks-guns-other-anti-racist-stories-strategies

6 http://killedbypolice.net/

http://www.nleomf.org/facts/officer-fatalities-data/year.html

http://www.va.gov/HOMELESS/docs/2010AHARVeteransReport.pdf

Pubblicato in articoli | Contrassegnato , , , , | Commenti disabilitati su La propaganda alla prova dei fatti