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Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Umanità Nova numero 28 anno 96

Don’t scab for the bosses / Don’t listen to their lies / Us poor folks haven’t got a chance / Unless we organize”

Florence Patton Reece

10641177_10151993272672325_8400985847101711285_nSabato 17 settembre, Piacenza, davanti alla stazione della città lombardo-emiliana inizia, sotto un sole rovente, il concentramento del corteo indetto dall’USB per portare in città la vertenza dei facchini della GLS. Il mercoledì notte precedente Abd Elsalam Ahmed Eldanf, cinquatatreenne padre di cinque figli, era morto investito da un camion del corriere durante un picchetto ai cancelli.

I numeri del concentramento aumentano di minuto in minuto, giungono delegazioni di lavoratori della logistica da tutto il distretto piacentino e lombardo, delegazioni di sindacati di base, lavoratori autoconvocati, molti centri sociali emiliani e lombardi. Presente anche una delegazione dei compagni dei lavoratori autoconvocati di Milano, comrpresi molti compagni dell’USI e dell FAM. Ovviamente assenti i sindacati della triplice. Clima teso: la stazione è blindata, evidentemente si teme un tentativo di bloccare il fondamentale snodo ferroviario. Ma blindate sono anche le vie intorno, una capillare campagna di terrorismo, con tanto di delirante comunicazione della Confesercenti sul previsto arrivo di “mille-millecinquecento black block [sic!]” ha portato molti commercianti ad abbassar serranda.

Il corteo parte, si ingrossa mano a mano, i numeri fin da subito si capisce che sono alti: qualche migliaio di persone. E non è poco per un corteo indetto neanche quarantotto ore prima, che quindi motivi ha mobilitato per lo più chi risiede nel raggio di poche centinaia di kilometri. Ma sopratutto i protagonisti del corteo sono i lavoratori della logistica: tanti, determinati, incazzati. Non il frammentato ceto politico del sindacalismo di base di derivazione M-L ma i lavorato stessi creano l’unità di ranghi e lotte. Piacenza è una città a cavallo tra la Lombardia, il Piemonte e l’Emilia Romagna. Snodo ferroviario e autostradale tra Torino, Milano e Bologna. Nell’ultimo decennio il settore della logistica, già attivo in città, si è cresciuto: grandi colossi internazionali hanno qua portato le loro piattaforme logistiche. Amazon, Ikea, corrieri di grosse dimensioni come GLS, BRT, TNT. Il settore industriale locale, meccanica, energia, vetro, cemento, da il suo contributo.

I lavoratori della logistica sono quelli che permettono ad Amazon di consegnare la merce in meno di ventiquattro ore dall’ordine, il basso costo di spedizione pagato dal cliente è permesso dallo sfruttamento pesantissimo a cui soggiaciono questi lavoratori. La logistica è un settore sempre più importante per l’economia odierna, per quanto spesso ci si racconti la favola di un’economia completamente digitale. La lotta dei lavoratori della cooperativa che lavora alla piattaforma logistica GLS, cooperative farlocche come tante in questo ambito, è una delle tante lotte che negli ultimi anni ha investito il settore della logistica nel distretto piacentino. Lotte spesso vittoriose grazie alla capacità di resistenza, alla volontà di lotta, dei lavoratori che non si sono fatti intimidire dalle sp1920531_274694176026816_506172199_nrangate e dalle minacce di crumiri e strikebreakers, non si sono fatti intimidire dalle manganellate di celerini e carabinieri, dalla mancanza di solidarietà, anche a parole, da parte della triplice sindacali, che nella vertenza Bormioli pensò bene di sfilare a fianco dei padroni per chiedere la fine delle agitazioni, tanto per dimostrare ancora una volta che cosa sia la concertazione sindacale.

Abd Elsalam è stato il primo morto di queste lotte dei lavoratori della logistica. Ma ci si era andati vicini altre volte, la pratica di fare avanzare i camion contro i picchetti non è nuova. La risposta c’è stata, compatta e forte. Se c’è una cosa che le lotte della logistica insegnano è che rilanciare la lotta in campo economico è possibile, difficile, ma possibile.

Certo, le contraddizioni ci sono. Il proletariato della logistica è per la maggior parte di origine immigrata, spesso i padroni e padroncini hanno sfruttato divisioni interetniche, benagalesi contro indiani, indiani contro pakistani, pakistani contro magrebini. Durante il corteo un gruppetto lanciava la shahada, la dichiarazione di fede islamica, a mo’ di slogan, ad intervallare gli slogan “GLS mafia” e il sempreverde “pagherete caro, pagherete tutto”. Contraddizioni che vanno superate e chi è internazionalista può farlo molto meglio di chi si rifugia nei miti sovranisti e terzomondisti.

Nei mesi scorsi molto si è parlato, ma non abbastanza e spesso ad mentula canis, di Giulio Regeni, partito dall’Italia per andare a studiare i sindacati indipendenti egiziani e ucciso dagli sgherri del governo del Cairo. Abd Elsalam era partito dall’Egitto con la famiglia, lavorava alla GLS di Piacenza, e quella notte era a protestare a fianco dei suoi compagni pur non essendo coinvolto direttamente dalla vertenza, per solidarietà nei confronti dei colleghi. Regeni poteva fare il dottorato su qualcosa di meno pericoloso e Abd Elsalam poteva starsene a casa o andare a lavorare al posto di scioperare per una vertenza che non lo riguardava di persona. Entrambi hanno fatto la scelta di campo. E noi con loro.

lorcon

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Messico, tra crisi istituzionale e spinte autogestionarie

Questa intervista è stata originariamente pubblciata su Umanità Nova numero 28 anno 96

Pubblichiamo di seguito l’intervista a due compagn* della Federazione Anarchica Messicana, realizzata nell’agosto del 2016, sull’esplosiva situazione del paese mesoamericano. L’intervista, ovviamente, non è e non può essere esaustiva sulla complessa situazione del Messico ma affronta da una prospettiva anarchica i principali punti nodali degli ultimi anni: le riforme strutturali, l’ultima in ordine di tempo è quella dell’istruzione, la questione della distribuzione delle terre, il narcotraffico, la questione indigena, la violenza di genere.

lorcon

D: Come vi state organizzando come movimento anarchico in Messico? Quale è la situazione nel paese?

R1: Il Messico si trova in questo momento sull’orlo della guerra sociale, questo è dovuto ad un capitalismo rapace e selvaggio, che ha infettato la vita di tutti i settori sociali: nel lavoro, nell’educazione e nell’ambito rurale, contadino c’è la confisca delle terre ai contadini, garantita per legge. Il narcotraffico così come controlla i quartieri controlla lo stato, in Messico lo chiamiamo “narco-stato”. Questo sistema ha provocato dal 2006 ad oggi, in dieci anni, la morte di più di 130.000 persone, 130.000 morti per mano di sicari. Ci sono ad oggi più di 25.000 desaparecidos e sono la conseguenza di ciò che è in voga oggi in Messico: un narcotrafficante vuole manodopera economica, entra con una camionetta piena di sicari, gente armata in un paesino e si porta via la gente, se li porta a lavorare in condizione di schiavi e se qualcuno si rifiuta lo assassinano e sepelliscono in una fossa. Quando sparirono i 43 compagni della Scuola Normale rurale di Ayotzinapa, in tanti abbiamo solidarizzato con i famigliari dei desaparecidos, ma i desaparecidos non erano solo 43 ma in totale sono tra i 25.000 e i 30.000.

R2: Questo sistema provoca anche l’assassinio sistematico di donne, questo per la tratta della prostituzione… ed è il prodotto dell’impunità perché non è possibile legalmente a oggi denunciare un compagno, un padre o un fratello violento e quindi molte donne vengono uccise dai propri famigliari, i compagni o per effetto della scomposizione sociale che sta generando lo stato messicano; questa scomposizione provoca la rottura dei legami sociali, della collettività.

R1: Solo per dare un’idea di quanto sta dicendo la compagna, in una località del Messico da gennaio ad aprile di quest’anno quasi 12.000 donne sono state uccise per la loro condizione di donne, quello che adesso in Messico è conosciuto come femminicidio.

R2: In tale contesto come anarchici stiamo incidendo in maniera diretta sia nelle comunità indigene sia lavorando in certi settori sociali non solo per accompagnare queste lotte ma per posizionarci in modo anarchico nella discussione, nell’organizzazione e nella resistenza in certi settori del paese.

R1: Quello che cerchiamo è il modo di partecipare con la comunità indigena e contro la confisca e l’esproprio di terre. Abbiamo partecipato a degli incontri organizzati dagli indigeni difesa della madre terra e contro l’estrazione mineraria e in una lotta al narcotraffico, in tutti i mezzi [di comunicazione ndt.] facciamo propaganda, pubblichiamo il nostro periodico, pubblichiamo articoli e con gli studenti discutiamo il problema del commercio di droga: a chi questo giro di affari crea ricchezza e chi ne viene danneggiato. Inoltre discutiamo sul malessere sociale derivato dalle condizioni dei lavoratori, partecipiamo nelle proteste. In Messico lo chiamiamo “generare tensione e mostrare le contraddizioni”. Generare tensione politicamente, in modo organizzato, discutendo con i lavoratori eccetera, e questo deriva da azioni molto concrete: il 1° dicembre 2012 ci fu uno scontro senza precedenti nella storia di Città del Messico fra molti manifestanti e le forze di sicurezza… noi abbiamo creato in quel momento come strategia di lotta l’Alianza Anarquista Revolucionaria in cui vi erano studenti, operai, noi della Federazione eccetera per incrementare i simpatizzanti e partigiani dell’anarchismo. Siamo arrivati a indire marce di mille, duemila anarchici che partecipavano, come effetto della repressione sistematica del governo contro compagni. Ad alcuni avevano messo la polizia sotto casa, dovettero andarsene di casa.

R2: Un linciaggio mediatico attraverso i grandi mezzi di comunicazione: TV, radio e giornali di diffusione nazionale. Questa tensione era contro chiunque si opponeva ai partiti politici del paese, c’è stata una caccia agli anarchici e persone dell’opposizione non istituzionale in generale fino ad andare a casa delle persone e minacciarle di ucciderle se avessero continuato a manifestare.

R1: La chiamiamo violenza mediatica e poliziesca.

D: Altra domanda: nelle proteste degli insegnanti di questi mesi come state intervenendo?

R1: Abbiamo appena creato un “gruppo autonomo di professori”. Con la nuova riforma educativa si applica una legge di valutazione docente. La legge di valutazione è un’idea, è un mandato della Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, una organizzazione internazionale di impresari che chiede al governo di valutare i propri professori per valutarne la qualità dell’educazione. La “qualità dell’educazione” secondo noi è privatizzare l’educazione: da una parte licenzi circa un milione e mezzo di professori, gli togli il diritto di lavoratori a tempo indeterminato e li collochi come impiegati temporanei. Con la nuova legge educativa è stato pianificato l’intervento di attori esterni alla scuola, attori economici: è una riforma che va nella direzione della privatizzazione.

La riforma educativa è parte di qualcosa che è conosciuto come ‘riforme strutturali’. Il governo attuale di Enrique Peneñeto ha iniziato organizzando e promuovendo le riforme strutturali che di fatto erano mandati che esigevano alcuni organismi finanziari internazionali come l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico.

Il governo messicano iniziò con il “Patto per il Messico”, un patto fra classe politica e classe economica. E la classe economica potè contare sull’appoggio di parlamentari dei partiti di sinistra, di centro e di destra per assicurare che non si sarebbero generate differenze e potesse passare rapidamente tutta le riforme strutturali. Quindi passò la legge sul lavoro, c’è una nuova legge sul lavoro dove il lavoratore è spogliato di tutte le sue garanzie e diritti lavorativi conquistati con la rivoluzione messicana. Ci sarà una riforma sanitaria dopo quella educativa, c’è stata una riforma una riforma fiscale, energetica con attori privati per privatizzare tutto il settore energetico. Particolarmente sulla riforma educativa abbiamo individuato dei punti che ci sembrano nodali.

Tutti i lavoratori dell’educazione, professori e docenti, smettono di essere lavoratori permanenti [a tempo indeterminato ndt] e passano ad essere lavoratori a termine, a partire da quella che chiamano ‘certificazione docenti’, si che i docenti si valutino per potersi certificare. La chiamano ‘qualità educativa’. In questo primo aspetto ci fu una discussione tra i maestri in cui ci si chiedeva “se io sono valutato che succederà”? Il governo aveva promesso che ci sarebbe stato un aumento salariale dei docenti, una menzogna, e ha significato perdita dei diritti dei lavoratori.

R2: La legge educativa è una legge lavorativa che si maschera da educativa affinché l’opinione pubblica o la gente che non è parte di questo particolare settore la legittimi e che, in questo senso, la mobilitazione dei maesti sia screditata. Dico che è una riforma lavorativa perché di fatto prevede che i lavoratori perdano tutti i loro diritti a partire da una supposta valutazione che va a certificare la qualità del professore, rendendo preponderante il diritto dei bimbi all’educazione, ad un’educazione di qualità senza però definire cosa sia un’educazione di qualità. “Qualità” è un termine capitalistico-industriale che non si può applicare alla questione educativa e in questo senso tale esame/valutazione è completamente antipedagogico, di 12 ore in cui non c’è alcuna domanda sul metodo pedagogico che uno utilizza in aula ma solo domande su una serie di leggi – che ci si deve imparare a memoria per rispondere ed ottenere una buona valutazione. Questa valutazione poi è iniqua perché da un lato abbiamo queste scuole rurali, indigene dei luoghi periferici e dall’altro buone scuole: ci sono contesti differenti in cui si muovono i vari professori. E non può esserci lo stesso esame per tutti i docenti. Quello che hanno fatto è standardizzare un esame che oltre a chiedere solo leggi non corrisponde al contesto reale in cui uno si trova.

Altro aspetto della riforma educativa è che lo stato va a togliere tutto il finanziamento all’educazione pubblica, così si trasformano in scuole private dato che una parte della riforma obbliga le famiglie a pagare tutto il mantenimento della scuola che prima era pagato dallo stato, perché lo stato con le nostre tasse destina fondi all’educazione. Quindi, dicono, si va a togliere la retta dello stato all’educazione. Lo stato non investe nell’educazione in Messico. Si investiva 1% del prodotto interno e ora non lo si investe più e i le famiglie devono pagare questa educazione. Molte persone non conoscono questo aspetto. Abbiamo informato i professori e famiglie su questo particolare punto. E per questo in diversi luoghi, in città come negli stati della repubblica, le famiglie sono quelli che stanno occupando le scuole, assieme ai maestri e la comunità. Ovvero c’è una difesa da parte della comunità dell’educazione.

R1: Diciamo che il primo aspetto è quello lavorativo. Il governo messicano ha inviato il suo primo segretario all’educazione e diceva che si sarebbero valutati i docenti per garantire la qualità dell’educazione come dire ridurre l’educazione a comune mercanzia e, come ha detto la compagna, ci siamo resi conto che l’80% dei professori si è reso conto che non è una legge educativa ma lavorativa. Il governo, tramite il suo segretario, ha affermato che quello che si stabiliva con la nuova legge era di far tornare la direzione dell’educazione al governo messicano. Ma analizzandola ci si rende conto della menzogna. È una legge lavorativa. Il professore perde automaticamente il suo posto, faccia o non faccia la valutazione docente.

D.: Quale è il rapporto fra il movimento anarchico in Messico e i movimenti indigeni?

R1: il rapporto potremmo dire che è limitato nel senso che siamo solo in alcune organizzazioni che stanno facendo il lavoro con gli indigeni. Non tutte le organizzazioni anarchiche lo stanno facendo. Soprattutto la Federazione Anarchica del Messico il Collettivo Autonomo stanno portando avanti un lavoro da circa quindici anni in comunità e villaggi indigeni, soprattutto di Oaxaca.

Come facciamo il lavoro? L’abbiamo organizzato in diversi sensi partecipando a laboratori di autoformazione varia con giovani, donne e persone che lavorano nel campo. In questi laboratori noi impariamo da loro e loro da noi. È come un apprendistato collettivo e autogestito. In questi laboratori tutto quello che si impara, soprattutto di agricolo lo portano poi nelle loro comunità condividendolo.

Per esempio, in Oaxaca, che è una regione grande con 500 villaggi indigeni, comunità, è molto difficile spostarsi in città, portare tutta la comunità in città. Quindi quello che facciamo è che agli incontri vengono delegazioni della comunità e portano i laboratori nella comunità e li riproducono.

La seconda cosa è partecipare delle loro esigenze di rispetto di usi e costumi e per la costruzione di una autonomia organizzativa indigena, anche attraverso i loro usi e costumi, e in difesa della terra. I compagni ad esempio ora, sulla costa, espropriarono, tolsero la terra a dei borghesi tedeschi, dove avevano schiavizzato per molti anni gli indigeni della regione. I compagni, attraverso l’Alleanza Zapatista, con la forza di alcune organizzazioni hanno tolto la terra ai tedeschi e l’hanno collettivizzata. Sono 70.000 ettari. Alcune imprese turistiche erano interessate a entrarci, perché stiamo parlando di un’area che è circa a un’ora e mezza da Puerto Escondido, meta turistica, e i compagni hanno detto no alle imprese turistiche perché questi ettari appartengono agli indigeni. Ci sono già comunità che stanno lavorando, ad esempio ci sono produzioni agricole, aziende di pollame, aziende in cui lavorano collettivamente e il denaro guadagnato viene ripartito fra di loro. Quindi stiamo partecipando in questo progetto dei compagni, è un’alleanza politica ma non andiamo ad insegnare, soprattutto stiamo imparando.

D.: Esistono movimenti autorganizzati contro i cartelli del narcotraffico, anche non necessariamente anarchici?

R1: In questo momento abbiamo un popolo messicano ferito, per un sistema economico e politico voluto dalla classe economica e politica, hanno imposto dolore e pianto tramite un governo della morte. Ci hanno imposto questa sofferenza e questo dolore che però adesso si sta convertendo in rabbia. Il Messico è arrabbiato, incazzato, e si è diffuso un discorso di lotta dal basso verso l’alto. Particolarmente questa lotta si è estesa in tutti gli ambiti. Molta gente non solo è arrabbiata solo per le riforme che ci sono state nel paese, ma perché dal 2006 ad oggi ci sono state 130.000 omicidi volontari, abbiamo quasi 30.000 desaparecidos e in questo momento l’alternativa che si sta organizzando nei quartieri è l’autorganizzazione. È molto interessante per noi.

Dei compagni iniziarono creando la polizia comunitaria di Guerrero, che sono compagni contadini e indigeni che hanno detto basta, che non ne potevano più che il narcotraffico governasse. Nei paesi indigeni è normale che ci siano armi, che servono per cacciare ecc. e presero le loro armi e iniziarono a creare gruppi armati per curare e garantire la sicurezza nei villaggi.

R2: Questo perché i militari e la polizia sono strettamente legati al narcotraffico in alcune regioni e le persone a non avendo la garanzia della giustizia si sono autorganizzate per affrontare la situazione in modo autonomo.

R1: In Messico si sa che a governare è il narco-stato. Per fare un esempio molto concreto: quando sono spariti i 43 studenti della Scuola Normale rurale di Ayotzinapa, chi li arresta è la polizia che poi li consegna ai sicari di un gruppo del narcotraffico della zona chiamati ‘Los Rojos’. Lo stesso governo di Guerrero ha legami con il narcotraffico, il governo di Veracruz ha legami con Los Zetas… il narcotraffico sta governando il Messico e molta gente sa che i militari sono molto legati al narcotraffico. Il narcotraffico è un’impresa, è un’attività capitalistica. Per non investire nel preparare loro stessi militarmente i propri membri contattano direttamente le persone nelle scuole militari, per dare loro lavoro e avere gente che sa maneggiare armi, che gli dà sicurezza e che può ampliare il giro d’affari.

Per esempio ci sono stati due villaggi indigeni che furono i primi ad armarsi e autorganizzarsi per lottare contro il governo e contro i narcos, contro i militari, la polizia e i gruppi armati legati al narcotraffico e con il governo. I compagni c’erano e hanno resistito. Una sorta di processo autonomo che è costato morti ma i compagni continuano nella resistenza. Ne è derivato una diffusione di gruppi di autodifesa e la gente vede che è importante opposi in armi a un governo criminale composto da narcotrafficanri e impresari eccetera.

Quando si è dato il movimento di autodifesa molti villaggi hanno iniziato ad armarsi e si è innescato un movimento molto forte. C’è un coordinamento di autodifesa e questo ha iniziato a passare di paese in paese scontrandosi, su internet si possono reperire i video.

Quando arrivavano in un paese dove c’era un contenzioso con il presidente municipale, la polizia e il narcotraffico… appena sapevano che arrivavano le forze dell’autodifesa uscivano i sicari e c’era lo scontro. L’autodifesa recuperava il controllo e instaurava un nuovo sistema di autogoverno – possiamo definirlo così – in cui il popolo locale garantiva la sicurezza cacciando i narcotrafficanti con tutti i loro sicari.

Si verifica un fenomeno. Il governo interviene quando si rende conto che è un processo, un fuoco acceso molto pericoloso e il governo messicano manda i militari a combattere non i narcotrafficanti ma l’autodifesa.

D.: Si vede l’alleanza fra lo stato e il narcotraffico. In Italia Saviano, con il suo libro libro “Zero Zero Zero” ha diffuso idea che il narcotraffico si combatte con più stato, con più governo. Da quanto dite voi invece il governo è il narcotraffico. Questo smonta la retorica di questi personaggi come Saviano che hanno molto seguito in Italia ma anche nel mondo anglosassone.

R2: L’estendersi del movimento di autodifesa ha cominciato un poco ad assomigliare ai processi rivoluzioni che il paese aveva avuto come la campagna del Morelos [guerra d’indipendenza messicana ndt.] o l’avanzata degli zapatisti all’epoca della rivoluzione, ovvero: armarsi, arrivare a un villaggio, prendere un villaggio, o meglio, armare la popolazione che si autodifende, arrivare a un altro paese ed estendere la cosa. Quindi appare già un movimento con queste caratteristiche. Quello che fa il governo messicano è uccidere ovviamente e tentare di dividere il movimento in due. Da un lato alcuni gruppi di autodifesa li coopta per offrirgli posti militari per, dicono loro, offrirgli la difesa dei villaggi in modo legale, perché il tema dell’illegalità è stato un tema centrale per smantellare il movimento dell’autodifesa nel Michoacan. Devono legalizzarsi perché non possono essere civili armati, questo era il discorso. Non puoi esercitare l’autodifesa, ti do’ un lavoro da poliziotto, legale, ti do’ la tua targhetta… però il governo, ha diviso il movimento e quelli che continuarono a lottare sono stati imprigionati nelle carceri di massima sicurezza come il dott. Mireles- che prima tentarono di uccidere con un attentato- uno dei promotori di tutta questa campagna di difesa, e ora è in un carcere di massima sicurezza.

Noi come anarchici in questo processo quello che abbiamo fatto è stato accompagnare la resistenza. È un movimento che possiamo dire possiede molte caratteristiche libertarie ma ha le sue proprie definizioni, non hanno un’ideologia politica concreta, sono comunità indigene autonome che ha permesso di non avere una direzione. Molti movimenti hanno voluto penetrare questo processo ma loro mantengono la loro autonomia inclusiva di ideologie di ogni tipo. È però molto chiaro che sono movimenti contro il sistema politico ed economico e militare del Messico quindi per noi è molto importante e si partecipa accompagnando, assistendo e diffondendo certe informazioni fin dove è possibile.

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Una situazione complessa

Il seguente articolo, che comparità sul numero 27 anno 96 di Umanità Nova, funge da corollario all’interessante intervista con un membro del DAF (Azione Anarchia Rivoluzionaria), organizzazione anarchica turco-kurda.

Una situazione complessa – Turchia, islam e dintorni

14344243_1195972217134376_5971123923346751317_nL’intervista pubblicata su questo numero di Umanità Nova ad un membro dell’organizzazione anarchica turco-kurda DAF (Azione Anarchica Rivoluzionaria) ci permette di avere una visione della complessità della situazione di quell’area geografica.

Intanto emerge come le strutture statali contemporanee non siano strutture monolitiche ma, invece, siano composte da una serie di cordate di potere in un rapporto dinamico tra di loro. Se l’AKP e l’organizzazione di Gulen erano alleate in quanto condividevano interessi convergenti nell’eliminare la componente kemalista che ha governato lo stato turco per decenni – e per governato non intendiamo solamente l’espressione del primo ministro e dei ministri, punte dell’iceberg della struttura statale, ma il controllo dello stato profondo (apparati di sicurezza, burocrazia, forze armate, attori economici pubblici…) – quando questi interessi convergenti sono venuti meno la precedente alleanza si è trasformata in conflitto, prima nascosto e poi sempre più palese.

Il tentativo di golpe che, non solo a parere dei compagni del DAF, è maturato all’interno dell’ambiente gulenista ha, per altro, avvicinato il CHP, il partito kemalista, all’AKP. Insomma, il gioco delle alleanze non è mai stabile, niente è mai definitivo nella guerra perpetua per il controllo delle strutture di dominio.

La stessa composizione delle cordate di potere in campo ce la dice lunga su come sia organizzato il sistema di potere e dominio: una miriade di interessi economici, aziende manifatturiere, compagnie edili, aggregati di mass media, attori finanziari. Il “blocco edilizio” ovviamente anche in Turchia fa da padrone: lo spazio urbano come spazio in cui si territorializzano gli interessi finanziari che si sono incontrati con le necessità di modellare uno spazio utile all’accumulazione di capitale. Dall’intervista emerge la funzione della guerra con la sua deliberata strategia di distruzione delle città e dei villaggi kurdi come momento fondamentale, l’apice del ciclo di creazione/distruzione dei beni, di merci. La stessa rivolta di Gezi Park e di piazza Taksim avevano tra i temi principali quello dello spazio urbano: la scintilla che fece scattare la rivolta fu il tentativo di distruzione del parco per costruire un nuovo polo economico e militare in luogo di un quartiere che, negli ultimi decenni, è stato un centro di aggregazione popolare. Spentasi la rivolta del 2013, rafforzato il potere del governo dell’AKP e del blocco edilizio che lo sostiene dopo il fallito colpo di stato, ecco Erdogan annunciare trionfante che Gezi avrà un nuovo volto: una grossa moschea e una caserma.

Il mercato edile va sempre a braccetto con le decisioni degli attori istituzionali, se separati non sanno dove andare, è così in tutto il mondo occidentale. Lo spazio urbano, la città, è il terreno di scontro, in esso si concentrano i flussi di dati, capitale, merci fisiche, persone, sul cui controllo si gioca tutto.

Un altro fattore importante che va tenuto in considerazione nell’ambito turco, ma non solo, è il ruolo della religione e delle strutture sociali ed economiche ad esse collegate. Sia Gulen sia Erdogan provengono da ambienti religiosi molto particolari. Caratteristica spesso ignorata dell’islam è quello delle confraternite religiose, che nell’ambito del levante siriano e della Turchia si traducono in veri e propri filoni religiosi esoterici ed iniziatici. Basti pensare, su tutti, al ruolo dell’eterodossia alevita in Siria nel mantenere l’apparato di potere degli al-Assad, di come questa abbia fornito l’inner circle del Ba’th’ siriano, ma anche di parte di quello irakeno. La questione del ruolo di certe correnti particolariste all’interno dell’islam, sciita o sunnita, non è da sottovalutare: fondamentale fu il ruolo dell’islam modernista dell’università di al Azhar del Cairo nello sviluppo della politica Egiziana sotto Nasser e Sadat, ruolo mantenuto anche in seguito e che permette al Cairo di avere una potente leva culturale e religiosa per influenzare gli altri paesi della regione. Fondamentale è stato il ruolo delle confraternite religiose sunnite in Turchia nel definire il cambio di regime dallo stato kemalista a quello a guida AKP: costruire convergenze di interessi economici con giustificazione religiosa. Secondo certi osservatori questo stesso ruolo è stato fondamentale nel determinare l’alleanza tra l’allora nascente Stato Islamico e i quadri del Ba’th’ irakeno usciti sconfitti dallo scontro decennale con gli USA.

Hizmet, il nome ufficioso del movimento di Gulen, mette al suo centro il ruolo economico del fedele come portatore di ricchezza materiale e di responsabilità sociale che viene mediata dalla stessa struttura della confraternita. L’esempio più calzante che possiamo trovare in Italia è Comunione e Liberazione e la sua Compagnia delle Opere. Ma il rimando è anche un altro: la “teologia della ricchezza” propagandata da certe correnti evangeliche, che si sono diffuse prima negli Stati Uniti durante l’era Reagan e, poi, tra le nuove borghesie dei paesi emergenti, sia nell’Africa occidentale sia in paesi latini come il Brasile. La capacità di mobilitazione politica e di accumulazione economica di questi religioni ipermoderne è diventata impressionante. Se fino a qualche decennio fa la religione era l’oppio dei popoli e la lacrima sul volto del mondo, ora non è più oppio ma amfetamina. Il ruolo politico della religione stava già diventando chiaro quando nacque la repubblica islamica in Iran o con l’emergere della Fratellanza Musulmana in Egitto e Palestina, in un lungo e travagliato percorso che parte dal Cairo degli anni quaranta.

Hizmet ha la propria associazione di imprenditori, Tusko, ha la holding Zeman che controlla televisioni, siti di informazione e giornali, ha la sua componente esplicitamente religiosa: Cemaat.

L’AKP, con i suoi legami ferrei con la confraternita Naqshbandiyya non è da meno. Erdogan ha dimostrato la capacità di orientare le masse, di dirigerle, di toccare quelle corde emotive, spesso religiose, che hanno permesso di ottenere quella mobilitazione di massa che ha sconfitto il golpe. I morti durante la mobilitazione sono stati dichiarati martiri. Ci manca solo che il capo temporale dello stato turco faccia come i monarchi ottomani: proclamarsi Califfo, capo dell’insieme dei credenti, l’unico con il potere di dichiarare la Jihad. Ma nei fatti se questa mossa esplicita sarebbe azzardata, Erdogan sta già agendo con questa funzione, ricomponendo sotto di se l’Islam sunnita in chiave moderna, appoggiando il revival islamista in Anatolia, stringendo a sé la Fratellanza Musulmana, mettendosi in diretta opposizione con la famiglia reale di Ryad, custodi dei luoghi sacri ma beduini arricchiti, gretti e reazionari e legati a triplo filo con gli USA. Erdogan punta a diventare il punto di equilibrio della regione. Se qualche mese fa il progetto neo ottomano di creare una direttrice sud, tramite la Siria verso l’inner land irakeno, sembrava morto dietro la sconfitta militare dell’ISIS su più fronti, stretta tra l’avanzata delle SDF, del governo irakeno sotto la guida dell’Iran, del Kurdistan Irakeno e dall’avanzata delle stesse forze del regime siriano con l’appoggio russo, ora Erdogan può provare a resuscitare questo piano: entra direttamente in Siria, sostituendo l’ISIS, senza colpo sparare a maggior conferma del fatto che l’ISIS ha agito come strumento versatile per i maggiori attori statali dell’area, ad ovest dell’Eufrate, ricomponendo la frattura con la Russia e, in prospettiva, cercando un accordo con Damasco. Vittime sacrificali dell’accordo è quell’insieme di forze che, guidate dal PYD, hanno costruito l’esperimento confederalista nel nord della Siria e che erano riuscite a mettersi in relativa sicurezza allontanando l’ISIS dai confini turchi.

Ma la partita è ancora da giocare: la Turchia non può permettersi un intervento militare diretto contro il Rojava, il prezzo da pagare in termini militari, ma anche di ripercussioni nell’opinione pubblica mondiale, sarebbe alto – la Russia e gli USA stessi non sarebbero d’accordo. Le retrovie, poi, con il Bakur infiammato da mesi dagli scontri, non sono sicure per garantire un’operazione simile.

In queste dinamiche emerge con chiarezza il ruolo delle organizzazioni rivoluzionarie come la DAF: costruire un’alternativa alla guerra incessante che è il nucleo del dominio dello stato e del capitale. Il dato interessante che emerge dall’intervista è che la DAF è un’organizzazione con una sua specifica autonomia d’azione, che porta avanti i suoi contenuti e le sue pratiche, ad Istanbul come nel Bakur od oltreconfine. Il confederalismo democratico dell’HDP nel Bakur sta incontrando un enorme problema: l’aver voluto fare affidamento alle istituzioni statali, con la presa dei municipi con un processo elettorale. In questi giorni il governo turco sta destituendo i sindaci dell’HDP, avocando a sé stesso quello che suo è per natura: il controllo del governo locale. La maschera della democrazia liberale, sotto cui un processo di tipo elettorale come quello impostato dall’HDP poteva trovare un suo spazio di manovra, è caduta. Con il processo di “ripristino della democrazia” dopo il Golpe, Erdogan tenta di chiudere lo spazio politico in cui l’HDP era riuscito con abilità a muoversi.

Le organizzazioni politich541519_480961541968784_1614565254_ne che si rifanno al modello confederalista democratico hanno avuto un ruolo innegabile nell’organizzare i processi di cambiamento sociale, spendendosi generosamente per il superamento dell’attuale sistema statale e capitalista, lavorando in questo anche con i compagni e le compagne del DAF, ma se in Siria hanno potuto contare sul ritiro dello stato Siriano per sostituirlo con delle strutture di stampo autogestionario, nel Bakur non è stato così. Se il governo è sconfitto in certe aree su un piano elettorale può sempre ricorrere alla magistratura, alla polizia, all’esercito. Solamente la generalizzazione delle lotte su un piano radicale e rivoluzionario potrà mettere la parola fine alla guerra e all’osceno gioco al massacro, solamente il rafforzamento dell’organizzazione rivoluzionaria potrà agire in tal senso.

lorcon

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Una prospettiva libertaria per il medioriente

La seguente intervista apparirà sul numero 27 anno 96 di Umanità Nova, 18 settembre 2016. È consigliata anche la lettura di questo altro articolo, pensato per accompagnare questa intervista e a questo scopo pubblicato su Umanità Nova.

L’intervista che presentiamo di seguito è stata realizzata ad inizio agosto 2016, a poco più di due settimane dal tentativo di golpe del 16 luglio e poco più di un mese primo dell’inizio delle grande manovre turche sulla destra orografica dell’Eufrate in territorio siriano per contrastare la presenza delle milizie dell’SDF che avevano sottratto quei territori all’ISIS, strategici per le linee di rifornimento del Califfato.

L’intervista che segue è frutto di un colloquio di diverse ore con un esponente dell’organizzazione anarchica turco-kurda DAF (Azione Anarchica Rivoluzionaria) e ne è un condensato. L’intervista vera e proprio è stata integrata con frammenti del resto del colloquio.

Se la parte di più stringente attualità, su cui consigliamo anche la lettura dell’articolo tradotto da Meydan, il giornale del DAF, pubblicato sul numero 26 anno 96 di Umanità Nova (Lotta per il potere, lotta contro il potere), può essere in parte considerata superata riteniamo che la seguente intervista presenti un compiendo necessario per comprendere la situazione turco-kurda e l’azione dei nostri compagni in quelle terre.

lorcon

D: Come si è evoluta la situazione in Turchia nelle ultime settimane? Dopo dopo il tentativo di golpe il potere di Erdogan è più forte? Come si è evoluto lo scontro tra l’AKP e Hizmet?

R: Come sapete l’organizzazione di Gulen, Hizmet, è attiva da prima dell’inizio dei governi dell’AKP e da quando l’AKP è divenuta organizzazione di governo si sono coalizzati, dato che il movimento gulenista era molto forte dentro agli apparati statali, polizia, esercito, tribunali. Hizmet ha diverse scuole, controlla parte dell’educazione, università, i corsi di preparazione agli esami di ammissione universitari, e licei, così come i media ed è presente nella sanità. Hanno un grandissimo potere. L’AKP e Gulen si sono coalizzati e hanno cooperato, soprattutto nella giustizia, grazie alla presenza della dei gulenisti nei nei ranghi di giudici e procuratori. Hanno proceduto all’arresto e alla messa in stato di accusa di moltissimi membri delle forze armate, membri di organizzazioni kemaliste, colpendo anche alti ufficiali e membri dello stato maggiore.

Dopodiché hanno sostituito gli arrestati con dei propri uomini e si sono ulteriormente rafforzati, sia AKP che Hizmet, non solo nei ranghi dell’esercito ma in tutti gli apparati statali che erano stati epurati, polizia, servizi di intelligence, burocrazia.

Ma nel tempo sono emerse dei contrasti tra questi due gruppi di potere e Erdogan ha iniziato una campagna tesa a espellere Hizmet dai quadri statali. I gulenisti però non sono stati a guardare: i loro membri presenti nella giustizia hanno iniziato ad indagare sui membri del vertice dell’AKP e hanno aperto processi nei confronti di ministri di governo, dei loro famigliari e, addirittura, nei confronti del figlio di Erdogan, per accuse di corruzione e appropriazione di fondi pubblici.

Questo è stato un passaggio fondamentale, seguito anche da proteste popolari, che ha segnato una fase difficile per l’AKP. Ma il partito di Erdogan è riuscito a operare dei cambiamenti legislativi, hanno cambiato le leggi sulla corruzione facendo cadere le accuse e rendendo vani i processi istruiti dai giudici gulenisti.

Ovviamente dopo di questo Erdogan ha fatto dei passi nella direzione di colpire i gulenisti. Ha fatto chiudere le scuole di preparazione universitarie controllate dai gulenisti, si è creata una vera e propria situazione di guerra tra i due gruppi di potere. Si sono attaccati a vicenda, anche se con strumenti differenti.

I cambiamenti legali voluti da Erdogan erano tesi a proteggere l’apparato dell’AKP e a purgare lo stato dall’organizzazione gulenista, è stata una grande operazione nei confronti dei gulenisti e questi hanno subìto il colpo, per un periodo sono stati passivi, ma ad un certo punto hanno capito, grazie alla presenza nei gangli statali avevano a disposizione moltissime informazioni, che i piani del governo erano tesi a eliminarli di scena completamente e hanno iniziato a progettare il golpe.

Inoltre, entro la fine del settembre 2016 era previsto un avvicendamento ai vertici delle forze armate e i gulenisti avevano previsto che in quell’occasione sarebbero stati estromessi dalle posizioni apicali dell’apparato militare, i tempi d’azione si sono ristretti.

Un’ipotesi accreditata è che il golpe sia fallito per causa o di una fuga di informazioni che ha costretto i golpisti ad anticipare l’inizio delle operazioni, agendo così senza la piena forza o perchè delle fazioni delle forze armate che si erano accordate con i golpisti hanno ritirato all’ultimo il loro appoggio e l’hanno accordato al governo.

Il fallito colpo di stato ha fornito all’AKP la possibilità di attaccare in modo palese i gulenisti, di procedere ad una radicale purga nei loro confronti. Avendo lavorato insieme per anni ed essendo entrambi presenti e radicati in profondità nelle strutture statali entrambi avevano informazioni sulle corrispettive mosse.

Decine di migliaia di persone, legate a Hizmet sono stato licenziate da impieghi pubblici. È stato dichiarato lo stato di emergenza e il governo ha potuto agire senza dover rispondere al parlamento.

Al momento stanno colpendo l’organizzazione di Gulen, ma già adesso dichiarano di voler colpire tutte le organizzazioni che chiamano terroriste, quindi le forze rivoluzionarie, anarchici ma anche socialisti e forze kurde.

D: Quale conseguenze avrà il fallito colpo di stato nella situazione kurda?

Nel Bakur [Kurdistan turco, ndt.] ci sono stati pesanti scontri negli ultimi mesi tra le forze governative e le forze della guerriglia, anche se in parte diminuiti nel periodo immediatamente precedente al golpe, ma il governo ha dichiarato che continuerà a rastrellare e distruggere le città e i villaggi kurdi. La ragione di questa modalità di azione è complessa: la strategia di distruzione programmata degli spazi urbani è tesa a ricostruire uno spazio maggiormente controllabile, con strade larghe, più facilmente percorribili dai blindati ma vi sono anche ragioni economiche: l’obiettivo è quello di creare un’economia di guerra e di favorire i processi di land grabbing. Dopo la distruzione di villaggi e città queste dovranno essere ricostruite. Gli attori che si stanno accaparrando i terreni sono sia attori pubblici, aziende pubbliche di costruzioni, che privati: costruttori legati a doppio filo all’AKP.

Infatti il substrato materiale che regge il partito di governo è quello delle costruzioni edili, sono moltissimi i costruttori legati a questo partito. Questo è uno dei motivi della distruzione delle città e dei kurdi. Non è chiarissimo che cosa accadrà esattamente ma ipotizziamo che riprenderanno ad arrestare politici, giornalisti, avvocati e attivisti kurdi. L’HDP ha espresso la sua opposizione sia verso il tentato golpe che verso lo stato di emergenza.

Per ora gli organismi repressivi sono occupati con Gulen, ma probabilmente il secondo passo sarà attaccare le organizzazioni politiche kurde.

13920607_1164124980319100_5563887230615374397_nD: Quale è la situazione della sinistra kurda e quale è ancora l’influenza dei    partiti Marxisti-Leninisti che ebbero l’egemonia dei movimenti sociali nei decenni scorsi?

Prima del golpe 1980 vi era un forte movimento di stampo marxista-leninista, vi erano forti lotte nell’ambito del lavoro. Dopo il golpe per anni nessuno poteva fare niente, vi era una repressione fortissima. Negli anni novanta si sono riorganizzati i partiti m-l, ma molti dei loro membri erano stati arrestati o costretti all’esilio così si sono dovuti riorganizzare da capo. Ma ovviamente la situazione era completamente cambiata rispetto agli anni settanta, gli anni in cui erano egemoni nell’estrema sinistra.

Per tutti gli anni 90 gli stessi sindacati erano molto immobilisti, poco attivi, dopo il duemila possiamo vedere come ha ripreso a cambiare qualcosa nell’ambito del lavoro. I lavoratori hanno ripreso ad organizzarsi, come negli anni precedenti al golpe del 1980, sono riprese le mobilitazioni. Ma ovviamente ogni volta in Turchia le cose cambiano molto velocemente, da un anno all’altro. Durante gli anni novanta e duemila un anno era possibile scioperare e manifestare, l’anno dopo venivano cambiate le leggi e aumentava la repressione, poi veniva di nuovo allentata, tutto molto velocemente. Ad ora i partiti m-l hanno un peso ma sono di dimensione ridotte rispetto al passato, sono presenti soprattutto nelle aree alevite [corrente eterodossa dello sciismo, ndt], alcune organizzazioni sono radicate nelle università, ma non ci sono organizzazioni grosse. La questione importante in Turchia è che c’è la guerra aperta: la guerra tra lo stato e il popolo kurdo, in Turchia come in Siria, con gli interventi turchi oltreconfine, così i partiti m-l hanno dovuto prendere una posizione in merito, schierarsi. La maggioranza di loro supporta l’HDP e i movimenti kurdi e molte energie dei partiti m-l sono impegnante in azioni di solidarietà con il popolo kurdo.

D: Quale è la situazione del movimento anarchico in Turchia e Kurdistan?

In Turchia l’ideologia anarchica si è diffusa solamente dalla fine degli anni novanta, c’erano dei piccoli gruppi che pubblicavano riviste, diffondevano traduzioni da pubblicazioni estere. ;a non vi erano organizzazioni, solo piccoli gruppi poco coordinati. Noi come DAF abbiamo iniziato ad organizzarci nel 2007, con l’obbiettivo di creare pratiche e tradizioni anarchiche per queste terre, Turchia, Kurdistan e in generale in Medioriente. L’idea era quella di creare un esempio e una tradizione anarchica. Per ora siamo organizzati sopratutto in Istanbul e Amed, ma siamo presenti anche in villaggi e città minori. Siamo ben conosciuti a livello politico e siamo ben rispettati, anche dagli m-l, in nove anni siamo riusciti a creare una storia di lotta anarchica.

Il nostro ruolo nella solidarietà con le lotte dei kurdi è stato molto importante per noi stessi perché in un paese in cui è in corso una guerra devi, che tu lo voglia o no, sei costretto a prendere una posizione. Come anarchici siamo stati presenti durante la rivoluzione del Rojava e durante gli attacchi dello stato turco nel Bakur.

Questo ci ha permesso una penetrazione nella società kurda, l’anarchismo ha avuto un forte impatto, il PKK, così come il PYD, sono stati influenzati fortemente dalle idee libertarie e anarchiche, anche nelle pratiche messe in campo sia in Rojava che nel Bakur.

La nostra presenza a fianco delle organizzazioni politiche kurde riteniamo sia importante perché permette di rafforzare le pratiche libertarie messe in campo da queste organizzazioni che prima libertarie non erano.

D.: quali saranno secondo le conseguenze del fallito golpe sul movimento anarchico e, in generale, sui movimenti sociali?

Ovviamente il fallito golpe e lo stato di emergenza sono una grande minaccia per il movimento anarchico e non solo. Lo stato può fare operazioni repressive contro l’opposizione sociale, può arrestare più facilmente attivisti.

Già negli ultimi mesi c’è stata una stretta repressiva, soprattutto nei confronti delle organizzazioni kurde, ma probabilmente nel prossimo futuro ci saranno ulteriori azioni repressive nei confronti di tutti i movimenti politici di opposizione, facilitate dallo stato d emergenza.

D.: Come la repressione statale sta colpendo il movimento anarchico? Vi sono prigionieri anarchici? Sono possibili contatti con loro? Dopo il tentato golpe è cambiata la situazione?

Attualmente ci sono prigionieri anarchici ma, in generale, non sono in prigione per la loro militanza anarchica, a parte gli obiettori di coscienza anarchici. Per lo più sono detenuti che sono diventati anarchici quando erano già detenuti, molti vengono da precedenti esperienze politiche, socialisti o membri di organizzazioni kurde. Hanno cominciato ad avere contatti con noi, abbiamo pubblicato articoli di prigionieri, si stanno organizzando tra di loro. Ci sono anche dei prigionieri anarchici che sono vegani o vegetariani che hanno condotto lotte specifiche per ottenere dei pasti confacenti alle loro diete, facendo anche degli scioperi della fame per ottenere cibo dall’esterno.

Generalmente i prigionieri politici sono sottoposti a forte pressione nelle galere ma al contempo sono bene organizzati. Sia i prigionieri della sinistra rivoluzionaria che i prigionieri kurdi sono molto organizzati, riescono ad avere spazi per incontri, programmi di autoeducazione e sport. Ovviamente questo è stato ottenuto grazie a delle grandi lotte negli anni passati. Quando arriva uno/a nuovo/a detenuto/a politico in galera questi prigionieri agiscono in modo che venga messo in celle vicino alle loro, per stare in contatto e non lasciarlo/a isolato/a.

Con i detenuti per crimini comuni, non politici, ci possono essere dei problemi ma ci sono delle lotte da parte dei detenuti politici anche per questi detenuti.13901559_1163415673723364_1165682960903733717_n

Dopo il fallito golpe, ovviamente, le cose stanno cambiando. Ci sono maggiori difficoltà per i prigionieri politici per incontrate famiglie e avvocati. Le prigioni, inoltre, sono state sovraffollate con tutti i problemi conseguenti.

I problemi quindi ci sono ma le organizzazioni dei prigionieri politici sono forti e penso che potranno superare questo momento se ci sarà solidarietà da fuori delle galere.

D.: Quale è la situazione dei gruppi di gruppi di destra, come i Lupi Grigi ma anche gruppi religiosi? Vi sono legami tra questi gruppi e l attuale governo?

I partiti nazionalisti, come il MHP, sono nel parlamento, l’MHP è il quarto partito, dopo AKP, CHP [partito kemalista, ndt.] e HDP; per ora il MHP è il quarto partito più forte, hanno 40 parlamentari. Ma non sono più così attivi come negli anni 70 80 in cui conducevano azioni paramilitari in strada. Hanno cambiato alcune posizioni rispetto al passato ma con l’AKP condividono molte posizioni, soprattutto quelle contro le organizzazioni rivoluzionarie e contro le organizzazioni kurde, anche se sostengono che le posizioni che l’AKP esprime non siano abbastanza nazionaliste fondamentalmente supportano l’AKP.

Dopo il fallito golpe si sono ulteriormente avvicinati all’AKP, sia il MHP che il CHP. Erdogan e il AKP li hanno esplicitamente invitati ad un supporto del governo contro Gulen e questi partiti si sono dimostrati molto radicali nell’appoggiare la lotta del governo turco contro Hizmet.

Sulla questione kurda l’MHP vuole attacchi ancora più forti nei confronti delle organizzazioni kurde ma sono comunque soddisfatti da quanto sta facendo l’AKP.

Dicono chiaramente che pur non essendo loro stessi al governo sulla questione kurda il governo sta applicando le loro idee: attaccare la popolazioni, stragi e distruzione delle città.

D.: Quale è la situazione delle lotte nel mondo del lavoro, del sindacalismo. Nell’ultimo anno abbiamo visto mobilitazioni sia nel settore minerario che nel settore dell’industria, dall’Italia abbiamo potuto vedere le lotte negli stabilimenti FIAT presenti in Turchia, ma sappiamo che ci sono state lotte diffuse. Quale è la situazione generale di queste lotte? Quale è il vostro intervento nelle lotte sul lavoro?

La maggioranza dei lavoratori sono organizzati nei sindacati principali. Uno dei sindacati più importanti è il DISK ma questo non è un sindacato radicale. Le principali lotte sul lavoro nell’ultimo periodo sono state nei settori produttivi dove sono peggiori le condizioni di lavoro, dove c’è un alto tasso di morti sul lavoro, come il settore minerario, quello tessile soprattutto nelle fabbriche di jeans, e il settore edile. Le lotte che vi sono quindi non sono per i diritti genericamente intesi ma direttamente per la vita.

Nell’ultimo anno siamo stati attivi nell’Unione dei Lavoratori Edili, un nuovo sindacato, che non è federato a sindacati come il DISK, è un sindacato indipendente; come DAF siamo molto presenti e attivi in questo sindacato. Questo sindacato sta lavorando per affermare le ragioni dei lavoratori e pur essendo un sindacato costituito da poco si è fatto conoscere in fretta perché adotta pratiche di azione diretta: picchetti nei cantieri ma anche presso le sedi delle imprese edili. Questa strategia ha spesso successo: la vittoria viene conseguita in pochi giorni, in alcune occasioni anche nel giro di poche ore, perché viene bloccata direttamente la produzione e il danno economico per i padroni è immediato. In generale in Turchia sono in corso processi di organizzazione dei lavoratori, si stanno diffondendo le lotte per ottenere migliori condizioni economiche. Possiamo dire che si sta riaffermando un nuovo stile di lotta sindacale, molto più radicale di quello dei grandi sindacati come il DISK. Molti piccoli sindacati stanno passando a stili di lotta radicali e diretti. Penso che nel prossimi anni ci saranno buoni spazi per l’intervento anarcosindacalista e anarchico tra i lavoratori.

D.: Prima hai detto che una delle basi del potere dell’AKP è nel settore edile. Possiamo quindi immaginare quindi che le lotte del nuovo sindacalismo di azione diretta in questo settore colpiscano direttamente il governo. Al momento sono quindi in corso anche dei processi repressivi nei confronti di queste organizzazioni dei lavoratori?

Negli attentati di Ankara abbiamo perso 5 compagni, molto attivi a livello sindacale, ma a parte questo non vi sono stati particolari attacchi repressivi.

Il sistema della lotta tramite picchetti nei cantieri e davanti alle sedi delle compagnie edili ha un forte vantaggio: oltre a colpire gli interessi economici del padrone nell’immediato va a rovinare anche l’immagine pubblica di queste aziende, che è considerata molto importante nella società. Inoltre, siccome sono in corso grossi progetti edilizi in tempi molto rapidi anche un solo giorno di lotta con picchetti fa perdere del tempo prezioso e i padroni preferiscono fare concessioni ai lavoratori piuttosto che chiedere l’intervento delle forze di polizia, cosa che rischierebbe di allungare i tempi della lotta e fare perdere ulteriori soldi alla compagnia edile.

Ma ovviamente la polizia in alcuni casi è intervenuta ed è intervenuta pesantemente contro i lavoratori. Ma non possiamo dire che al momento c’è una forte e speciale pressione nei confronti dei sindacati d azione diretta.

D.: L’antimilitarismo è un importante questione per il movimento anarchico. Come vi approcciate a questo argomento e quali sono le vostre attività in questo ambito?

In Turchia c’è la leva obbligatoria, e questo è uno dei principali terreni di lotta per le organizzazioni antimilitariste. C’è un forte movimento degli obiettori di coscienza, siamo tra le organizzazioni più attive in questo campo, e possiamo dire che tutti gli anarchici sono obiettori di coscienza e stiamo conducendo una lotta contro la leva obbligatoria. Per questo siamo accusati da parte dell’opinione pubblica di fomentare l’odio, l’ammutinamento e la diserzione. Molti di noi sono stati arrestati per non essersi presentati alla leva. Abbiamo un associazione, l’Associazione per l’Obiezione di Coscienza, fondata in Istanbul ma presente in tutto il paese che dà assistenza legale a chi non vuole andare sotto le armi o a chi è già sotto le armi ma vuole uscirne, diamo una mano a fare le dichiarazioni di obiezione di coscienza. Un azione comune per gli obiettori è quella di dichiarare pubblicamente la propria opposizione al servizio militare e al militarismo, sia con comunicati stampa che con dichiarazioni fatte in spazi pubblici. Generalmente gli obiettori vengono arrestati, noi ci attiviamo per fornire supporto e assistenza legale, organizziamo campagne di solidarietà. Siamo parte di War Resistence International e di European Bureau for Conscious Objection. Pubblichiamo rapporti della nostra attività, e di quella delle associazioni con cui abbiamo contatti internazionali, tutti gli anni e cerchiamo di darne la più ampia diffusione possibile.

D.:Negli ultimi anni del governo dell’AKP abbiamo potuto vedere come sia aumentata la repressione nei confronti delle donne, e in generale sulle questioni di genere. Il movimento anarchico come si muove in questo ambito? Vi è un movimento anarco-femminista?

In Turchia c’è un movimento femminista e ci sono donne anarchiche. Abbiamo un grosso problema con l’omicidio di donne, così ci sono campagne in merito a questa problematica.

Ovviamente il governo dell’AKP, così come molti governi, attacca le donne. L’AKP vuole che le donne stiano a casa, che siano madri e che educhino i figli ad essere soldati, vi sono dichiarazioni esplicite da parte del governo in questo senso. Vi sono campagne governative contro l’aborto, al momento proibito oltre la decima settimana, e molte donne stanno combattendo per questa libertà.

Le donne anarchiche sono parte del generale movimento di lotta femminile e stanno provando a creare la propria organizzazione per poter fare azioni indipendenti e connotate in senso anarchico.

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Frankfurt am Main

Capita talvolta che io viaggi all’estero. A questo giro è capitato che io finissi in quel di Francoforte sul Meno, per cui ora vi beccate le foto

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1001374_624999557534103_1403277225_nIo a a Genova nel 2001 non c’ero, troppo giovane all’epoca. Ma ho sempre avuto l’abitudine di parlare con chi c’era, ne ho conosciuti diversi in giro con Indymedia quando ero ragazzino e poi in generale tra le centinaia di compagni e compagne che ho conosciuto. Ho sempre avuto anche l’abitudine di recuperare tutto quello che, scritto in merito, mi capitava tra le mani, compresi i libri delle guardie. Una miriade di comunicati, di articoli, opuscoli, di video visti, di documenti legali.

E un’idea me la sono formata. Ed è un’idea piuttosto netta.

Io ci tengo a ribadire ancora una volta che non mi interessa costruire una “memoria condivisa” per “ricucire un trauma” su Genova01, non mi interessa farlo con il ministero dell’interno o chi per esso e non mi interessa neanche farlo all’interno del movimento.
Su come è andata a finire Genova, su Giuliani morto in piazza Alimonda, sui pestati della Diaz e di Bolzaneto, sulla gente massacrata per strada, ci sono delle precise responsabilità interne al movimento oltre che a quelle dello stato italiano: i responsabili sono i dirigenti dell’area disobbediente o tute bianche o come cazzo vogliamo chiamarli che prima hanno dichiarato guerra a destra e a manca in conferenza stampa e poi non hanno allestito uno straccio di Sd’O per garantire la tenuta delle piazze di cui erano responsabili, i colossali imbecilli che pensavano che bastasse un accordo orale con il vicequestore di turno per spostare tutto sul piano simbolico. Eh, no, poveri piciu, il simbolico vi è tornato indietro in forma materiale di manganelli, tonfa, caroselli con i blindati, con tanti di birri che sparavano dai finestrini, e il Tuscania che prende e vi demolisce la testa del corteo catafottendosene dei vostri accordi, agendo per altro al di fuori degli ordini della catena di comando. A dimostrozione di che cosa sia realmente lo stato liberale di diritto in cui nei fatti credete.
A cadavere caldo partivate con le dissociazioni da quello che definivate un tossico che rovinava la vostra bella immagine. Per cinque minuti, però, che poi qualcuno tra di voi particolarmente furbo si è ricordato di qualche giovanile lettura sull’importanza dei miti, e allora via con lo sciacallaggio, con la costruzione della figura del Martire.
E allora via con l’individuazione del famigerato e oramai mitico blocco nero come i cattivi di turno, che si contrapponeva con voi che eravate tanto bravi. E che la polizia aveva usato la scusa del blocco nero per massacrare tutti. Un corno: lo stato è sovrano, non ha bisogno di scuse. Gli ordini ministeriali erano chiari: bastonare e se possibile cercare il morto, stralciare qualsiasi accordo prima preso sul fare scontri teatrali.
Poi via tutti quanti a tentare di usare quella gigantesca sconfitta per i movimenti sociali che è stata Genova01 per tentare di accaparrarsi qualche poltrona: agnoletto in parlamento europeo, casarini a fare il portaborse per un governo di centro sx, l’altro coso in parlamento a fare avanspettacolo piantando semi di cannabis nelle fioriere di Montecitorio. Grande vittoria, grande vittoria, non vi è che dire. I movimenti sociali bloccati per anni a fare i conti con lo sberlone che si sono presi in cambio di qualche consigliere comunale, un portaborse, un parlamentare e un europarlametnare.
E dopo 10 anni vi vidi pure sfilare a Genova, con il vostro, adesso ex, leader Casarini che faceva supercazzole politiche dall’alto di un furgone, rivendicandosi questo e quello per poi andare a fare il difensore della piccola imprenditoria. Ridotti ai vecchi e nuovi quadri con al seguito qualche ragazzino, intesi da voi come stagionali dei movimenti, dopo le purghe interne, i pestaggi, gli episodi delle 40 tessere in 40 minuti, la campagna elettorale per prodi con il candidato arcobaleno, una cretina che riusciva a fare persino brutta figura davanti a Bertinotti, al punto che dovevate simulare guasti audio per non fargli finire di controbattere alla vostra candidata durante il dibattito a Bologna, la malora che avete fatto alla MayDay di Milano nel 2006, prendendone pure un sacco e una sporta, e che ha fatto si che diventaste l’area politica più odiata da tutti quelli che vi stavano intorno. Adesso, dopo le ennesime spaccature interne, i sindacatini farlocchi che subito firmano gli accordi sulla rappresentanza, i cs trasformati in locali alternativi, i franchising di biomerda, preparate le ennesime campagne elettorali.
Ecco: voi siete miei compagni manco per la beata anima del cazzo, con voi non si costruisce una memoria collettiva.

E dopo 15 anni qua sto ancora qua ad incazzarmi ogni volta che rivedo quei video, ogni volta che leggo il commento di qualche fasciodimmerda o di qualche altra specie di coso ignorante, ogni volta che assisto al gioco al recupero su di un cadavere.

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Black Lives Matters?

Di seguito il mio pezzo pubblicato su Umanità Nova n 25 anno 96, che uscirà la settimana prossima. Poi basta articoli su uenne fino a settembre, che anche i redattori vanno in ferie.

In compenso carico pure l’audio del mio intervento nell’info di Radio Blackout

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Today’s pig is tomorrow’s bacon. Or dope, if you are Bafometto.

Ci risiamo. Ancora una volta la polizia statunitense ha ucciso, in modo del tutto non giustificabile, due neri, sparando loro a bruciapelo. Ma questa volta la reazione c’e’ stata: blocchi stradali, proteste diffuse in tutto il paese, scontri. A Dallas, Texas, le cose han preso una piega ancora differente: un cecchino, veterano delle guerre mediorientali, ha aperto il fuoco contro uno schieramento di polizia durante una protesta, ammazzando cinque poliziotti prima di essere ucciso da un robot degli artificieri. Un salto di qualita’ nelle tattiche poliziesche, ma ci torneremo sopra dopo.

La FOX News, le radio locali, piu’ o meno collegati alle varie congregazioni religiose di destra, alcuni siti di informazione cianciano di war on cops, di guerra ai poliziotti, sfoderano la retorica della tiny blue line, la sottile linea delle forze dell’ordine che protegge i bravi cittadini dal caos. Ma i dati, nudi e crudi, mostrano una realta’ assai differente: in questi anni si e’ avuto il piu’ basso numero di poliziotti ucisi in servizio a fronte del piu’ alto numero di uccisi dai poliziotti. Alcuni di questi durante conflitti a fuoco, dove vale la regola del mors tua vita mea, altri, come Philip Castille in Minnesota, uccisi senza motivo durante un controllo stradale.

Secondo alcuni il fattto che la polizia uccida nello stesso numero bianchi e neri dimostra che non e’ presente un comportamento razzista tra le forze dell’ordine; peccato che un nero o un ispanico o un nativo al di fuori delle riserve abbia molte piu’ probalita’ di essere fermato dalla polizia rispetto a un bianco.

La societa’ americana negli ultimi decenni e’ stata caratterizzata dal continuo restringersi degli spazi di liberta’, dalla reazione ai movimenti emancipatori degli anni sessantta e settanta, non funzionali all’ordine neoliberale e alle dinamiche di accumulazione del capitale.

Certo, non esistono piu’ leggi che impongono la segregazione razziali ma i ghetti sono rimasti. La popolazione di colore inurbata nei grandi centri industriali del nord era la grand esclusa dal patto sociale socialdemocratico e ha subito la restrutturazione dell’apparato manifatturiero americano in modo pesante, anche piu’ dei colletti blu bianchi. Le comunita’ rurali del sud e della fascia degli Appalachi rimangono cronicamente povere anche a fronte dello spostamento in quelle aree grografiche di stabilimenti che prima si trovavano nel nord. Gli apparati di polizia, pur con l’immissione di quelli che Malcom X chiamava “negri da cortile” rimangono strutturalmente razziste e i collegamenti tra le organizzazioni del suprematismo bianco e le forze dell’ordine statali, cittadine e di contea permangono con forza.

Le famiglie nere insegnano ai propri figli come comportarsi nel caso dei frequenti controlli: mai mettere le mani in tasca, mai dare segni di aggressivita’o abbozzare una reazione neanche nel caso di palesi violazioni degli stessi diritti sanciti dalle leggi. Ben sanno che e’ alta la probabilita’ che un poliziotto decida che un negro e’ troppo aggressivo e vada ucciso o pestato. Tanto e’ un fatto oramai chiaro e palese a tutti che le forze dell’ordine agiscono in un regime di sostanziale impunita’ anche nei casi piu’ gravi. Alla peggio finiscono licenziati e qualche imprenditore bianco e razzista dara’ loro un lavoro come premio per la loro condotta.

E’ inutile che gli editorialisti del Washington Post si eccitino all’idea di avere un presidente nero giurando e spergiurando che il razzismo non e’ piu’ un problema strutturale, che e’ stato risolto dalle magnifiche e progressive sorti della democrazia liberale che ha sussunto e risolto al suo interno le contraddizioni.

Nei ghetti delle grandi citta’ non e’ cosi’. Non e’ cosi’ nemmeno nelle aree rurali della bible belt.

Qua i meccanismi di oppressione di razza, di classe e di genere si intersecano e si avviluppano tra di loro e creano meccanismi infernali.

In questi luoghi e’ ancora importante il ruolo delle congrezioni religiose cristiane, e in taluni quartieri della Nation of Islam, la religione e’ oppio dei popoli e lacrima sulla faccia del mondo, e qua mostra tutta la sua potenza nell’attuire le possibili reazioni ad una societa’ strutturalmente oppressiva. E queste congregazioni sono collegate a doppio filo con i circoli di base del Democratic Party che tenta di cooptare al suo interno le istanze conflittuali per poterle trasformare in pacchetti di voti utili sia a livello locale che a livello piu’ alto. Ma chi costruisce la propria carriera politica sul rappresentare determinati segmenti di sfruttati non ha interesse ad eliminare lo sfruttamento: verrebbe meno la causa prima dell’esistenza delle sue reti clientelari.

Ed eccola qua che fallisce la democrazia liberale: altro non e’ che una forma di contenimento delle forze sociali in un tentativo di rendere armonioso i meccanismi di esproprio e acccumulazione.

Ma le corde troppo tirate si rompono.

Si ruppero negli anni sessanta, si stanno rompendo nuovamente.

Il movimento Black Live Matters sta dimostrando che anche nel cuore degli USA e’ possibile la nascita di situazioni di conflitto sociale, cosa che qua in Europa ogni tanto ci scordiamo, e lo sta dimostrando molto meglio del movimento Occupy, che sta in buona parte subendo il trauma dell’endorsment di Sanders nei confronti di Hillary Clinton. Per riportare Occupy, movimento della middle class urbana bianca, nell’alveo del Democratic Party era in buona sostanza bastato il senatore del Vermont, la sfida del movimento nero sara’ quella di essere irrecuperabile a queste forme di rappresentanza e di delega e collegarsi organicamente conle altre situazioni di conflitto nell nel cuore degli stati uniti.

Intanto questo movimento preoccupa la classe dominante. Gli arresti si stanno contando a centinaia, per altro anche con violazioni della stessa carta costituzionale con arresti su terreni privati messi a disposizione dai proprietari per i presidi, i dipartimenti di polizia usano a volonta’ gas lacrimogeni e spray urticanti ed estende la sorveglianza sugli attivisti. Niente di nuovo sotto il sole.

A Dallas la reazione al cecchino ce ha ammazzato i cinque poliziotti e’stata segnata da un preoccupante salto di qualita’: per chiudere l’assedio all’edificio dove l’uomo si era rinchiuso e’ stato utilizzato un robot degli artificieri che ha ucciso l’uomo con una carica esplosiva. Neanche si e’ tentato di caturarlo vivo per fargl un processo: lo si e’ eliminato, utilizzando quindi una modalita’ di azione puramente da guerra. E’ la perfetta esemplificazione del concetto di nemico interno.

Anche i media si sono scatenati, accusando il movimento Black Lives Matters e alcuni specifici gruppi politici della comunita’ nera, come il New Black Panther Party, di essere i mandanti morali e politici della strage di poliziotti.

Ma intanto la consapevolezza dell’esistenza del razzismo e’ riemersa e si imposta nell’agenda politica e mediatica e non pochi si stanno redendo conto che il razzismo e’ una questione strutturale e non un mero carattere facilmente eliminabile eleggendo un senatore, o un presidente, nero, allo stesso modo in cui il patriarcato e’ un problema che non sara’ certo eliminato dall’eventuale elezione di una guerrafondaia assassina come Hillary Clinton.

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I disobba votano per il PD

 

 

I disobba bolognesi al ballottaggio in cui si doveva scegliere tra la merda e la la merda pensano bene di votare per la merda. Nel caso specifico PD, probabilmente nella speranza di avere qualcosa in cambio. Grazie per l’ennesima dimostrazione di schifo e orrore.

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La stretta autoritaria negli USA

Articolo pubblicato sul numero 24 anno 96 di Umanità Nova

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Per chi segue le vicende interne statunitensi e’ palese come negli ultimi decenni sia stato eroso sistematicamente l’ordinamento liberale e siano stati instaurati meccanismi sempre piu’ restrittivi delle libertà’ degli individui. E’ un processo che e’ iniziato per lo meno dalla seconda meta’ degli anni settanta, con il riflusso dei movimenti, e la nascita dei paradigmi della war on drugs che immediatamente diventa, o meglio: nasce come, war on poors, paradigma che altro non fa che spostare su criteri maggiormente accettabili la costante del razzismo strutturale: se all’epoca delle Jim Crow Laws si era ufficialmente discriminati in quanto neri, o con strumenti differenti in quanto latini o nativi, ora si e’ ufficialmente discriminati in quanto poveri e potenzialmente pericolosi. A partire dallo stesso periodo si e’ potuto assistere ad una costante militarizzazione delle forze di polizia e alla crescita smisurata dell’apparato burocratico e giudiziario a livello federale. In questo si sono inseriti business da miliardi di dollari annui come quello della gestione privata dei centri di detenzione di stato e di contea, le agenzie di sicurezza privata e, nell’ultimo decennio, la neoburocrazia semiprivata della sorveglianza telematica.

Dopo l’11 settembre 2001 vi e’ stato un ulteriore salto di qualita’ grazie al corpus di leggi che va sotto il nome di Patriot Act: capillarizzazione ulteriore della sorveglianza, detenzione amministrativa senza limite di tempo, creazione di liste di persone che vengono interdette nella loro libertà’ di spostamento in base a procedure amministrative su criteri secretati. Questo ultimo meccanismo va a vietare a persone “sospette” di utilizzare mezzi aerei per spostamenti in quanto “potenzialmente” pericolose: i criteri in base a quali si venga iscritti in questa no fly list sono oscuri e non sono mai stati rivelati e sono già’ molti i casi in cui si sono verificati abusi e persone completamente estranee a vicende di criminalità o di terrorismo internazionale o domestico si siano trovate impossibilitate nello spostarsi, ledendo quello che da un punto di vista liberale e’ riconosciuto come diritto naturale.

Dopo la strage di Orlando in Florida abbiamo potuto assistere ad uno squallido teatrino: parte della componente democratica eletta al senato si e’ messa in mostra con un bel sit-in di diversi giorni dentro l’edificio del potere legislativo federale per chiedere che venisse calendarizzata la discussione parlamentare su una proposta di legge del Democratic Party che, se approvata, andrebbe a vietare a certe persone l’acquisto e la detenzione di armi, diritto riconosciuto come inviolabile dal secondo emendamento. Queste liste, secondo la proposta dei democratici dovrebbero riprendere i criteri delle no fly list. Insomma: in base a liste fatte con criteri segreti e da funzionari amminstrativi federali, su non si sa quali segnalazioni, si andrebbe a restringere l’applicazione di un’altra libertà, nonché nel caso statunitense di un diritto costituzionale. Questa pericolosa proposta di legge ha ottenuto anche l’appoggio di certi settori del Republican Party e si vocifera di un possibile endorsment da parte non solo di Trump, candidato ufficiale del GOP per le presidenziali di novembre, ma addirittura della NRA, la National Rifle Association, l’associazione dei possessori di armi, per lo piu’ della middle e upper class consevatrice bianca. D’altra parte, checchè non ne sappiano nulla o se ne scordino i liberals nostrani, già dagli anni sessanta la NRA si era distinta per l’appoggio a proposte restrittive del secondo emendamento purché queste colpissero settorialmente il movimento di emancipazione dei neri, dei latini e dei nativi americani. Non dobbiamo dimenticarci, infatti, che all’epoca la stragrande maggioranza dei movimenti per l’emancipazione dalla discriminazione razziale, da quelli più radicali come le Black Panther o le organizzazione armate dei nativi a quelli più pacifici come il movimento del reverendo King, ponevano, pur con diverse sfumature, la questione dell’autodifesa dagli attacchi criminali dei vari gruppi reazionari razzisti, spesso appoggiati dalle strutture locali, e non solo, dell’organizzazione statale.

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Vignetta del sempre eccezionale rednblacksalamander

Di acqua sotto i ponti ne e’ passata: per quanto non vi siano più quei grandi movimenti di massa e le azioni contro il razzismo strutturale siano divenute meno incisive e più sporadiche, anche se il movimento Black Lives Matters sta innescando una nuova fase di lotte, il conflitto sociale fa sempre paura. Anzi: in una fase di imponente restrutturazione economica fa ancora più paura. E allora ecco scendere in campo i peggiori attrezzi della repressione: sospensione in base a criteri amministrativi di diritti costituzionali, sorveglianza sempre maggiore nei confronti degli attivisti, repressione preventiva. Il tutto sotto l’egida della war on terror e la spinta emotiva data da episodi di mass shooting, per quando questi, a vedere i dati, siano in calo.

Ovviamente queste proposte vengono presentate come leggi atte a tutelare tutti. Ma ben sappiamo che andranno a colpire in maniera molto selettiva coloro che agiscono per un cambiamento radicale della società e coloro che sono strutturalmente oppressi. Sopratutto se andiamo a sommare queste proposte di leggi con la pratica del racial profiling che è attuato con sempre maggiore intensità dalle forze dell’ordine e con le proposte di estendere il sistema di background checks.

Insomma: ancora una volta si può osservare come la propaganda politica utilizzi il dato dell’emotività e di un certo perverso senso comune per imporre un’agenda politica autoritaria che altro non farà che riprodurre e peggiorare l’attuale sistema di dominio.

lorcon

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Tra padroni continentali e padroni insulari – Brexit?

Questo articolo verrà pubblicato sul numero 23 anno 96 di Umanità Nova

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Il premier Cameron insieme ad un suo compagno di giochi, non sappiamo quanto consenziente.

Il voto del referendum nel Regno Unito pone le basi per significative modifiche alla situazione internazionale. Intanto il voto ha fatto emergere definitivamente divisioni interne al territorio del Regno Unito: la Scozia, nazione costituente del regno, ha fatto capire che tenderà alla completa indipendenza da Londra e richiederà autonomamente di rientrare nell’Unione Europea. Anche in Ulster riprendono fiato le politiche indipendentiste, tese a riunificare le contee con l’Eire e, di conseguenza, rientrare nell’UE. Nei fatti il risultato del referendum rischiano di far collassare l’assetto oramai plurisecolare, l’ultima modifica di rilievo era stata l’indipendenza dell’Eire quasi novantacinque anni fa, delle isole britanniche. Il Regno Unito insomma non sarà più tanto unito e rischia di divenire solo l’unione tra Inghilterra e Galles.

Se si dovesse concretizzare a breve, come sembrano indicare tutti i fattori, l’indipendenza della Scozia, già sfiorata e non concretizzatasi per pochissimi punti percentuale nel 2014, lo UK perderebbe l’accesso al mare del nord con le sue cospicue riserve petrolifere e le sue acque pescose e, contemporaneamente, la finanza londinese, dove vengono trattati sul mercato azionario e su quello dei futures le commodities petrolifere del Mare del Nord, subirebbe un duro colpo. Colpo, per altro già iniziato, come mostrato dalla sterlina ai minimi storici, alla diminuzione del rating per i prodotti finanziari made in UK e la decisione di molte banche e imprese finanziarie di spostarsi da Londra ad altre piazze europee. Insomma il settore finanziario, punto di forza del Regno Unito, non solo perderà la sua centralità ma rischierà di trascinare al collasso altri settori economici. Anche perchè già in questi giorni molte banche internazionali con sede a Londra han cominciato a migrare. Ma le conseguenze a livello geopolitico non si fermano qua: intanto il principale interlocutore tra USA e UE si è estromesso da solo da questo ruolo. Finora il mantenimento di una Unione Europea stabile internamente e lanciata anche aggressivamente verso est è stato funzionale agli interessi egemonici statunitensi. Certamente gli USA possono sempre contare sui paesi dell’Est-Europa ma perdono una grossa fetta di influenza. Se la UE poteva definirsi come il luogo politico ove si sono incontrati gli interessi congiunti Italo-Franco-Anglo-Tedeschi con quelli statunitensi grazie al legame speciale tra USA e UK ora tutto questo è un po’ meno vero. E attenzione: uno sfaldamento del Regno Unito a causa dell’uscita della Scozia sul breve termine e quella dell’Ulster sul medio termine avrebbe grosse conseguenze anche a livello militare. Le forze armate dello UK sono una delle principali strutture militari al mondo, con capacità di proiezione marittima non indifferente. Indebolendosi lo UK gli USA perdono un alleato affidabile e forte.

Ma anche a livello interno le conseguenze saranno pesanti. La Brexit è attribuibile in primo luogo al premier Cameron. È stato lui che ha indetto questo referendum per un gioco di potere interno ai Tories: il gioco era indire il referendum per dimostrarsi pronti ad affidare alla volontà popolare la scelta di uscire dalla UE, fare campagna per rimanere nella UE, vincere il referendum e sconfiggere così l’ala di destra del partito, quella che intrattiene buone relazione con lo UKIP, il partito dell’aristocrazia, nazionalista e razzista. Peccato che il gioco sia scappato di mano al giocatore e il povero Cameron passerà alla storia come il più grande imbecille che è passato per Downing Street. Si vede che le lauree ad Eton e le controverse pratiche con i maiali morti non donano intelligenza.

Certo, il partito dei Tories può sempre cercare di non ratificare il referendum in parlamento o tardare il più possibile la sua applicazione, ma così facendo andrà incontro ad una debacle elettorale da cui difficilmente si riprenderà, tradendo il voto di molti suoi elettori che passeranno allo UKIP. E in ogni caso il processo di disgregazione del Regno Unito non si fermerà per quanti bastoni di traverso il parlamento possa mettere tra le ruote: la Scozia è andata vicina all’indipendenza due anni fa e ora la sua classe dirigente sembra più decisa che mai ad ottenerla, in Ulster nel giro di pochi anni vi sarà il sorpasso demografico della componente cattolica e repubblicana su quella protestante e unionista. In ogni caso gli accordi di fine anni novanta che, dopo gli attentati ai centri finanziari inglesi che avevano prodotto miliardi di sterline di danni, accordi sponsorizzati dall’amministrazione Clinton, avevano messo fine a trenta anni di troubles in cambio di concessioni allo Sinn Fein, dovranno essere rinegoziati.

In ogni caso l’ala che fa riferimento al governo Cameron nel Partito Conservatore esce sconfitta da questo referendum, mentre forti tensioni attraversano il Labour, con l’ala centrista del partito che accusa il leader Corbyn di aver puntato poco sul no alla Brexit per strizzare l’occhio alla sinistra antieuropeista. Lo UKIP di Farage sembra essere il vero vincitore ma gira voce che non siano dotati di abbastanza intelletto, d’altra parte sposarsi tra consanguinei per preservare la purezza del proprio sangue blu non giova, per andare realmente al governo.

In ogni caso coloro che risultano come probabili prime vittime di questo referendum, giocato tra due soluzioni che dal nostro punto di vista non sono ambedue accettabili, saranno quelle centinaia di migliaia di lavori immigrati da altri paesi UE verso l’inghilterra. Italiani, polacchi, rumeni il cui lavoro regge il settore dei servizi dell’intera Londra e di altre grandi città che ora saranno messi in posizioni di ulteriore ricattabilità in quanto privati della protezione che in qualche modo l’essere cittadini UE in territorio UE garantiva.

Una parte della sinistra britannica, illusa che le politiche di austerità dipendessero principalmente dalla UE e sempre meno dai padroni del vapore muniti di Union Jack, ha votato compattamente per l’uscita dalla UE, dimenticandosi che queste politiche erano iniziate con la Tatcher, continuate con Blair e ulteriormente inasprite dai governi liberal conservatori e poi conservatori e basta ben prima che la famigerata Troika entrasse in campo.

La situazione, in definitiva, appare complessa e va analizzata in profondità e con rigore analitico, senza farsi da facili entusiasmi. Non sarà un referendum a porre le basi per la nostra emancipazione.

 

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