Una situazione complessa

Il seguente articolo, che comparità sul numero 27 anno 96 di Umanità Nova, funge da corollario all’interessante intervista con un membro del DAF (Azione Anarchia Rivoluzionaria), organizzazione anarchica turco-kurda.

Una situazione complessa – Turchia, islam e dintorni

14344243_1195972217134376_5971123923346751317_nL’intervista pubblicata su questo numero di Umanità Nova ad un membro dell’organizzazione anarchica turco-kurda DAF (Azione Anarchica Rivoluzionaria) ci permette di avere una visione della complessità della situazione di quell’area geografica.

Intanto emerge come le strutture statali contemporanee non siano strutture monolitiche ma, invece, siano composte da una serie di cordate di potere in un rapporto dinamico tra di loro. Se l’AKP e l’organizzazione di Gulen erano alleate in quanto condividevano interessi convergenti nell’eliminare la componente kemalista che ha governato lo stato turco per decenni – e per governato non intendiamo solamente l’espressione del primo ministro e dei ministri, punte dell’iceberg della struttura statale, ma il controllo dello stato profondo (apparati di sicurezza, burocrazia, forze armate, attori economici pubblici…) – quando questi interessi convergenti sono venuti meno la precedente alleanza si è trasformata in conflitto, prima nascosto e poi sempre più palese.

Il tentativo di golpe che, non solo a parere dei compagni del DAF, è maturato all’interno dell’ambiente gulenista ha, per altro, avvicinato il CHP, il partito kemalista, all’AKP. Insomma, il gioco delle alleanze non è mai stabile, niente è mai definitivo nella guerra perpetua per il controllo delle strutture di dominio.

La stessa composizione delle cordate di potere in campo ce la dice lunga su come sia organizzato il sistema di potere e dominio: una miriade di interessi economici, aziende manifatturiere, compagnie edili, aggregati di mass media, attori finanziari. Il “blocco edilizio” ovviamente anche in Turchia fa da padrone: lo spazio urbano come spazio in cui si territorializzano gli interessi finanziari che si sono incontrati con le necessità di modellare uno spazio utile all’accumulazione di capitale. Dall’intervista emerge la funzione della guerra con la sua deliberata strategia di distruzione delle città e dei villaggi kurdi come momento fondamentale, l’apice del ciclo di creazione/distruzione dei beni, di merci. La stessa rivolta di Gezi Park e di piazza Taksim avevano tra i temi principali quello dello spazio urbano: la scintilla che fece scattare la rivolta fu il tentativo di distruzione del parco per costruire un nuovo polo economico e militare in luogo di un quartiere che, negli ultimi decenni, è stato un centro di aggregazione popolare. Spentasi la rivolta del 2013, rafforzato il potere del governo dell’AKP e del blocco edilizio che lo sostiene dopo il fallito colpo di stato, ecco Erdogan annunciare trionfante che Gezi avrà un nuovo volto: una grossa moschea e una caserma.

Il mercato edile va sempre a braccetto con le decisioni degli attori istituzionali, se separati non sanno dove andare, è così in tutto il mondo occidentale. Lo spazio urbano, la città, è il terreno di scontro, in esso si concentrano i flussi di dati, capitale, merci fisiche, persone, sul cui controllo si gioca tutto.

Un altro fattore importante che va tenuto in considerazione nell’ambito turco, ma non solo, è il ruolo della religione e delle strutture sociali ed economiche ad esse collegate. Sia Gulen sia Erdogan provengono da ambienti religiosi molto particolari. Caratteristica spesso ignorata dell’islam è quello delle confraternite religiose, che nell’ambito del levante siriano e della Turchia si traducono in veri e propri filoni religiosi esoterici ed iniziatici. Basti pensare, su tutti, al ruolo dell’eterodossia alevita in Siria nel mantenere l’apparato di potere degli al-Assad, di come questa abbia fornito l’inner circle del Ba’th’ siriano, ma anche di parte di quello irakeno. La questione del ruolo di certe correnti particolariste all’interno dell’islam, sciita o sunnita, non è da sottovalutare: fondamentale fu il ruolo dell’islam modernista dell’università di al Azhar del Cairo nello sviluppo della politica Egiziana sotto Nasser e Sadat, ruolo mantenuto anche in seguito e che permette al Cairo di avere una potente leva culturale e religiosa per influenzare gli altri paesi della regione. Fondamentale è stato il ruolo delle confraternite religiose sunnite in Turchia nel definire il cambio di regime dallo stato kemalista a quello a guida AKP: costruire convergenze di interessi economici con giustificazione religiosa. Secondo certi osservatori questo stesso ruolo è stato fondamentale nel determinare l’alleanza tra l’allora nascente Stato Islamico e i quadri del Ba’th’ irakeno usciti sconfitti dallo scontro decennale con gli USA.

Hizmet, il nome ufficioso del movimento di Gulen, mette al suo centro il ruolo economico del fedele come portatore di ricchezza materiale e di responsabilità sociale che viene mediata dalla stessa struttura della confraternita. L’esempio più calzante che possiamo trovare in Italia è Comunione e Liberazione e la sua Compagnia delle Opere. Ma il rimando è anche un altro: la “teologia della ricchezza” propagandata da certe correnti evangeliche, che si sono diffuse prima negli Stati Uniti durante l’era Reagan e, poi, tra le nuove borghesie dei paesi emergenti, sia nell’Africa occidentale sia in paesi latini come il Brasile. La capacità di mobilitazione politica e di accumulazione economica di questi religioni ipermoderne è diventata impressionante. Se fino a qualche decennio fa la religione era l’oppio dei popoli e la lacrima sul volto del mondo, ora non è più oppio ma amfetamina. Il ruolo politico della religione stava già diventando chiaro quando nacque la repubblica islamica in Iran o con l’emergere della Fratellanza Musulmana in Egitto e Palestina, in un lungo e travagliato percorso che parte dal Cairo degli anni quaranta.

Hizmet ha la propria associazione di imprenditori, Tusko, ha la holding Zeman che controlla televisioni, siti di informazione e giornali, ha la sua componente esplicitamente religiosa: Cemaat.

L’AKP, con i suoi legami ferrei con la confraternita Naqshbandiyya non è da meno. Erdogan ha dimostrato la capacità di orientare le masse, di dirigerle, di toccare quelle corde emotive, spesso religiose, che hanno permesso di ottenere quella mobilitazione di massa che ha sconfitto il golpe. I morti durante la mobilitazione sono stati dichiarati martiri. Ci manca solo che il capo temporale dello stato turco faccia come i monarchi ottomani: proclamarsi Califfo, capo dell’insieme dei credenti, l’unico con il potere di dichiarare la Jihad. Ma nei fatti se questa mossa esplicita sarebbe azzardata, Erdogan sta già agendo con questa funzione, ricomponendo sotto di se l’Islam sunnita in chiave moderna, appoggiando il revival islamista in Anatolia, stringendo a sé la Fratellanza Musulmana, mettendosi in diretta opposizione con la famiglia reale di Ryad, custodi dei luoghi sacri ma beduini arricchiti, gretti e reazionari e legati a triplo filo con gli USA. Erdogan punta a diventare il punto di equilibrio della regione. Se qualche mese fa il progetto neo ottomano di creare una direttrice sud, tramite la Siria verso l’inner land irakeno, sembrava morto dietro la sconfitta militare dell’ISIS su più fronti, stretta tra l’avanzata delle SDF, del governo irakeno sotto la guida dell’Iran, del Kurdistan Irakeno e dall’avanzata delle stesse forze del regime siriano con l’appoggio russo, ora Erdogan può provare a resuscitare questo piano: entra direttamente in Siria, sostituendo l’ISIS, senza colpo sparare a maggior conferma del fatto che l’ISIS ha agito come strumento versatile per i maggiori attori statali dell’area, ad ovest dell’Eufrate, ricomponendo la frattura con la Russia e, in prospettiva, cercando un accordo con Damasco. Vittime sacrificali dell’accordo è quell’insieme di forze che, guidate dal PYD, hanno costruito l’esperimento confederalista nel nord della Siria e che erano riuscite a mettersi in relativa sicurezza allontanando l’ISIS dai confini turchi.

Ma la partita è ancora da giocare: la Turchia non può permettersi un intervento militare diretto contro il Rojava, il prezzo da pagare in termini militari, ma anche di ripercussioni nell’opinione pubblica mondiale, sarebbe alto – la Russia e gli USA stessi non sarebbero d’accordo. Le retrovie, poi, con il Bakur infiammato da mesi dagli scontri, non sono sicure per garantire un’operazione simile.

In queste dinamiche emerge con chiarezza il ruolo delle organizzazioni rivoluzionarie come la DAF: costruire un’alternativa alla guerra incessante che è il nucleo del dominio dello stato e del capitale. Il dato interessante che emerge dall’intervista è che la DAF è un’organizzazione con una sua specifica autonomia d’azione, che porta avanti i suoi contenuti e le sue pratiche, ad Istanbul come nel Bakur od oltreconfine. Il confederalismo democratico dell’HDP nel Bakur sta incontrando un enorme problema: l’aver voluto fare affidamento alle istituzioni statali, con la presa dei municipi con un processo elettorale. In questi giorni il governo turco sta destituendo i sindaci dell’HDP, avocando a sé stesso quello che suo è per natura: il controllo del governo locale. La maschera della democrazia liberale, sotto cui un processo di tipo elettorale come quello impostato dall’HDP poteva trovare un suo spazio di manovra, è caduta. Con il processo di “ripristino della democrazia” dopo il Golpe, Erdogan tenta di chiudere lo spazio politico in cui l’HDP era riuscito con abilità a muoversi.

Le organizzazioni politich541519_480961541968784_1614565254_ne che si rifanno al modello confederalista democratico hanno avuto un ruolo innegabile nell’organizzare i processi di cambiamento sociale, spendendosi generosamente per il superamento dell’attuale sistema statale e capitalista, lavorando in questo anche con i compagni e le compagne del DAF, ma se in Siria hanno potuto contare sul ritiro dello stato Siriano per sostituirlo con delle strutture di stampo autogestionario, nel Bakur non è stato così. Se il governo è sconfitto in certe aree su un piano elettorale può sempre ricorrere alla magistratura, alla polizia, all’esercito. Solamente la generalizzazione delle lotte su un piano radicale e rivoluzionario potrà mettere la parola fine alla guerra e all’osceno gioco al massacro, solamente il rafforzamento dell’organizzazione rivoluzionaria potrà agire in tal senso.

lorcon

Informazioni su lorcon

Mediattivista, laureato in storia contemporanea con attitudine geek, nasce nel sabaudo capoluogo (cosa che rivendica spesso e volentieri) e vive tra Torino e la bassa emiliana. Spesso si diletta con la macchina fotografica, lavora come tecnico IT, scrive sul suo blog e su Umanità Nova.
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