Trovare una cura per il corpo sociale o per l’economia? Il rebus ai tempi delle pandemie

Il seguente articolo è stato scritto dal sottoscritto e da JR e pubblicato su uenne n. 8 anno 100

Il sistema socio-economico nel quale siamo immersi, da occidente sta fagocitando ogni altra forma di strutturazione della società, imponendo una visione monodimensionale dell’esistenza, quella del mercato. questo processo che potremmo tranquillamente definire “l’occidentalizzazione del mondo” anche se in una accezione assai più complessa di quanto immaginato da Latouche.[1] È la complessità in sé che qui analizzeremo, l’estrema complessità che rende fragile e delicato il sistema sorretto dall’ideologia neoliberista e reso pulsante dalle infrastrutture del processo di integrazione globale. Complessità estrema che decreterebbe il collasso del sistema se questo non fosse in grado di rigenerarsi, cannibalizzando parti di sé stesso. Questa visione truce, quasi un misto tra una creatura da girone dantesco ed un mito arcaico, è invece quanto di più attuale e reale possa esserci, anzi è forse l’unica realtà autentica che abbiamo d’innanzi. In queste righe cercheremo di fornire una analisi essenziale non tanto della pandemia da coronavirus in sé e per sé, volta invece a capire in quale contesto essa si stia evolvendo, descriveremo cioè in quale complessità essa stia esplodendo e le condizioni nelle quali versa il corpo sociale nel quale questa pandemia sta facendo il suo corso.

La questione quindi va al di là della pericolosità o meno del virus: non ci sbilanceremo a soppesare cifre e statistiche per verificarne o confutarne la letalità. Quello che qui si vuol indagare sono i meccanismi di difesa che i vari governi stanno impiegando (le più disparate misure difensive senza molte strategie comuni) che giocoforza si scontrano con la complessità del sistema socio economico. Si va dal blocco totale e dall’obbligo di dimora per la Cina, alle serrate degli aeroporti per i probabili infetti nel resto del mondo, alle serrate a macchia di leopardo in Europa. Un mese di protocolli antivirus hanno piegato l’economia finanziaria di mezzo continente asiatico che ha trascinato con se il resto delle piazze di scambio azionario: le ultime due settimane di panico europeo hanno assestato un’altra sonora bastonata alle borse che non hanno fatto altro che andare giù ad una media di quasi il -3% giornaliero.

Cosa succede? Succede che queste misure di sicurezza (giuste o sbagliate che siano) stanno dimostrando come l’intero sistema possa entrare in crisi in pochissimi giorni. Se pensiamo alla grande depressione americana, ci sono voluti quasi dieci anni per arrivare al venerdì nero del ’29, oggi basta invece il blocco di una regione come la Cina per meno di un mese e comincia ad entrare in crisi un settore che sta all’altro capo del mondo. Ciò è essenzialmente dovuto a due elementi strutturali del sistema economico globale: da un lato le connessioni e le relazioni complesse che formano il network globale, dall’altro il principio economico che le governa, la competitività (per semplicità e per contenere l lunghezza dell’articolo condenseremo in questi due concetti tutto il succo della teoria neoliberista).

L’uno è funzionale all’altro, una rete infrastrutturale efficiente abbatte i costi di trasporto e rende economicamente vantaggioso delocalizzare la produzione, ciò però non basta. Per essere competitivi bisogna abbattere tutti gli altri costi, il lavoro diventa super flessibile, ossia precario: ti assumo e ti licenzio come e quando voglio con contratti senza garanzie, ma non basta ancora. Altri costi da tagliare, con l’efficientamento e la robotizzazione: via gli “sprechi”, via i magazzini, non servono, ingombrano e costano troppo, andiamo col just-in-time; rapido, economico e flessibile.

Una macchina da corsa agile e scattante, ma che per guadagnare in velocità non ha dispositivi di protezione o ruota di scorta. Siamo inciampati su una bestiola piccolissima, più microscopica di un granello di polvere che ha inceppato il meccanismo. Ma da sola questa spiegazione non basta, il sistema non è solo delicato ma è anche in equilibrio instabile, in perenne recessione ed è in terapia intensiva dal 2008, in perenne rallentamento, e per mantenere questo minimo di abbrivio ha cominciato ad autodigerirsi, ha fatto fuori tutte le “spese inutili”, eroso il welfare, mandato in soffitta ogni simulacro di patto sociale welfaristico, abbandonato le strategie di sviluppo programmato e trasferito sempre più fondi a garanzia dei mercati finanziari: in pratica abbiamo infilato la testa nel cappio ed abbiamo cominciato a dondolare sullo sgabello…

Le procedure d’emergenza per arginare la pandemia si incardinano in una situazione già assolutamente instabile, agendo su un corpo sociale sfinito, impaurito e per questo aggressivo. Agendo su un sistema economico in crisi e su un sistema di servizi martoriati da tagli e clientelismi furfanteschi, le misure per circoscrivere la possibile pandemia stanno finendo per mettere la famosa toppa peggiore dello strappo. Passata la pandemia avremo il corpo sociale in agonia, disgregato e impoverito, con tutta probabilità saremo più indebitati di prima e con molte meno speranze nel miracolo europeo (quale?). Ma non è tutto, il rancore sociale non lo spazzerà via il morbo o lo filtreranno le mascherine: questo rimarrà nell’aria appestando peggio del virus, spalancando le porte al peggior pensiero reazionario.

Un popolo furibondo fiaccato e impaurito che cerca come una belva affamata qualcuno con cui prendersela. Un rancore fomentato dall’informazione farcita di casi umani, narrazioni apocalittiche, tecnici improvvisati o “esperti e luminari” che non appaiono mai nelle riviste in cui ci si attenderebbe di trovarli. Ma dal momento che per quanto rancoroso e iracondo il popolo difficilmente se la prende col nemico giusto, andrà a stanare gli ultimi degli ultimi o troverà un colpevole oltre confine, l’odiata gente teutonica, i cugini mangiarane, i detestati mangiariso, quelli che arrivano su un barcone o nel doppiofondo di un tir. Difficilmente alzerà lo sguardo per trovare il giusto colpevole.

Fuori dalla narrazione altisonante dal sapore antico, la realtà è assai più becera dell’immaginazione; le azioni funamboliche di governi sempre più proni ai mercati e sempre più sordi ai rantoli della società in agonia, cercano di tamponare una situazione disperata. Un interrogativo impossibile: curare il corpo sociale o salvaguardare l’economia che ha condotto la società ad uno stato di coma?

Spesso si sente dire che nelle crisi si possono intravedere delle opportunità di cambiamento – sarebbe quindi il caso di ragionare e non farsi prendere dal panico. Occorre capire che la propagazione della pandemia è inevitabile in un mondo globalizzato; che per fortuna a diffondersi non è un qualcosa di letale come una nube radioattiva ma un qualcosa di controllabile, capire inoltre che c’è una stretta connessione tra la propagazione e lo stile di vita che abbiamo abbracciato.

La delocalizzazione produttiva porta con se la necessità di spostamenti per varie ragioni e lo spostarsi è diventato un business di per sé, se questo si blocca comincia ad incidere su altri pezzi di produzione, i quali innescano crisi locali che si trasferiscono ad altre catene produttive in una sorta di fibrillazione cardiaca che corre in lungo e in largo per il globo. Queste sono le conseguenze di un mondo in accelerazione costante, in perenne connessione e in perenne mutamento, fluido flessibile dinamico ma incommensurabilmente sensibile.

Partire quindi da queste crisi per ripensare non soltanto al fatto di essere all’interno di questa follia ma al senso che questo sistema da all’esistenza umana. Il momento di crisi come un ripensamento dei paradigmi esistenziali dell’esserci qui ed ora come elementi funzionali ad un sistema, sacrificabili in nome di un’entità astratta dietro cui si celano interessi concreti. Ripensare quindi a forme di conflitto che partano dalle evidenze che crisi come queste mettono in luce, innescare una contronarrazione di entità quali lo Stato e similari, i quali dimostrano, nella loro compagine burocratica, di non avere reali dubbi circa le scelte da prendere, se salvare la prospettiva esistenziale della società o gli strumenti di annichilimento sociale dei mercati globali.

Il modello di gestione della crisi adottato dallo stato italiano prevede lo scarico dei costi di essa sulle spalle dei singoli individui, nella speranza che le reti di welfare familiare, ancora una volta, reggano. Vengono vietati gli assembramenti per manifestazioni politiche e culturali ma vengono sostanzialmente lasciati aperti i luoghi di produzione e di consumo. Come se il COVID-19 si trasmettesse solo in cortei e concerti ma non nelle mense aziendali, negli uffici, sugli affollati mezzi di trasporto per pendolari, nei reparti delle aziende, negli ipermercati.

I lavoratori del settore dei servizi di ristorazione e dei servizi culturali, che sono stati tra i più esposti alla precarizzazione, vengono man mano lasciati a casa dal lavoro ed agli arguti governanti non passa nemmeno per la testa di introdurre delle misure di sostegno al reddito, attive, tramite elargizione diretta di ammortizzatori sociali in sostegno del reddito, o passive, tramite il blocco di bollette e fitti. Il blocco della didattica va a colpire tutti quei lavoratori tramite cooperativa dei settori educativi, tenuti fuori da contratti stabili grazie l’esternalizzazione di questi servizi avvenuta negli ultimi decenni, e, anche qua, non ci si pone il problema di come questi potranno arrivare a fine mese.

Le aziende improvvisamente scoprono lo smartworking per i lavoratori cognitivi ma ne fanno ricadere i costi di implementazione sui lavoratori stessi, in barba ad una normativa che prevederebbe accordi sindacali e individuali, costo dei dispositivi digitali e connessioni telematiche a carico all’azienda: in nome dell’emergenza si implementa il telelavoro facendone pagare i costi ovviamente solo ai lavoratori. Non hai il computer a casa? Compratelo. Non hai una connessione internet decente? Utilizza il tuo cellulare come hot-spot, a spese tue.

Le patrie galere sono, oltre che schifose per il semplice fatto di esistere, da sempre sovraffollate, grazie alle politiche di war on drugs ed all’infame gestione dei flussi migratori, con standard igienico-sanitari pessimi, dove una percentuale non indifferente di detenuti è afflitta da malattie croniche. Davanti a tutto questo la logica imporrebbe immediate misure che abbattano i tempi della detenzione preventiva, spesso abusata da pubblici ministeri alla ricerca di notorietà come sceriffi, accesso facilitato ai domiciliari e misure alternative di sorta, chiusura dei CPR. Ma il paradigma del populismo penale impedisce anche l’adozione di misure come quelle sopra elencate che di certo non sono rivoluzionarie. Come risultato si preferisce tenere pericolose situazioni di sovraffollamento, in attesa di avere interi bracci carcerari trasformarsi in lazzareti. Ma tanto, si dirà, quelli sono corpi che non contano. Vuoti a perdere, popolazione in surplus, se muoiono sarà come un’accidente che guasta la merce in un magazzino.

Il sistema sanitario è stato massacrato da decenni di tagli: vi è una cronica mancanza di personale e di strutture, ed in Italia va ancora bene rispetto ad altri paesi del centro del sistema-mondo a dirla tutta. Già normalmente capita che i ricoveri in pronto soccorso, anche per condizioni gravi, durino dei giorni perché i reparti sono pieni. Figuriamoci con una pandemia che impone il ricorso alla terapia intensiva per una percentuale relativamente alta di malati cosa può succedere. Improvvisamente si scopre che mancano posti in terapia intensiva. Chi finisce in quarantena rimane isolato in casa senza che le aziende sanitarie pubbliche si premurino di fornire alimenti e beni di prima necessità.

L’irrazionalità del sistema capitalistico ancora una volta si dimostra incapace di gestire le emergenze, di pianificare in anticipo, di avere una visione complessiva che ponga al centro i bisogni umani e non le esigenze dell’accumulazione di capitale. Ieri era Seveso, oggi è il Coronavirus.

NOTE

[1] Serge Latouche, L’Occidentalizzazione del Mondo, traduzione di Alfredo Salsano, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, pp. 159, ISBN 88-339-0655-8.

Informazioni su lorcon

Mediattivista, laureato in storia contemporanea con attitudine geek, nasce nel sabaudo capoluogo (cosa che rivendica spesso e volentieri) e vive tra Torino e la bassa emiliana. Spesso si diletta con la macchina fotografica, lavora come tecnico IT, scrive sul suo blog e su Umanità Nova.
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