Railog

Foto scattata non so più quando non so di preciso dove (dovrebbe essere un interporto in zona Sassuolo)

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Il sultano ci riprova

Il seguente articolo è stato pubblicato sul numero 3 anno 98 di Umanità Nova

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Dopo mesi di costante guerra a bassa intensità le truppe turche attaccano direttamente il Rojava, prima con un violento bombardamento, sia d’artiglieria che aereo, della città di Afrin e poi penetrando oltre confine con truppe terrestri e bande jihadiste. Frustrato nel suo sogno di spodestare Assad per porre buona parte del territorio siriano sotto il controllo de facto di Ankara, il sogno neottomano come lo chiamò qualcuno, Erdogan non rinuncia ad attaccare, con il beneplacito russo e qualche mugugno americano, il Rojava.

Lo sviluppo di un’area autonoma che è riuscita a garantire la sua sopravvivenza sia manu militari sia attraendo la simpatia dell’opinione pubblica internazionale è sempre stata visto come ben più di una spina nel fianco dal governo di Erdogan. Difatti la vittoria di Kobane e la successiva pluriennale controffensiva verso Raqqa hanno segnato il momento in cui il Califfato di al Baghdadi ha cominciato a perdere il passo. La controffensiva del Rojava, sostenuta sia da russi che da americani, insieme al contrattacco dei lealisti siriani, sostenuti da Russia e Iran, alla controffensiva da parte della regione autonoma del Kurdistan Irakeno e la ripresa delle forze armate Irakene, integrate da consiglieri iraniani e milizie sotto il diretto controllo di Theran hanno avuto in due anni ragione dell’Isis nella maggior parte dei teatri bellici, scacciando il Califfato sia da Raqqa che da Mosul.

Ma così come un cuscinetto a sfera si usura col passare del tempo con le sconfitte militari la funzione di stato cuscinetto che aveva assunto il Califfato è venuta a meno. Se per due anni infatti l’attrito tra i vari attori era stato mitigato dalla presenza di questo ente assunto al ruolo di Gran Villain della geopolitica, ruolo che per altro ha fatto di tutto per ottenere, ora questo cuscinetto sta venendo a meno e l’attrito torna a farsi risentire come mai.

Il governo turco ha la necessità di riprendere i suoi tentativi di marcia verso sud e se da un lato ha ritrovato una cordialità con la Russia dall’altro di certo non gradisce la presenza di grosse installazioni militari russe a poche centinaia di chilometri dal suo confine a meridianale, installazioni in cui Mosca può velocemente dispiegare sistemi d’arma antiaerei che hanno un raggio d’azione che si inoltra per centinaia di chilometri nello spazio aereo turco e che possono ospitare unità della marina in grado di penetrare lo spazio marittimo e l’area economica esclusiva di Ankara. D’altra parte se in Siria Erdogan e Putin possono avere negoziato un accordo sulle spalle del Rojava hanno ben altri disaccordi, più o meno dormienti e potenzialmente catastrofici, in Caucaso e nell’Asia Centrale, il polo delle inaccessibilità che si frappone tra Occidente e Cina.

Assad e la borghesia nazionale siriana a loro volta non hanno una grande voglia di accordarsi con chi come Erdogan, insieme a paesi del Golfo e USA, ha provato a fare loro le scarpe e li ha gettati in profonda difficoltà. E se sopportano a fatica l’autonomia del Rojava, con cui hanno dovuto siglare una tregua che sostanzialmente tiene da cinque anni, di certo non sopportano affatto che la Turchia con la scusa della protezione delle popolazioni turcofone nel nord ovest siriano si sia annessa de facto del territorio precedentemente controllato dallo stato siriano.

A precipitare ulteriormente la situazione c’è la lotta egemonica all’interno del blocco dei paesi del Golfo tra Arabia Saudita e Qatar, e la lotta per l’egemonia nel blocco sunnita tra Arabia Saudita e Turchia, e la nuova aggressiva politica saudita.

E sullo sfondo il grande gioco tra Iran e Arabia Saudita.

In tutto questo i contendenti hanno bisogno di rafforzare, consolidare ed espandere le proprie posizioni. E la Turchia vuole minare la presenza delle forze confederaliste-democratiche del Rojava nel cantone di Efrin, un territorio che si incunea nel territorio turco. Già da tempo Ankara si trova a tollerare controvoglia la presenza del Rojava sulla riva destra dell’Eufrate e ora gioca apertamente le sue carte.

Rischiando di rinfocolare l’insurrezione nel Bakur, il Kurdistan turco, e andandosi ad impegnare in una guerra asimmetrica in cui il PYD e il PKK hanno già dimostrato di saper giocare.

Se Erdogan ha passato l’ultimo anno e mezzo a rinforzarsi purgano dalle strutture statali tutti gli oppositori legati a Gulen e incarcerando migliaia di militanti kurdi e turchi non si può certo dire che la situazione interna turca sia pacificata.

La sistematica distruzione di alcune città del Bakur, la rimozione di tutti gli eletti dell’HDP dalle cariche pubbliche amministrative e lo stillicidio di guerra a bassa intensità contro il Rojava si aggiungono a una situazione sociale che vede un sempre maggiore sfruttamento della classe operaia turca e kurda, grandiosi progetti edilizi che prevedono l’espulsione di centinaia di migliaia di appartenenti alle classi popolari, sia nelle riconquistate, e rase al suolo, città kurde che nei grandi centri urbani anatolici e una repressione sociale in fortissimo aumento a causa della reislamizzazione della società che il governo vuole imporre.

Il pretendente sultano Erdogan e la borghesia turca hanno deciso di riprovarci con la marcia verso sud e sono disposte a giocare quello che può diventare un tutto per tutto dentro gli stessi confini turchi.

Il Rojava ha saputo, meritatamente, negli ultimi anni rappresentare un’alternativa agli occhi non solo dei kurdi. A indubbie contraddizioni in quell’esperienza si affiancano indubbi e notevoli progressi in moltissimi campi verso la costruzione di una società emancipata. Nel 2014, nei giorni in cui Kobane si trovava stretta tra l’attacco del Califfato e un serrato confine turco che impediva anche la fuga degli sfollati oltre che l’ingresso di aiuti l’insurrezione del Bakur, la pressione internazionale, l’ondata di proteste interne, l’azione diretta ai confini da parte dei compagni turchi e kurdi che abbatterono fisicamente le barriere di separazione costrinsero lo stato turco ad allentare la pressione su Rojava permettendo alle YPG/J di resistere e riconquistare la città.

La Turchia è un paese NATO e la tecnologia bellica che utilizza è tecnologia per lo più europea, è un paese organicamente inserito nell’economia mondiale, la sua borghesia fa affari quotidianamente con le borghesie europee, e non solo, gli investimenti da parte di imprese europee in Turchia sono enormi. Non è il Gran Villain della geopolitica, quell’ISIS che ora passa in secondo piano e sembra compiere la propria parabola. Nonostante questi fattori vi sarà ancora la capacità di costruire una mobilitazione che sia in grado di inceppare la macchina bellica della borghesia turca?

lorcon

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Iran – esplodono le contraddizioni

Il seguente pezzo è stato pubblicato su Umanità Nova numero 1 anno 98 (immagini via Discard Images)

I moti di piazza in Iran sembrano acquisire sempre più una caratteristica insurrezionale. Le proteste, iniziate nella città di Mashhad contro il carovita e inizialmente spinte dai settori conservatori dell’estabilshment con lo scopo di mettere in difficoltà il governo riformista di Rouhani sono rapidamente diventate una mobilitazione di massa generalizzata contro non solo l’attuale governo ma contro la Repubblica Islamica in generale.

Fonti locali riferiscono della diffusione di slogan contro il clero sciita, contro la Guida Suprema, l’Ayatollah Khameni, e contro le strutture militari espressioni della ierocrazia. Viene riferita anche la presenza di parole d’ordine contro l’interventismo iraniano in Medio Oriente, sopratutto in Siria. Mentre scriviamo diverse fonti riportano di almeno una ventina di morti negli scontri causati dagli interventi repressivi.

Se l’ondata di proteste del 2009 fu concentrata sopratutto nella capitale e fu partecipata sopratutto da giovani, tra cui moltissimi studenti e studentesse universitarie, e fu segnata spiccatamente da questioni di ordine politico l’attuale ondata di mobilitazioni di massa hanno caratteristiche sia politiche, l’opposizione alla stessa forma della stato così come stabilita dalla presa del potere da parte del clero in poi, che economiche: se Rouhani è moderatamente riformista in campo sociale da un punto di vista economico è invece esplicitamente un neoliberale e le politiche messe in atto dal suo governo hanno portato a un ulteriore impoverimento dei ceti popolari. Al contempo non è riuscito a garantire che tiepide e lente riforme in campo sociale, troppo poco per un paese dove la popolazione giovanile è in crescita e tollera sempre meno il soffocante controllo clericale.
Tutta la frazione riformista della classe dominante persiana negli ultimi anni si è spostata sempre più verso le posizioni di Rouhani, cautela estrema nelle riforme sociali e forte propensione per il neoliberismo, e così facendo ha provocato una profonda delusione tra coloro che li avevano appoggiati alle urne, votandoli spesso in un ottica di meno peggio.

Il fatto che le proteste stiano coinvolgendo anche città storicamente fedeli al clero – tra cui la città di Qom, in cui si trova uno dei principali santuari sciiti – dimostra come la disaffezione verso la Repubblica Islamica sia sempre maggiore.

Il mix tra le mancate riforme in campo sociale e la pluriennale compressione dei salari reali ha creato le basi dell’attuale ondata di mobilitazioni. A questo punto eventi come le rivelazioni sulle ruberie da parte delle fondazioni legate al clero – fondazioni che possiedono buona parte dell’industria e della proprietà fondiaria del paese – o l’aumento del prezzo delle uova hanno fatto semplicemente da catalizzatori. Chi ha evocato la mobilitazione di piazza con l’obiettivo di fare le scarpe ai propri avversari politici – come ha fatto la fazione conservatrice della classe dominante persiana – ha evocato uno spettro che ovviamente non è in grado di controllare.

Le timide aperture da parte di alcuni esponenti del governo alle manifestazioni – che andrebbero ascoltate purché si mantengano nell’alveo della legalità – altro non sono state che la giustificazione all’omicidio di stato di una ventina di dimostranti in tutto il paese mentre il gran capo dei boia, il Presidente della Corte Rivoluzionaria di Theran, ha dichiarato che gli arrestati potranno essere accusati di avere “dichiarato guerra a dio”, accusa che prevede la pena di morte e che è sempre stata usata dal governo islamico per eliminare senza troppe spiegazioni, grazie a una definizione di reato estremamente vaga, gli oppositori politici, come avvenne anche a seguito delle proteste del 2009. Nel frattempo il governo aumentato la censura sul web e limitato ulteriormente l’accesso a Internet nel tentativo di rendere più difficoltosa la comunicazione tra i manifestanti e la fuoriuscita di notizie verso l’estero.

In Iran circa dodici milioni di persone vivono al di sotto della soglia di povertà. La particolare forma di assistenzialismo iraniano, basata sulle fondazioni religiose, riesce ad assistere circa la metà di questa massa di diseredati. Nonostante le distribuzioni con prezzi calmierati dei beni di prima necessità attuate da queste fondazioni, che hanno lo scopo di mantenere il controllo delle masse proletarizzate, i salari reali sono stati costantemente erosi negli ultimi anni.

Nel frattempo l’Ayatollah Khamenei, Guida Suprema del paese, e il presidente della Repubblica, Rohani, teoricamente rappresentati di due frazioni avverse, all’unisono accusano le solite potenze straniere di essere dietro alle mobilitazioni. Non abbiamo dubbi sul fatto che anche i nostrani apprendisti stregoni della geopolitica, quelli che, insomma, si eccitano con l’idea di appoggiare certi stati – e certe borghesie nazionali – in nome dell’antimperialismo, si metteranno a ripetere questa canzoncina a pappagallo.

Forse non sono edotti del fatto che l’espansione delle mobilitazioni di massa – sopratutto se con carattere insurrezionale – preoccupano non solo gli alleati diretti di Teheran, come la Russia e la Cina, ma anche la stessa Unione Europea, Italia e Germania in testa, che con l’Iran ha eccellenti, e in espansione, rapporti commerciali.
USA, Israele e Arabia Saudita sicuramente possono guardare con maggiore simpatia a tutto ciò che mette in difficoltà il paese che considerano come principale nemico ma solamente chi ha la testa imbottita dalla propaganda può pensare che le mobilitazioni di massa in Iran siano causate da qualche oscura manovra estera e non il risultato di anni di politiche economiche che hanno attaccato le condizioni di vita delle classi popolari e di una repressione sociale che dura da decenni.

Per altro la classe dominante Saudita vive nel terrore perenne che le contraddizioni interne al paese esplodano definitivamente e se le mobilitazioni di massa in Iran andranno avanti comincerà a temere il famigerato contagio rivoluzionario.

Davanti a questa possibilità le borghesie nazionali sono disposte a mettere da parte le proprie rivalità per concentrarsi, insieme, nell’assoggettamento del proletariato. La storia immediatamente seguente alla sconfitta irakena nella Prima Guerra del Golfo ben lo dimostra: dopo un decennio di guerre ininterrotte, prima con l’Iran e poi con il Kuwait e la NATO, il proletariato irakeno insorse contro i propri massacratori, immediatamente coloro che combattevano Saddam Hussein decisero che era meglio che rimanesse al comando affinché potesse reprimere l’insurrezione.

Una delle cause dello scontento da parte di coloro che in questi giorni combattono per le strade persiane è il costante drenaggio di fondi verso la spesa militare, drenaggio necessario per mantenere ed espandere quella gigantesca macchina da guerra costruita da Theran che ha permesso all’Iran di espandere, o consolidare, la propria influenza in Iraq e Siria.

Sia mai che anche le classi popolari di altri paesi – come l’Arabia Saudita o lo stesso Israele – decidano che si sono stancante di pagare per il mantenimento degli strumenti del proprio stesso asservimento.

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Un altro giro di danza

Danza Macabra – da Le Elevetiche di Hugo Pratt

Il seguente articolo apparirà su Umanità Nova n. 35 anno 97

La campagna elettorale permanente sta accelerando verso il suo apice: la celebrazione del gran ballo in maschera della democrazia. Fissato per la primavera 2018, invitati tutti.

L’ipnotico richiamo delle urne incanta, ancora una volta, la sinistra radicale, che si lancia nell’ennesima ricerca di rappresentanza elettorale finendo per restituire fiducia all’organizzazione sociale specifica della classe dominante: lo stato. Il pifferaio magico e la sua suadente melodia della conquista del potere politico, o per lo meno di una sua fetta, come mezzo per fare avanzare le conquiste sociali incanta ancora una volta certe fazioni politiche e la recente discesa in campo di “Potere al Popolo” non è che la riconferma di questa coazione a ripetere.

Forte di un effettivo radicamento territoriale l’EX OPG Occupato di Napoli si propone come capofila di una lista della sinistra radicale che sappia coinvolgere i soggetti della variegata galassia dei centri sociali post disobbedienti e post autonomi. Un’operazione non troppo differente rispetto a quella avviata dai centri sociali del Nord Est in Emilia Romagna e che ha portato la cricca del TPO e rimasugli di SEL in consiglio comunale a Bologna con Coalizione Civica, ma su scala più ampia. Una proposta viziata da pesantissimi errori di valutazione nelle sue basi e senza effettive gambe su cui camminare e che potrà, al massimo, servire nello stabilire un’egemonia – o nell’affossare quella costruita fino a ora in caso di clamoroso flop – a livello territoriale.

Oltre al progetto di Potere al Popolo abbiamo anche Sinistra Rivoluzionaria, unione del PCL di Ferrando e di Sinistra, Classe e Rivoluzione – l’ex “organizzazione nell’organizzazione” Falce e Martello del PRC dei tempi che furono – che si candida alle politiche.

Abbiamo poi anche l’ultrariciclato Marco Rizzo, da prode bombardiere della Serbia ad apostolo dell’antiamericanismo spacciato per antimperialismo, ma qua siamo oramai nel campo del comico, con il suo PC pronto per le elezioni.

Gli errori di valutazione alla base di queste scelte elettoraliste sono gli stessi di tutti coloro che credono che la partecipazione alla struttura statale possa portare a qualcosa di buono per la nostra classe. Storicamente le speranze riformiste si sono infrante quando le componenti della Seconda Internazionale votarono i crediti di guerra in Germania, Francia e Inghilterra contribuendo a gettare milioni di operai e contadini nel massacro della Prima Guerra Mondiale. Se l’opzione giacobina della conquista manu militari del potere da parte di un’auto-definitasi avanguardia si è dimostrata incapace di risolvere le proprie contraddizioni finendo per evolversi ovunque in una qualche forma di capitalismo di stato l’opzione socialdemocratica e riformista, in veste più o meno radicale, ha parimenti fallito. Ha fallito nelle sue forme storiche segnando l’evoluzione da welfare state a workfare state in Germania e Regno Unito. Definitivamente smantellata da anni negli USA, sotto pesante attacco in Italia e Francia. Regge ancora – per quanto? – in alcuni paesi nordici grazie alle loro peculiarità.

È fallita nelle sue riproposizioni contemporanee in Grecia,con Syriza rientrata nei ranghi e che non gioca nemmeno più all’opposizione delle politiche di austerity, è fallita nella crisi del “Nuovo Bolivarismo”, esperimento socialisteggiante condito con giacobinismo e teologia della liberazione salito al governo in Venezuela e che è finito stritolato dalle fluttuazioni del prezzo del greggio, che è determinato altrove, su cui basava la propria economia, economia per altro costruita a prezzo di un’ulteriore devastazione ambientale, prezzo pagato da molte comunità indigene. È fallita in Turchia dove l’HDP è stato estromesso da un golpe bianco dal governo delle municipalità che aveva democraticamente conquistato. Il “municipalismo” di Barcellona, preso a modello da certe componenti italiane, non è in grado di dare una chiara risposta di classe al conflitto tra lo stato centrale spagnolo e il nazionalismo catalano.

L’altro grande errore di valutazione compiuto da questi gruppi riformisti è l’idea che il processo di concentrazione del capitale – e di correlato depauperamento del proletariato e della così detta classe media – a cui abbiamo assistito in questi anni sia in qualche modo il risultato di un qualche oscuro piano neoliberale e non l’estinzione storicamente determinata del patto sociale di stampo socialdemocratico che aveva retto nei paesi occidentali per decenni: estinzione che è stata determinata dal superamento delle basi materiali che sorreggevano tale patto e dalle modifiche, sempre più profonde, ai meccanismi produttivi che non richiedono più operai/impiegati-massa. La fine delle possibilità di accumulazione tramite esproprio coloniale direttamente per mano degli stati europei e l’avanzamento delle capacità di produzione alla lunga alla fine hanno portato alla crisi delle varie forme di stato sociale, l’apertura al mercato del lavoro globale da parte del capitalismo di stato cinese ha fatto migrare parte consistente del manifatturiero. Le produzioni che vengono reinternalizzate adesso in occidente assorbono meno forza lavoro in quanto maggiormente automatizzate e permettono l’abbattimento dei costi dati dalla logistica.

L’espulsione dal mercato del lavoro – o la condanna a lavori saltuari informali o istituzionalizzati che siano – ora investe anche quella che un tempo sarebbe stata classe media: lavoratori impiegatizi, liberi professionisti, creativi. Il mondo si polarizza sempre più tra chi possiede i mezzi di produzione e chi non li possiede. È ovvio che il gioco non potrà durare in eterno: una popolazione di disoccupati o sottoccupati cronici non può assorbire la quantità di merci prodotta a ritmi sempre maggiori, la crisi sistemica diventa possibilità immediata.

A fronte di queste profonde modifiche appare evidente come portare indietro le lancette della storia, in modo democratico o meno, sia impossibile.

Tentare di partecipare al potere statale oltre che legittimare l’organizzazione di classe specifica della borghesia significa investire energie nel tentare di fare rimanere sul palco della storia chi ha esaurito le battute a disposizione.

Ma proseguiamo con la nostra carrellata sul ballo in maschera che si appronta. La “cosa” che si muove alla sinistra del PD ha accusato di leaderismo Renzi e poi ha scelto per acclamazione come proprio leader un magistrato, l’attuale presidente del senato Grasso. A questo punto ci tenevamo il centralismo democratico che almeno si discuteva, o almeno si faceva finta, per decidere chi sarebbe stato il leader. Ma tanto è. Pisapia & C. sembrano finalmente essersi decisi nell’abbandonare l’ipotesi di alleanza con il PD ma ancora non si sa cosa faranno sul serio.

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Su PD, Lega, M5S, FDI, Alfaniani e quanto altro non pensiamo che sia necessario spendere ulteriori parole. Forse giusto un paio di battute sul M5S: quando pochi anni fa affermavamo che i 5 stelle servivano a recuperare alla classe dominante il controllo di quelle confuse istanze di rottura emerse agli albori della crisi economica e sociale c’era chi ci rispondeva con l’opportunità del voto tattico per il partito di Grillo e simili castronerie. Ora i 5 stelle hanno finalmente dimostrato di essere quello che già denunciavamo allora: una banda di banderuole.

Nel frattempo il Partito Democratico, lo stesso partito che con il suo ministro dell’Interno, che alcuni vedrebbero bene come futuro premier, ha sancito la possibilità di lasciare affogare i profughi in mare, purché si possa scaricare la responsabilità sulla Guardia Costiera altrui, e, meglio ancora, lasciarli ammazzare da bande di criminali in Libia, si mette a strillare sul pericolo del ritorno del fascismo e del razzismo a causa di quattro pagliacci fomentati dallo stesso governo. E allora via con il richiamo all’unità antifascista e altre storielle infantili. Come se i fascisti fossero un fenomeno dovuto a un qualche marciume morale e non fossero i vili scherani al servizio del padronato – i lavoratori dei magazzini SDA aggrediti da squadracce fasciste durante la vertenza di ottobre-novembre avrebbero qualcosa da insegnare alle anime belle dell’antifascismo morale a tal proposito – e come se i partiti liberali non avessero attuato, in nome della realpolitik o di qualche altro fantasma mentale – o più semplicemente in nome delle rispettive borghesie di riferimento – le stesse politiche di omicidio di massa invocate dai fascismi.

D’altra parte storicamente i campioni liberali dell’antifascismo, i Churchill o i De Gaulle, si sono sistematicamente dedicati allo sterminio e all’accumulazione mediante esproprio nelle colonie al pari del Reich con il suo Generalplan Ost o degli infami atti criminali compiuti dal Regno d’Italia in Africa Orientale – compiuti non a caso sia durante la monarchia liberale che durante la monarchia fascista.

I pagliacci neofascisti reggono ancora una volta il bordone a chi sta al governo agendo da parafulmine e specchietto per allodole. Probabilmente li lasceranno giocare un pochino ai nazional rivoluzionari per poi dargli quattro scappellotti quando passeranno il segno. La vicenda di Alba Dorata in Grecia insegna: prima pompati su tutti i media e poi pubblicamente castigati dalle procure elleniche.

Intanto si grida all’aggressione squadrista per quattro babbei con tre fumogeni sotto le finestre del direttore de La Repubblica quando per anni abbiamo visto aggressioni squadriste, e omicidi, a danni di attivisti e militanti politici, di lavoratori in sciopero, di immigrati individuati come nemici allogeni derubricate a “risse tra estremisti” “scontri tra ultras” o semplicemente ignorate.

Come se il Partito Democratico non avesse ampiamente legittimato Casa Pound come ben mostrato dal dossier sui rapporti tra il partito renziano e l’ultradestra composto dai Wu Ming e Bourbaki e liberamente consultabile online: https://www.wumingfoundation.com/giap/2016/06/casapound-rapporti-con-lestrema-destra-nel-ventre-del-partito-renziano/

Non ci stupiremmo, infine, di vedere varare nuove misure repressive – o legittimare quelle già esistenti ma scarsamente applicate, come la sorveglianza speciale – con la scusa della necessità di combattere qualche banda di babbioni che fanno il saluto romano per poi applicarle nei confronti dei movimenti sociali che provano a contrastare le dinamiche sempre più stritolanti del capitalismo.

I partecipanti al grande ballo in maschera prendono posizione. Noi sappiamo già quale è la nostra: dalla parte della nostra classe.

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Breve discorso sul reddito

Il seguente articolo, pubblicato su Umanità Nova n. 31 anno 97, è stato scritto congiuntamente da me e dal compagno JR ed è il frutto di una lunga riflessione a due sul tema del reddito.

Introduzione

Del reddito o dell’incompatibilità di sistema

Il discorso è incentrato sull’analisi di alcuni aspetti contraddittori legati alla ricerca di percorsi emancipativi che il “movimento” sta tentando di mettere in pratica negli ultimi due lustri.

L’analisi viene portata avanti partendo da alcuni concetti di base, quali la redditualità diretta, la redditualità indiretta ed il mutualismo; associati a questi si pone l’obbligo di ridefinire talune strategie e recuperare alcuni particolari significati. Nello specifico, prima di affrontare i concetti di base, è utile un ragionamento per inquadrare il problema dal punto di vista storico e sociale: si farà quindi riferimento ad un processo necessario, che qui viene definito di “identificazione”, ossia il processo di percezione del proprio ruolo all’interno di un contesto storico, economico, sociale e politico – processo a priori, rispetto alla ricostruzione del concetto, oramai svuotato di senso, di identità di classe. Il secondo significato oggetto dell’analisi è quello dell’incompatibilità col sistema, la quale si esplica come elemento essenziale per innescare una rottura sostanziale – quindi strutturale – con il sistema. L’incompatibilità è la prima importante fase da concepire, senza la quale si intraprendono percorsi che si ammantano di velleità antagoniste o di conflittualità col sistema ma che, nella sostanza, cercano di scavare nicchie comode all’interno dello stesso: nella fattispecie nicchie di mercato.

È chiaro che ci si muove nell’ambito di una critica radicale condotta con gli strumenti della decostruzione delle narrazioni ufficiali – la mercificazione totale ed il mercato come unico orizzonte di senso possibile – e delle contronarrazioni “antagoniste”, ossia la ricerca di forme alternative per l’ottenimento di reddito apparentemente fuori dalla logica mercatale.

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Medioriente – L’elefante nella stanza

Questo articolo apparirà su Umanità Nova numero 31 anno 97

Nelle ultime due settimane sono occorsi, in Medioriente, almeno tre eventi di grande importanza che sono stati quasi completamente ignorati dai mezzi di informazione mainstream.

Innanzi tutto in Arabia Saudita vi è stato quello che possiamo definire tranquillamente come un colpo di stato. Il principe reggente Mohammed bin Salman, figlio del re Salman, ha imbastito un’operazione che, in nome della lotta alla corruzione, ha portato all’arresto di undici dirigenti d’alto livello di imprese, ministri e principi. Inoltre sono stati dimissionati il Miteb bin Abdullah, capo della Guardia Nazionale, la struttura militare parallela all’esercito di cui è dotato il Regno, e figlio del precedente Re – quindi cugino di Mohammed dato che l’Arabia Saudita ha avuto fino ad ora un peculiare sistema di successione su linea fraterna e non filiale – e possibile contendente al trono, e del capo della Marina Militare, Abdullah bin Sultan. In questo modo Mohammed bin Salman ha concentrato su di sé tutto il potere militare: è già ministro della difesa, ora ha avocato anche il comando della Guardia Nazionale ed ha estromesso del tutto la famiglia del vecchio re. Tra gli altri arrestati si annoverano anche Alwaleed bin Talal, finanziere che ha partecipazioni anche in grosse imprese occidentali, sopratutto nel campo dei media (News Corporation e Twitter) e della tecnologia (Apple).

Il regno saudita ha una struttura di potere caratterizzata da una famiglia reale di dimensioni esorbitanti – oltre cinquemila membri – che ricalca la struttura tribale esistente prima della nascita dello stato moderno e questa peculiarità ha portato alla creazione di un complesso sistema di bilanciamento tra poteri e camere di compensazione che garantissero una rappresentanza a tutti i membri del’élite al potere con il re nel ruolo di primus inter pari. Il regno, che possiamo definire tranquillamente come una delle strutture statali più autoritarie al mondo, è guidato quindi non tanto in modo autocratico da un singolo ma da una formula di concertazione tra le diverse componenti della classe dominante. In un articolo apparso su formiche.net ed in un altro pezzo apparso online su l’Internazionale si ipotizza che la mossa di Mohammed bin Salman sia legata sopratutto a uno scontro interno alla classe dirigente saudita tra chi, gli arrestati e i loro clientes, sono legati al vecchio modello ed il Principe e la sua cordata che invece vogliono rilanciare in senso dinamico l’economia Saudita con anche aperture in senso riformista che aiutino anche l’immagine del paese. Come si faceva notare nell’articolo apparso su formiche.net in questo periodo l’Arabia Saudita ha deciso di vendere sul mercato azionario delle quote di Saudi Aramco, l’azienda petrolifera di stato, per liberalizzare l’economia ed incamerare dei fondi per lanciare i propri progetti mastodontici, che prevedono la creazione di gigantesche smart city da costruire ex novo. Proprio in questi giorni, per altro, sono in corso le trattative per scegliere la piazza finanziaria su cui condurre un’operazione da centinaia di miliardi di USD. Se venisse scelta Wall Street questo potrebbe significare un rilancio della partenership tra USA e Arabia Saudita: non più basata sull’acquisto da parte statunitense del greggio saudita ma su robuste transazioni finanziarie.

La mossa del principe reggente, tesa a concentrare in modo rapido il potere nelle proprie mani, è un fatto pregno di conseguenze a livello internazionale. Il principe che viene definito dai media occidentali come “progressista” – forse avendo in mente il “medioprogressismo” di un noto Megadirettore – sta spingendo per un’accelerazione del processo di disgregazione dell’ordine mediorientale per affermare l’egemonia saudita sull’intera regione e non solo sul Golfo.

Negli ultimi dieci anni l’Arabia Saudita è stata assorbita nel tentativo di contenere l’espansione della sfera egemonica iraniana, ma fino ad ora non le è andata troppo bene. In Iraq l’influenza di Tehran è più forte che mai, con l’assenso statunitense. Gli USA, storici alleati della dinastia dei Saud, hanno firmato l’accordo sul nucleare con Tehran e i sauditi, insieme agli israeliani, han fatto di tutto per farlo saltare.

Durante le elezioni presidenziali americane hanno puntato su Hillary Clinton, veementemente antirussa, artefice dell’interventismo in Siraq e finanziata dai petroldollari del Golfo, ma questa non avrebbe potuto sconfessare apertamente quello che viene presentato come il capolavoro diplomatico dell’amministrazione Obama, amministrazione della quale ha fatto parte come Segretario di Stato.

Hanno poi sperato in Trump, che l’accordo con gli Ayatollah ha sempre contrastato, ma questi in un anno non è andato oltre alle roboanti dichiarazioni. Per di più ha un ambiguo rapporto con la Russia: se l’accordo USA-Russia è strategicamente impossibile sul lungo termine – troppi i contrasti a livello globale – l’amministrazione Trump sembra più che volenterosa di volere proseguire con gli accordi sulla Siria fatti fino a ora con Mosca, accordi che accettano di fatto il ruolo di Hezbollah e dei clientes iraniani in tutto il Siraq e che passano anche dall’accordo sul nucleare iraniano.

Il tentativo saudita di riportare alla subordinazione il Qatar, petromonarchia del Golfo sì, ma con una forte politica autonomista che sigla accordi bilaterali con gli Iraniani e gioca una politica tutta sua tramite la Fratellanza Musulmana, non ha sortito risultati.

L’intervento in Yemen, il vicino meridionale e negletto dei Saud, si è impantanato nonostante gli sforzi militari in una guerriglia lungo i confini del Regno e una crisi umanitaria catastrofica.

Nemmeno il tentativo di guerra economica alla Russia mediante l’artificioso ribasso del prezzo del greggio è andato a buon fine, l’economia russa è riuscita a contenerlo pur con qualche dissesto, dimostrando una resilienza che molti osservatori non si aspettavano. Nel mentre la cosa ha causato non pochi malumori anche negli altri paesi produttori di greggio, sopratutto negli USA che dell’autonomia nella produzione energetica hanno fatto uno scopo strategico e che da un troppo basso prezzo del petrolio sono colpiti.

In Siria Assad è riuscito, con le risorse proprie e il fondamentale appoggio iraniano e russo, a rimanere al potere nonostante cinque lunghi anni di guerra civile.

I due fronti in cui i Saud possono vantare una significativa vittoria sono quello in Egitto e quello in Bahrain: l’esercito egiziano è riuscito a riprendere in toto il controllo del paese dopo avere estromesso Morsi. Le spese del tutto l’han fatta, ovviamente, i proletari egiziani, forza trainante della rivoluzione che depose Mubarak ma subito repressi sia dalla Fratellanza Musulmana di Morsi che dal ritorno dell’esercito al potere.

Ma non ci si può certo illudere che l’Egitto, potenza regionale pari all’Arabia Saudita e paese pienamente inserito nella struttura di potere globale, sia un burattino nelle mani di Riad. Il regime egiziano si considera, ed è, un alleato alla pari e la cricca dei generali che governa il paese pur ringraziando i Saud per averli aiutati nel momento del bisogno ha la sua piena autonomia e le proprie prospettive strategiche peculiari.

In Bahrain la rivolta della popolazione sciita, subordinata a una dinastia sunnita ed esclusa dall’accesso a livelli reddituali decenti è stata schiacciata con violenza anche con il diretto intervento di Riad. La partita vera per il governo saudita si gioca nel ripristinare il pieno controllo sullo Yemen e ricondurre a una posizione subordinata il Qatar. Per fare questo però è necessario attaccare di petto Tehran – e il modo che pare essere stato trovato dal principe reggente è quello di aprire una crisi in Libano.

Il secondo fatto, di portata enorme, di cui si è taciuto sulla stampa in questi giorni è infatti che il primo ministro libanese, Hariri, sunnita ma a capo di un governo di unità nazionale che include anche Hezoballah, si è recato in Arabia Saudita per annunciare con un comunicato le proprie dimissioni dal ruolo di primo ministro e poi scomparire. Al momento in cui scrivo solo dopo una settimana l’ex primo ministro libanese ha fatto una dichiarazione pubblica in cui ha affermato che gode di “completa libertà in Arabia Saudita”, che le dimissioni sono giustificate dagli sviluppi della situazione regionale e che tornerà in Libano quanto prima per presentare le dimissioni “seguendo il percorso costituzionale” (lancio ANSA delle 22.20 del 1/11/017).

Anche chi si fa grasse risate davanti al concetto di “diritto internazionale” rimane piuttosto basito da un evento di tale portata: il primo ministro di uno stato sovrano si dimette – obtorto collo? – mentre si trova in visita in un paese estero dalle mire egemoniche e poi scompare. In tutto questo non si genera nessuno scandalo internazionale, l’ONU tace e tutti fanno pubblicamente finta di nulla di fronte all’elefante nella stanza. Penso che una migliore dimostrazione di quanto il concetto di “sovranità nazionale” altro non sia che un fantasma mentale davanti alla materialità dei rapporti di forza e della ferrea logica della politica di potenza non si possa trovare.

Mentre accadeva tutto questo Riad non ha trovato di meglio, e siamo al terzo evento grandemente taciuto, che tentare pubblicamente di creare una coalizione contro Hezbollah. Tentativo che si è scontrato con diversi ostacoli che paiono insormontabili: intanto Israele al momento non sembra interessato a intervenire in modo pesante in Libano ed è ben contento che le truppe di Hezbollah se ne stiano ben impegnate a supportare Assad lontano dai propri confini. Certo, ogni tanto bombarda qualche convoglio del movimento sciita o ne ammazza un qualche dirigente, per altro con il placet russo, quando questi paiono trasportare armamenti pesanti verso i confini israeliani. Inoltre qualsiasi tentativo di intervenire sul campo nel Libano meridionale porterebbe a uno scontro diplomatico con mezzo mondo: la missione delle Nazioni Unite UNFIL, che vede per altro la presenza di un contingente di un migliaio di truppe italiane – e di quasi milletrecento truppe indonesiane, ovvero di uno dei paesi musulmani sunniti più grandi al mondo – si ritroverebbe tra l’incudine e il martello e vi sarebbero immediate pressioni da parte di tutti i partecipanti alla missione ONU per porre fine al conflitto.

Per altro in questo periodo non è che l’Arabia Saudita goda di altissimo credito presso le cancellerie europee, considerando che i vari attentatori che hanno agito sul suolo europeo negli ultimi anni si erano per lo più radicalizzati in moschee e ambienti religiosi direttamente legate a Riad. Per non parlare, poi, degli irrisolti nodi nei Balcani che vedono un sempre maggiore interventismo sia saudita sia turco nel finanziare centri religiosi per espandere la propria influenza in una regione in cui altri stati europei hanno da sempre interessi strategici, Germania in primis.

Gli stati europei non avrebbero niente da guadagnare da un’aumentata tensione con l’Iran, anzi, ne avrebbero solo da perdere considerando che il ritiro delle sanzioni internazionali contro Tehran ha significato la riapertura di un mercato estremamente remunerativo per l’industria e per la finanza europea. I cinesi certamente si opporrebbero e la stessa cosa farebbero i russi.

Gli Stati Uniti potrebbero appoggiare un intervento contro Hezobollah ma non è detto che siano desiderosi di aprire l’ennesimo fronte in medioriente, sopratutto considerando che la prospettiva strategica americana degli ultimi anni è stata quella del disimpegno dal Medioriente per concentrarsi sul teatro del Pacifico. Molto probabilmente l’impegno statunitense si ridurrebbe al fornire intelligence e supporto diplomatico. Il placet israeliano a un’operazione simile è necessario ma al momento non è affatto scontato. Idem per quanto riguarda la Giordania.

Proviamo a tirare le somme della questione: appare evidente come il ruolo dell’ISIS in questi anni è stato quello di stato – in fieri ma pur sempre stato – cuscinetto tra le frizioni interimperialistiche. Ha attirato per tre anni su di se le attenzioni e gli sforzi bellici di diversi attori, normalmente in contrasto tra di loro, ma le sconfitte militari su più fronti hanno lo hanno usurato. Così come un cuscinetto a sfera usurato perde la capacità di svolgere le proprie funzioni, l’ISIS con i territori ridotti e la rete di accordi tribali in Siraq destrutturata non riesce a svolgere più il proprio ruolo. La Turchia di Erdogan si è trovata bloccata nel suo tentativo di proiezione a Sud a causa della sconfitta sul campo da parte della Confederazione a guida PYD in Rojava del proprio proxy – l’ISIS stessa – e ha dovuto rinunciare anche a defenestrate Assad. Se la classe dirigente dell’AKP ha imparato la lezione proverà a giocare non più la carta di un aggressivo disegno neo ottomano ma quella del divenire punto di equilibrio tra l’Arabia Saudita e l’Iran.

L’Arabia Saudita è riuscita a contenere il tentativo qatarino di assumere la guida del sunnismo politico mediante la Fratellanza Musulmana – tentativo agito, per altro, in concerto con la Turchia anche mediante l’ISIS stessa e tramite la propria rete jihadista – ma non è riuscita certamente a piegare il Qatar come avrebbe voluto, anzi, si è ridicolizzata nel provarci palesemente e nel fallirci altrettanto palesemente. Il confine meridionale dell’Arabia Saudita è un fronte di guerra e le milizie sciite yemenite sono riuscite a lanciare un missile, molto probabilmente gentilmente fornito dall’Iran, che ha colpito i dintorni di Riad stessa.

La mossa del principe reggente tesa ad accentrare su di sé il controllo del regno è probabilmente figlia della biforcazione sistemica che si profila nel sempre più vicino orizzonte: accettare una qualche forma di accordo con il rivale persiano e rideterminare l’assetto egemonico della regione in modo pacifico o andare allo scontro frontale e alla guerra sul campo. La classe dirigente saudita è in lotta al suo interno e bisogna vedere se il tentativo del principe riuscirà ad andare fino a fondo o se verrà rintuzzato nel prossimo periodo e che significato avrà questo a livello internazionale.

Questo articolo è stato scritto domenica 12 novembre e data l’accelerazione degli eventi non mi stupirei che quando esso giungerà a distributori e abbonati possa essere stato superato da nuovi fatti.

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La Social Misantropia

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Il seguente articolo originariamente doveva apparire sul numero 29 di Umanità Nova. In fase di composizione ci siamo poi resi conti che avevamo esaurito lo spazio per cui comparirà sul numero 30 (datato 5 novembre 2017). Intanto lo metto qua.

Qualche nota sulla sinistra liberale e le cronache d’oltreoceano

Dopo l’attacco di Las Vegas del primo ottobre i media statunitensi ed europei sono tornati a parlare della questione del possesso privato di armi da fuoco negli Stati Uniti d’America producendosi nella solita solfa di luoghi comuni, imprecisioni, traduzioni fatte con l’antico metodo del “ad mentula canis” – esempio sopra tutti: una giornalista di Sky TG24 che, mentre parla con dovizia di dettagli e aria esperta della legislazione del Nevada sulle armi da fuoco, traduce ripetutamente il termine “magazines”, ovvero “caricatori”, in “magazzini per munizioni” – e dati sballati.

L’argomento l’avevamo già trattato in discreta profondità tra il 2015 e il 2016 con i due articoli “La propaganda alla prova dei fatti”, apparsi online e in cartaceo sul numero 31 anno 95 e sul numero 1 anno 36,[1] che invito a rileggere per le considerazioni generali e i dati. I dati statistici negli ultimi due anni non sono affatto cambiati, infatti: tenendo sempre per buoni i famosi 30.000, equivalenti allo 0.000000925% della popolazione totale, morti per armi da fuoco all’anno come dato di massima nel 2016 abbiamo avuto la seguente composizione:
1. il 65 % di questi sono stati suicidi
2. 15% sono stati morti causati da agenti di polizia (di qualsiasi livello) in servizio (legalmente parlando non sono crimini ma va necessariamente aperta una questione sul perché la polizia statunitense ammazza così tanto, invito a leggere a tal proposito gli articoli segnalati in nota [2])
3. 17% omicidi volontari in vari contesti e con armi ottenute dalle più svariate fonti (per quanto riguarda gli omicidi nell’ambiente della criminalità quasi esclusivamente da fonti illegali)
4. 3% morti accidentali

Il 17% equivale a 5100 morti sul territorio federale e il 25% di questi omicidi è concentrato in quattro città: Chicago (9,4% con 480 omicidi), Baltimora (6,7 con 344 omicidi), Detroit (6,5 con 333 omicidi) e Washington D.C (2,3 % 119 omicidi). Tutte e quattro queste città si trovano in stati con delle leggi sul controllo delle armi piuttosto restrittive (Washington per altro non appartiene a nessuno stato, è distretto federale). Baltimora, Detroit e Chicago sono città con un tessuto sociale che è stato letteralmente devastato negli ultimi 30 anni, tra delocalizzazioni e epidemie di consumo di stupefacenti (con annessi conflitti tra gang che le armi non se procurano da fonti legali). Le fonti dei dati di questo aggiornamento sono sempre le statistiche del CDC e di altri enti, privati e pubblici, e possono essere trovate nelle note dell’articolo già citato “La propaganda alla prova dei fatti”.
Ora, il numero di morti per omicidi commessi con armi da fuoco negli USA è più alto rispetto ad altri paesi occidentali. Siccome però è noto che la correlazione statistica non equivale alla catena causale inviterei alle seguenti considerazioni: il numero di omicidi volontari negli USA, nonostante il numero di armi da fuoco in circolazione sia aumentato di molto, è grandemente calato negli ultimi decenni, così come in tutto il mondo occidentale, a causa di una serie complessa di fenomeni che non hanno ancora una spiegazione precisa in termini sociologici – si pensi al dibattito intorno al Global Study on Homicide (per i dati e la disanima degli stessi rimando ancora alla parte prima de “La propaganda alla prova dei fatti”). Le città del paese dove vi sono più morti per omicidi con armi da fuoco sono le stesse che hanno subito un pesante e pluridecennale processo di pauperizzazione. Questo ci dovrebbe portare a riflettere sul fatto che la maggiore incidenza di omicidi negli USA rispetto ad altri paesi occidentali non sia da ricercare nella diffusione delle armi da fuoco ma nelle dinamiche economiche maggiormente accentuate e nel pesante divario sociale. Concentrarsi sul mezzo con cui viene commesso un omicidio, per altro interpretando malissimo i dati stessi, e non sulle motivazioni sociali dell’atto non solo è fuorviante ma significa anche non fare nulla per eliminare le cause.

A proposito di epidemie di consumo di stupefacenti, citate poco sopra, il New York Times riporta[3] che nel 2016 ci sarebbero state più di 59.000 morti dovute a overdose di stupefacenti, legate alla nuova ondata nella diffusione di oppiacei – fentanyl, oxycodone che hanno largamente sostituito l’eroina in una dinamica che è tutta da analizzare – con un aumento del 19% rispetto al 2015. A queste va aggiunto il numero di morti dovute alle conseguenze a lungo periodo del consumo di oppiacei – problemi epatici, AIDS, infezioni, problemi circolatori, incidenti – in un paese dove l’accesso alla sanità è legato alle disponibilità finanziarie e dove il problema delle dipendenze è stato sempre affrontato con un rigoroso proibizionismo, se si fa eccezione per il THC in alcuni stati e negli ultimi anni.
D’altra parte l’ondata di proibizionismo moderno si origina nella necessità di continuare a disciplinare la massa di proletariato depauperato e storicamente razzializzato.[4] Si muore dodici volte di più per la nuova epidemia di oppiacei che per le famigerate armi da fuoco, anche considerando picchi statistici come i grandi mass shooting. Si muore per le logiche del nostro modo di produzione dato che l’epidemia di consumo d’oppiacei ha colpito zone il cui tessuto sociale è stato devastato negli ultimi decenni tra delocalizzazioni all’estero ed all’interno – le migrazioni di industrie dal Midwest alla zona sud dell’Appalachia, meno sindacalizzata ed industrializzata – e sopratutto zone dove il basso reddito fa si che una grande massa sia priva di una copertura sanitaria pubblica e di conseguenza più facile preda delle rapaci mani dell’industria farmaceutica. Caratteristica della nuova epidemia di oppiacei è, infatti, l’essere basata su sostanze legali e prescritte con allegria da medici compiacenti, in seguito a forti campagne promozionali da parte di alcune grosse industrie farmaceutiche, per trattare dolori cronicizzati da mancati interventi risolutivi, inaccessibili a causa della mancanza di copertura medica. È il regno della merce.

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Ci si potrebbe rispondere che questo panegirico sul consumo di oppiacei è frutto di una volontà di benaltrismo rispetto alla questione delle armi da fuoco. Il problema però è esattamente l’inverso: le componenti politiche che si stracciano le vesti chiedendo maggiore controllo sulla circolazione di armi sono le stesse che sono corresponsabili della devastazione sociale. La sinistra liberale avendo fallito nella sua strategia riformista, da decenni e non da ieri, per portare migliori condizioni di vita alla classe lavoratrice ed essendo diventata parimenti responsabile della devastazione della vita di centinaia di milioni di proletari – noi abbiamo memoria lunga e ben ci ricordiamo delle politiche dell’amministrazione Clinton, compresa l’orripilante legge sui tre strikes che grandemente ha contribuito all’incarcerazione di massa – si trova a essere la frazione sinistra del capitale.
In questo, e facciamo finta di credere alla buona fede di certi soggetti politici, finisce per individuare problemi sbagliati o secondari, amplificarli e proponendo soluzioni che passano da un maggiore controllo sociale, cullando l’illusione di poter cambiare qualcosa rispetto alle ferree logiche del capitale una volta giunta al potere. Che una volta giunti al potere si finisca per agire in armonia con quelle stesse logiche dovrebbe essere dato assodato. Questo vale sia per quelle componenti che hanno la loro origini nel socialismo riformista – il Labour in UK – che in quelle più propriamente liberali di sinistra – il Democratic Party negli USA. In termini differenti, banalmente per la questione della buonafede, questo vale anche per quelle componenti di sinistra-sinistra istituzionale, presenti in Europa ma quasi assenti negli USA.

Avendo fallito nei propri fini dichiarati queste componenti finiscono per farsi rappresentanti elettorali di frazioni dominate di classe dominante e di pezzi della piccola borghesia e di lavoratori dei servizi pubblici, sopratutto legati al mondo della cultura e dei servizi alla persona, le componenti della cosìddetta società civile. Avendo fallito ed essendosi convinte che il problema è rappresentato dal fatto che l’uomo sarebbe ontologicamente cattivo e non un prodotto storico passano dalla social-democrazia alla social-misantropia: allora via con tiritere sulla necessità di più stato, più leggi, più controlli, più polizia – possibilmente direttamente introiettata negli individui – lamentele su quanto fanno schifo i poveri, che sono così maleducati, e altre amenità. Il problema non sarebbero allora le strutture sociali ma gli individui che sarebbero naturalmente pervertiti –  contraddizione in termini, tra l’altro – e su cui è necessario operare una raffinata opera di disciplinamento.
L’analisi dei fattori materiali scompare completamente per lasciare spazio ad un moralismo ipocrita e perbenista: pensiamo a personaggi come Michele Serra ed alla corte dei miracoli giornalistici che vive in certe redazioni cartacee e televisive. Costoro sono l’altra faccia della medaglia rispetto ai vari fenomeni sovranisti e populisti che ammorbano questa decade. Mentre questi ultimi si concentrano sulla difesa di una sifilitica tradizione occidentale reinventata in chiave ultramoderna e pienamente capitalista (checché ne dicano certi bambocci dallo sguardo ceruleo che si fregiano del titolo di filosofo), la componente sinistra del capitale si concentra su un’espansione di facciata dei “diritti civili” mentre mantengono perfettamente intatte le fondamenta del mondo in cui viviamo. Così facendo provano a cooptare quei movimenti di massa che si muovono, e che contrariamente alla sinistra liberale sono radicali ed intersezionali o per lo meno si muovono in quella direzione, allo scopo di rinvigorirsi, ovvero per rinvigorire la capacità di tenuta del sistema per intero. È il perenne tentativo di ricaptare e normalizzare tutto ciò che accenna a uscire dalla gabbia delle compatibilità, un gioco al recupero che ha caratterizzato sia la sinistra liberale sia i derivati della socialdemocrazia.

Il fatto che il nuovo movimento femminista americano, quello che ha in buona parte animato le proteste del gennaio scorso contro Trump,[5] così come BLM ed i movimenti ecologisti non si siano fatti minimamente abbindolare da un personaggio come Hillary Clinton, campionessa mondiale della visione liberal sinistra del capitale, preferendo invece lavorare su una prospettiva intersezionale e di classe, all’interno della cornice dello sciopero generale del 20 gennaio 2017, mostra quanto abbia il fiato corto la social-misantropia e il suo triste corollario: ciò che è superato marcisce; ciò che marcisce invita al superamento.

lorcon

[1] http://www.umanitanova.org/2015/10/20/la-propaganda-alla-prova-dei-fatti/ e http://www.umanitanova.org/2016/01/13/la-propaganda-alla-prova-dei-fatti-2/ reperibili anche su photostream.noblogs.org
[2] Per tentatare di capire dimensioni e motivazioni del fenomeno: https://photostream.noblogs.org/2013/10/geneaologia-della-violenza-poliziesca/ , qui https://photostream.noblogs.org/2016/07/black-lives-matters/ e qui https://photostream.noblogs.org/2016/07/la-stretta-autoritaria-negli-usa/
[3]  https://www.nytimes.com/interactive/2017/06/05/upshot/opioid-epidemic-drug-overdose-deaths-are-rising-faster-than-ever.html
[4] http://www.umanitanova.org/2017/03/26/fascismo-o-identita-bianca-1-parte/
[5] http://www.umanitanova.org/2017/01/23/disruptj20/

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Una risposta a Stefano Boni

Accadde che qualche mese fa mi spaparanzai in poltrona per leggermi A e, giunto alla posta, mi trovassi di fronte a una lettera di Stefano Boni, un professore dell’UNIMORE che si è autodefinito anarchico, confondendo l’anarchismo, classista, razionalista e rivoluzionario, con qualche filosofia in grado di dare un senso ai problemi della borghesia intellettuale e di Angela Leone. In questo scritto il Boni si lamentava di un mio articolo di tre anni fa  sui vaccini, lo stesso articolo che aveva già fatto incazzare certi personaggi che hanno scambiato la critica radicale alla società per la critica del saccarosio. Di seguito la i risposta alla missiva boniana che è stateapubblicate sul numero 419 di A (che ringrazio).

“Queste poche righe vogliono essere risposta alla lettera di Stefano Boni e Angela Leone, pubblicata sul numero 417. Boni cita a sproposito un mio articolo apparso su Umanità Nova a marzo 2014.
Il mio articolo dell’epoca, che rivendico in toto, altro non è che l’introduzione da me scritta per l’opuscolo “Antivaccinari – Un’introduzione storica e attuale di un’idea antiscientifica”, curato da GreenNotGreed e costituito dalla traduzione di una serie di analisi critiche di Patrick Caine, Amanda Marcotte, David Shihi e Andrew Potter sul movimento antivaccinista, nello specifico di quello attivo sul suolo statunitense.
Il fatto era opportunamente segnalato nell’edizione cartacea di Umanità Nova del 5 marzo 2014 e altrettanto nell’edizione web. Essendo le introduzioni per definizione dei prolegomeni e non dei testi sviluppati in profondità chi volesse scoprirne le argomentazioni non ha che da scaricarsi l’opuscolo e leggerselo, si trova online ed è stato aggiornato a poco più di un anno fa.
Le mie posizioni, così come quelle di molti altri compagni e compagne, vengono tout-court appiattite dagli autori della lettera a quelle delle multinazionali del farmaco, le quali notoriamente chiudono i loro comunicati-stampa affermando la necessità della rivoluzione sociale e dell’accesso universale e gratuito alle forme più avanzate di sanità, come invece scrissi io nel mio pezzo.

Le argomentazioni che la lettera di Boni e Leone portano nella loro lettera per provare a dare un supporto logico alla loro tesi, quella della pericolosità e inutilità dei vaccini, sono fallaci e partono da assunti di base non dimostrati. Invito chi fosse interessato a darsi una minima base tecnico-scientifica sull’argomento a leggersi i due articoli Vis Medicatrix Naturae di Ennio Carbone, che è un immunologo oltre che un compagno, pubblicati su Umanità Nova, il primo insieme al mio articolo, e facilmente reperibili sul sito del giornale[1].

Al Boni lascio volentieri l’onore di impostare l’analisi del mondo sulle basi della critica ai vaccini e della scienza eliminando completamente il dato di classe. Io, da anarchico e da proletario, preferisco concentrarmi nella costruzione di organizzazioni sociali autogestiste che permettano di fare scelte razionali coinvolgendo strutturalmente chi è detentore di un sapere tecnico e quindi di socializzare questo sapere, per strappare l’uso di questo sapere dalle mani del nemico di classe, il quale, al contrario di quanto sostengono coloro che si sono creati il moloc della tecnoscienza, lungi dall’esaltare il metodo scientifico degrada questo a pura ragione strumentale. A ciascuno il suo, purché ci si assuma le proprie responsabilità fino in fondo.

[1] http://www.umanitanova.org/tag/vaccini/ segnalo inoltre anche il mio pezzo “Tra l’incudine delle pseudoscienze e il martello del mercato – Mai la merce curerà l’uomo (e figuriamoci se lo farà lo stato)”, uscitos ul numero 21 anno 97 dell’undici giugno 2017 che riprende ampiamente questi temi alla luce del decreto Lorenzin: http://www.umanitanova.org/2017/06/11/mai-la-merce-curera-luomo-e-figuriamoci-se-lo-fara-lo-stato/ e l’intervento di Ennio Carbone ai microfoni di Radio Blackout: http://radioblackout.org/2017/06/vaccini-complotti-salute-soldi/”

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Urbex O.M. Reggiane / 2

Qualche mese fa

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Torrido Piano Padano

Agosto 2017, località lacustre della Bassa Reggiana (maggiori info? anche no!)

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