Dal basso e non solo

il seguente articolo è apparso sul numero 37 anno 94 di Umanità Nova

Sulle autoproduzioni e i loro limiti

Dal basso e non solo

Il movimento anarchico negli ultimi venti anni ha particolarmente preso a cuore la questione delle autoproduzioni e della creazione di “economie dal basso” ma è oramai evidente che questo approccio ha vistosi limiti. Innanzi tutto ci sarebbe da definire che cosa va a intendersi con il termine “dal basso”: a parere di chi scrive il “basso” è il livello base delle attività umane organizzate, quello che garantisce il sostentamento. E il sostentamento delle società umane è dato dalle infrastrutture, le utilità di scala. Ora, in un mondo di 7 miliardi di persone è evidente che il sostentamento pieno non può essere dato dai tradizionali modi di produzione: sia i modelli capitalistici (uso il plurale per indicarli nel loro essere variegati: dall’ultraliberismo al capitalismo pianificato di stato) che i modelli pre-capitalisti sono fondamentalmente modelli basati su un’economia della scarsità. In quanto tali per limiti strutturali non possono garantire una distribuzione delle risorse che sia allo stesso tempo dignitosa ed equa. Nella retorica delle autoproduzioni si sente spesso riecheggiare, magari sullo sfondo, il richiamo di triste stampo pasoliniano alla cara vecchia civiltà contadina, quella delle coltivazioni estensive, dei raccolti fatti a mano e del grano separato dalla pula nell’aia, in convivialità. Una retorica bucolica ma falsa: si rimuove sempre il fatto che in quella bucolica e pura epoca si crepava di pellagra, che la prole era concepita come pura forza lavoro (qualcuno si ricorda l’etimologia del termine proletariato?).
Come anarchici è nostro compito immergerci nelle contraddizioni della società e costruire, a partire da ciò che abbiamo a disposizione qui e ora, un mondo diverso. Noi viviamo in un tempo e in un spazio pervaso dalle dinamiche di dominio del capitale, dove la forza lavoro umana è vista come mezzo per l’estrazione di plusvalore e l’ambiente come materia da mettere a valore; ma non è per questo utile rifugiarsi in artificiosi miti dell’età dell’oro, che sia quello delle società contadine o che sia quello di presunte società gilaniche. Anzi: abdicare a una spietata analisi del nostro mondo per rifugiarsi nei miti è controproducente. L’idea di diffondere le autoproduzioni alimentari su piccola scala per contrastare il dominio del capitale in ambito agrario è semplicemente inapplicabile. Intanto la creazione di un mercato parallelo presenta una serie di problemi: in primo luogo questo non è incompatibile con la forma di produzione capitalistica, riproducendone in scala minore e in forme mitigate i meccanismi e non inficiando assolutamente la stessa; ma se questo punto è “facilmente” superabile in un ottica gradualista il secondo punto che voglio portare all’attenzione si scontra con le basi materiali del mondo: non esiste abbastanza terra coltivabile in quanto le coltivazioni estensive, per definizione, sono meno produttive in base al rapporto terreno coltivato/raccolto. Per fornire sostentamento alla popolazione mondiale serve per forza di cose una coltivazione intensiva e serve una razionalizzazione della stessa. A tal proposito è ora di farla finita con l’idea che la tecnicizzazione del lavoro sia di per se’ negativa: la tecnica è un elemento che mira all’indefinito incremento della potenza umana, il che vuol dire che tecnica e capitale non sono necessariamente in simbiosi, e l’una non è necessariamente lo strumento dell’altro. E questo al di là del fatto che la tecnicizzazione e la meccanizzazione del lavoro sono servite, storicamente, ad un disciplinamento della forza lavoro: all’interno di un contesto capitalista l’asservimento della forza lavoro, ovvero la possibilità di estrarre un maggiore plusvalore a parità di di tempo di lavoro, è lo sbocco di certe innovazioni tecnologiche. Ma è altrettanto vero che in un contesto di collettivizzazione delle risorse e dei mezzi di produzione la meccanizzazione e la tecnicizzazione sono mezzi necessari per la liberazione dal lavoro. E tutto questo senza inficiare le possibilità creative, insite, ad esempio nelle attività artigiane, ivi comprese certe attività agricole: la liberazione del tempo non potrebbe che rafforzarle. Basti, comunque, pensare che per impedire una distribuzione delle metodiche e dei ritrovati della tecnica sono stati inventati i brevetti e tutto un corpus normativo per bloccare il processo di incremento quantitativo e qualitativo della tecnica.

A meno che non crediamo che la popolazione mondiale da qua a qualche decennio andrà diminuendo fortemente, e non c’è niente che sostenga questa credenza, che altro non sarebbe che mero atto di fede, è evidente che, nell’ottica anarchica di costruire un mondo diverso non si potrà prescindere dai mezzi tecnico-scientifici che si sono sviluppati all’interno del capitalismo. E questi sono mezzi che dobbiamo strappare dal dominio, che dobbiamo usare per liberare gli esseri viventi e non per asservirli. I mezzi tecnici creatisi nel contesto capitalistico creano una serie di contraddizioni che contengono il germe del superamento del capitalismo stesso. Viviamo in un economia strutturalmente e artificiosamente della scarsità, nostro obbiettivo deve essere ripensare al rapporto interno alle società umane e al rapporto tra queste e l’ambiente in cui viviamo, quindi ad una razionalizzazione delle attività umane che eliminino, o per lo meno limitino fortemente, gli sprechi e le devastazioni ambientali.

Deve prendere corpo la visione di una produzione a basso impatto, intensiva e compatibile con ambiente e territorio; se l’obiettivo è quello di sfamare, l’intensività deve avere i connotati della genuinità non della quantità. Oggi il paradigma è produrre il massimo per sopperire il prezzo sempre troppo basso, in una visione alternativa deve essere produrre quanto consentito dal territorio compatibilmente con le esigenze umane, il che vuol dire ciclo stagionale e conservazione del prodotto.

Inoltre, in un ottica sociale, l’autoghettizzazione, perchè, non nascondiamocelo, i GAS e i consimili spesso questo sono, è un male da evitare come la peste: è insensato proporre prodotti a prezzi più alti di quella della grande distribuzione in un momento in cui i salari subiscono compressione e aumentano i disoccupati e i lavoratori atipici. Serve solo a creare le proprie isolette più o meno felici, a isolarsi ulteriormente dal corpo sociale. Serve, sembra quasi, a soddisfare un proprio intimo bisogno di purezza, di diversità.

Rifugiarsi nel comodo mito delle società precapitaliste è sciocco e inutile. Non dobbiamo pensare a quello che c’era prima del capitalismo, dobbiamo costruire quello che verrà dopo di esso, quello che vogliamo adesso, quello che noi vogliamo che venga dopo di esso e delle macerie da esso create. La liberazione del genere umano, e non solo di esso, dalle proprie catene non ha senso, e non sarebbe una reale liberazione, se vogliamo ripiombare nel simpatico mondo dell’aspettativa di vita di 45 anni di fatica e asservimento al caso. Bisogna pensare a come ri-utilizzare le infrastrutture della logistica, come ripensare le città, perchè è evidente che un mondo di 7 miliardi di persone le città sono l’unica opzione valida in quanto limitano un consumo di suolo che sarebbe altrimenti elevatissimo, come ri-organizzare gli spazi agricoli e di produzione, liberandoci realmente dalla schiavitù del lavoro, salariato o auto-salariato che sia, e dei bisogni. Oltre a pensare a un auspicabile, e talvolta necessario, orticello.

Lorcon

(con contributi di vari compagn*)

Informazioni su lorcon

Mediattivista, laureato in storia contemporanea con attitudine geek, nasce nel sabaudo capoluogo (cosa che rivendica spesso e volentieri) e vive tra Torino e la bassa emiliana. Spesso si diletta con la macchina fotografica, lavora come tecnico IT, scrive sul suo blog e su Umanità Nova.
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