Articolo pubblicato sul numero 15 anno 95 di Umanità Nova, si inserisce nel dibattito sulla questione organizzativa e del rapporto tra organizzazione anarchica e movimenti sociali che va avanti da qualche numero.
La Chimera movimentista
L’articolo “Le lotte e i percorsi di liberazione”, pubblicato sul numero 13 anno 95, di Umanità Nova, presenta moltissimi (s)punti critici. Intanto non si può non rilevare un’errata impostazione di base: viene affermato che la lotta di classe ha diminuito di intensità fino a quasi a sparire. Niente di più sbagliato: la lotta di classe è un processo insito nella modalità di produzione capitalista. La lotta di classe non può scomparire e tanto meno ridursi di intensità, il punto, è semmai, che negli ultimi anni viene combattuta attivamente e coscientemente sopratutto dal padronato. Difatti la lotta di classe non è monodirezionale, combattuta solo dal proletariato ma è un processo dialettico in cui le classi si scontrano tra di loro. L’aumento della forbice tra ricchi e poveri è la dimostrazione puntuale del fatto che al momento chi è in vantaggio al momento è chi detiene i mezzi di produzione. In tutto questo rientrano i processi di finanziarizzazione dell’economia, le delocalizzazioni, i processi di accumulazione mediante le grandi opere, infrastrutturali o urbanistiche.
Il problema è, semmai, che chi campa di lavoro salariato non è dotato di un organizzazione tale per rovesciare il tavolo su cui si gioca la partita. Anzi, spesso sembra quasi non rendersi conto che viene giocata una partita in cui la posta in gioco è l’assoggettamento alle logiche di produzione capitaliste tipiche di questo tempo. Le fasi più battagliere dell’otto-novecento, quelle che hanno visto il movimento dei lavoratori strappare grosse conquiste, ora messe in discussione dalla profonda modifica degli equilibri sociali, sono state caratterizzate dalla presenza di strutture e organizzazioni che riuscivano non solo a contrastare l’opera del padronato ma anche a spingere in avanti e strappare migliori condizioni di vita: diminuzione dell’orario di lavoro, aumenti salariali, diritti civili e politici, garanzie sul posto del lavoro, ridistribuzione, anche indiretta, tramite i meccanismi del welfare state, del reddito. Certamente tutto questo è stato possibile grazie al fatto che, pensiamo agli anni 60-70, era necessaria forza lavoro per sostenere i boom economici e che questa forza lavoro, di conseguenza, era dotata di un grosso potere contrattuale. In un mondo diviso in blocchi non si poteva giocare con le delocalizzazioni e la finanziarizzazione estrema dell’economia era a di là da venire. L’insieme di questo condizioni, soggettive e oggettive, ha portato alle maggiori conquiste sociali i cui frutti oggi vediamo mettere in discussione.
Emerge di conseguenza la necessità di porsi due fondamentali domande: come resistere? E come rilanciare la partita in senso rivoluzionario, ovvero sia mettendo radicalmente in crisi il sistema di produzione capitalista e imponendo un suo superamento verso nuove forme di produzione?
Il movimentismo, quell’idea perniciosa che riconduce la crisi dei movimenti sociali a una narrazione che asserisce che la mancanza dell’unità tra gruppi, gruppetti e sette politiche, è la principale causa della mancanza di capacità di rispondere agli attacchi portati avanti dalla classe dominanti, dimostra tutti i suoi limiti. Noi anarchici vogliamo la rivoluzione sociale e la vogliamo tramite mezzi e fini coerenti tra di loro. Ovvero sia asseriamo la necessità di un’organizzazione che prefiguri qui e ora il mondo che noi vogliamo. La logica movimentista invece fa appello, quasi sempre, a modalità egemoniche dell’azione politica, pretendendo un’unità tattica-strategica con gruppi politici fondamentalmente anti-anarchici, ovvero autoritari. In campo anarchico questa tendenza fa appello ad una presunta potenza delle lotte o delle situazioni al di fuori dello specifico.
Affermare la necessità di una forte organizzazione anarchica specifica, strutturata in modo federalista e orizzontale, non è autoreferenzialità. Al contrario significa affermare che i nostri unici referenti sono coloro che appartengono alle classi subalterne, a cui noi stessi apparteniamo, e non un generico “movimento” con cui cercare in modo parossistico l’unità.
A questo va aggiunto il problema della mediatizzazione delle lotte stesse. Le manifestazioni teatrino, le patte teatrali, l’insurrezionismo estetico, hanno caratterizzato una buona parte degli ultimi venti anni di lotte sociali. È forse un caso che siano stati gli anni in cui sono state maggiormente messe in crisi le conquiste degli ultimi 150 anni? È completamente velleitario pensare che questi presunti momenti di rottura siano momenti in cui si esce dal rapporto sociale capitalistico. Molto spesso non sono niente altro che pezzi dello spettacolo vigente. E in quanto tale sono innocui, compatibili, digeribili, assimilabili.
Le lotte sociali sono dei processi sociali e le manifestazioni, i momenti più visibili, sono solamente una parte di questi processi. Pensare al contrario significa scambiare una parte per il tutto.
Così come affermare che “[…]il nuovo rapporto sociale è già presente nello stile di vita individuale […] come nel momento collettivo […] basterà semplicemente che esso si estenda.[…]” è profondamente errato in quanto si elude del tutto il problema principale: la mancanza di rapporti forza tali da creare qui e ora, o anche in modo graduale ma costante, un rapporto sociale radicalmente differente rispetto a quello attuale. E, sopratutto, si elude il problema che questo nuovo rapporto sociale deve essere accessibile a tutti e non solo agli appartenenti alla “subcultura movimento”. Bisogna si costruire tutti i giorni opposizioni, resti, situazioni radicali, ma bisogna farlo tenendo ben presente che solo lo sviluppo dell’organizzazione anarchica specifica può bloccare a priori le derive auoritarie, egemoniche, elettoraliste, a cui spesso i “movimenti” vanno incontro.
La logica movimentista affonda le sue basi nel percepirsi come corpo separato rispetto alla società, logica fortemente autoreferenziale e da sottocultura, incapace di andare al nodo della questione: il rovesciamento del rapporto di forza tra le classi, ovvero l’appropriazione da parte del proletariato dei mezzi di produzione e la gestione degli stessa senza burocrazie e mediatori, ovvero l’abolizione delle classi sociali e della modalità di produzione capitalista.
Il movimentismo è figlio di un’autoghettizazione in cui possono essere elaborati solamente percorsi estremamente limitati e parziali, del tutto rientranti nella compatibilità capitalista, facilmente riassorbili e cooptabili in logiche di rappresentanza e clientela, che si risolvono, in definitiva, nella cura del proprio orticello mentre ci si racconta di praterie sterminate da colonizzare. Ma la prateria narrata è in realtà un disegno su di un muro mentre la prateria vera sta al di là del muro della narrazione.
E ora veniamo ad un altro punto, quello delle “lotte a margine della condizione salariata”. Come anarchici siamo ben consci del fatto che la società non si risolve semplicemente nella contraddizione capitale-lavoro ma che a fianco di questa contraddizione ne sono presenti altre altrettanto importanti. Per questo, oramai da anni, si parla della necessità dell’intersezionismo delle lotte, ovvero della necessità di unificare lotte apparentemente diverse, se non addirittura in apparente contraddizione tra di loro. Ma l’intersezionismo può essere garantito solamente da un’organizzazione politica che riesca non solo a tenere insieme le varie istanze ma anche a risolverle dialetticamente, ovverosia a fare lavoro di sintesi e a superare le presenti condizioni di vita.
Perchè se è vero che il personale è politico è altrettanto vero che spesso le questioni politiche vengono sempre e solo riportate a livello personale, perdendo completamente di vista la visione collettiva. O, al più, si pretende di ricondurre la dimensione collettiva a quella di gruppi di affini. Ma non è così: i rapporti di dominio pervadono l’intera società con una vera e propria microfisica del potere e i percorsi di resistenza e contrattacco non possono essere, di conseguenza, solo individuali o basati su gruppi di affinità. Prendere atto della complessità della realtà significa prendere atto della necessità dell’azione politica collettiva e, coerentemente, svilupparla. E questo può essere fatto solamente producendo e riproducendo organizzazione ovvero mettere in campo rapporti sociali nuovi, il meno possibili compatibili con il modo di produzione capitalista e l’organizzazione autoritaria della vita, ovvero uscire dalla logica della merce, che spesso avviluppa anche i progetti di pretesa economia alternativa, in grado di resistere all’ovvia repressione e agli ovvi tentativi di recupero.
Ma per far questo bisogna ritornare ad una seria analisi razionale e scientifica della realtà e abbandonare le narrazioni auto-intossicanti tipiche del post modernismo. Non ci piace farci raccontare favole e quindi non ha senso contarcele da sole. Mi riferisco qui a tutto quel filone di pensiero anti-modernista serpeggiante nei movimenti che pretende di risolvere la critica al vigente sistema politico-economico in un velleitario ritorno alla natura, qualunque cosa questa voglia dire. Intanto la distinzione artificiale-naturale è del tutto culturale e, quindi, artificiale. È un assunto base di cento anni di antropologia e dovremmo tenerlo a mente ogni volta che sentiamo sproloquiare della natura e di come il perfido capitalismo abbia corrotto una presunta natura umana. Prendere atto di questo significa prendere atto della necessità di superare dialetticamente e non di negare infantilmente la barbarie capitalista e statale. Ovvero della necessità dell’appropriazione dei mezzi di produzione, della distruzione delle burocrazie e degli apparati separati, delle visioni mistico-religiose e del prendere, modellare e tenersi in mano il proprio futuro e il proprio presente.
L’analisi e, sopratutto, la gestione della complessità in cui viviamo porta alla necessità di un’organizzazione capace di farsi carico di questo lavoro. E un’organizzazione simile non può che essere, formale per evitare qualsiasi rischio di deriva autoritaria, anche solo leaderistica e carismatica.
Questo passaggio chiarisce anche la questione delle alleanze.
L’organizzazione anarchica deve cercare apparentamenti con organizzazioni simili, che siano di massa, come i sindacati libertari, o specifiche come un singolo collettivo di stampo anti-autoritario o situazioni sociali che adottano metodologie e pratiche anarchiche o libertarie, come i movimenti di massa in difesa del territorio che abbiamo vissuto in questi anni. Bisogna tendere alla costituzione di blocchi rosso-neri.
Perchè apparentarsi in nome di una pretesa unità dei movimenti con organizzazioni autoritarie, di derivazione marxista-leninista o post-operaiste o altro, è una politica che ha già mostrato i suoi limiti in più di un’occasione.
La politica frontista ha sempre e solo nascosto le mire egemoniche di chi, in nome dell’unità strategico-tattica, pretendeva di annullare, a proprio esclusivo vantaggio, la profonda e radicale alterità rispetto alle modalità autoritarie, alterità di cui noi anarchici siamo portatori.
Per questo è necessario affermare la necessità di una forte organizzazione formale e specifica.
lorcon