Ripubblico di seguito il mio intervento per il blog Anarres-Info sull’evoluzione del diritto penale e dei dispositivi repressivi, probabilmente in futuro lo stesso articolo, ampliato, troverà posto anche sulle colonne di Uenne. Di seguito anche l’intervento audio del sottoscritto sulla trasmissione Anarres su Radio Blackout
Gli ultimi fatti giudiziari, che hanno coinvolto decine di compagni torinesi, attivi nel movimento antirazzista e nel movimento No Tav, mettono sul tavolo una questione cruciale: la sostanziale modifica del diritto penale liberale.
Al centro degli ultimi processi è stata posta la personalità dell’imputato, rendendola oggetto di valutazione in base a criteri di pericolosità sociale, al di là della condotta specifica. Il diritto penale liberale ha il suo cardine in due concetti chiave:
a) l’azione giudiziaria è rivolta verso la condotta del reo e non contro la persona dello stesso
b) gli imputati sono soggetti giuridici ovvero titolari di alcuni diritti inalienabili, sono persone inserite all’interno di un contratto sociale
Questi due principi, sulla cui effettività torneremo più avanti, vengono pesantemente messi in crisi dalla teoria del diritto penale del nemico, elaborata negli anni ottanta dal giurista tedesco Jakobs. Secondo Jakobs oltre al criminale comune, che è recuperabile alle regole del contratto sociale, esiste un’altra specie di criminale: il nemico. Costui non è recuperabile al contratto sociale e di conseguenza per proteggere la società (torneremo poi su questo concetto) è necessario neutralizzarlo. Una logica di guerra entra nel diritto penale.
Per definire la figura del nemico, che nella teoria di Jakobs rimane sempre molto vaga, forse volutamente, si deve ricorrere all’osservazione della personalità dell’imputato, alla sua messa a nudo da parte dei tribunali e di una pletora di esperti. A questi il compito di valutare se si è di fronte ad un semplice deviante o ad un nemico. Ma attenzione: chi definisce in termini politici il nemico? Chi indirizza l’azione giudiziaria? E qua torna un altro concetto forte della teoria politica occidentale: quello di sovranità. Infatti tocca al potere sovrano, quello dotato del potere di porre eccezioni, definire chi è il nemico. Il diritto penale del nemico è una visione fortemente politicizzata della teoria del diritto in quanto si basa sull’esercizio del potere di porre eccezioni da parte di chi detiene la sovranità. Sarà questi ad indicare di volta in volta quali i nemici, ovvero gli individui e le collettività costitutivamente avverse all’ordine costituito.
Costoro non saranno più soggetti titolari di diritti giuridici ma bensì nuda vita biologica soggetta ad una possibilità di violenza illimitata da parte del potere. È l’esatto contrario di quanto viene affermato dalla concezione liberale del diritto.
Per questa sua caratteristica di essere estremamente politico il diritto penale del nemico poggia fortemente anche sulla costruzione del nemico tramite il discorso pubblico. Il discorso pubblico italiano, che negli ultimi 15 anni è sostanzialmente virato a destra con la retorica sulla sicurezza e la legalità, ha già individuato da tempo quali sono i soggetti che vanno etichettati come nemici: coloro che hanno la disgrazia di essere contemporaneamente immigrati e poveri, ovvero forza lavoro esclusa dalle tutele conquistate dai movimenti sociali. La legislazione differenziale su cui si basano i CIE-CPT è modellata intorno alla concezione di nemico. Una volta individuata la classe di individui che vanno considerati come nemici, la detenzione, con i suoi corollari di tortura, morte, ed l’espulsione ovvero sia i processi di neutralizzazione fisica diventano semplici passaggi amministrativi, mera contabilità per tanti piccoli Eichmann della burocrazia.
E non faccio il paragone con il contabile della shoa a caso: la detenzione amministrativa, l’individuazione di categorie sociali come nemiche, la riduzione di soggetti a nuda vita biologica sottoposti a violenza illimitata, sono quanto esplicitato dal nazismo.
Ma attenzione: fuor di retorica questo è quanto succede di norma all’interno delle logiche capitaliste che vedono gli individui come portatori di forza lavoro da mettere a valore e basta. Il nazismo, e non solo lui, ha semplicemente esplicitato queste dinamiche portandole all’estremo e, in questo, ha prodotto scandalo.
Il diritto penale del nemico, per quanto teorizzato in modo sistematico solo negli ultimi decenni, è presente sottotraccia in tutta la storia contemporanea. E non solo a livello teorico, si pensi a Carl Shmidt, ma anche a livello fattuale: il codice Rocco del 1936 con le sue misure di sorveglianza speciale, ereditate in buona parte dal diritto repubblicano, è sostanzialmente basato sul concetto di nemico. E anche lo stesso codice Zanardelli del 1897, la pietra angolare del diritto liberale italiano, contiene al suo interno dispositivi repressivi per le classi pericolose basati sul concetto di nemico.
Le leggi sono il precipitato normativo dei rapporti di forza presenti nella società. Non sono concezioni che discendono dall’empireo platonico per farsi norma tramite l’opera di qualche demiurgo. Negli ultimi 40 anni abbiamo assistito ad una mitigazione delle concezioni più dure delle teorie giuridiche perché i rapporti sociali messi in campo dai movimenti sociali e la così detta “società civile”, intesi qua nella loro concezione più larga, dalle organizzazioni più o meno rivoluzionarie a pezzi della borghesia progressista come il Partito Radicale, erano tali da poter imporre delle garanzie all’interno dei procedimenti giuridici. Garanzie ipocrite, parziali, insufficienti e tutto fuor di dubbio. Ma comunque garanzie. Con la crisi dei movimenti sociali a fine anni ’70 e il disimpegno degli anni ’80 si è potuto assistere ad un prepotente ritorno delle concezioni più dure del diritto: la guerra alle formazioni lottarmatiste, l’introduzione delle leggi sul pentitismo, l’ingresso dello psicologo nelle carceri per analizzare la personalità dei rei politici e decidere su di una loro recuperabilità al consesso sociale, l’applicazione dello stato di eccezione permanente ovvero della sovranità.
E non è un caso che in momento di profonda ristrutturazione degli assetti politici e sociali dell’occidente ci sia anche in Europa un ritorno di queste concezioni, che hanno ricevuto una formalizzazione e una sistematizzazione solo in tempi recenti ma sono state un sottotraccia e una costante di tutta la storia contemporanea.
La necessità di difesa della società teorizzata da Jakobs è in realtà la necessità di difendersi delle classi dominanti. Negli ultimi 15-20 anni coloro che sono stati stigmatizzati come nemici sono stati gli immigrati, oggi cominciano ad esserlo tutti gli oppositori sociali e domani? Di fronte ad una disoccupazione costantemente a due cifre e alla marginalizzazione di fasce sempre più ampie di popolazione chi sarà individuato come nemico, ovvero come non recuperabile e disciplinabile (o non facilmente tale) ai processi di accumulazione di capitale?
Bisogna difendere la società? Si, certamente: dall’attacco messo in atto costantemente dallo Stato e dal capitale.