Il seguente articolo è apparso sul numero otto anno 102 di Umanità Nova
Una delle conseguenze immediatamente evidenti della sindemia di SARS-Covid-19 è stato il diffondersi di smartworking e telelavoro. Dopo due anni di pandemia, pratiche che prima erano poco diffuse e relegate a specifici settori sono diventate di massa. A causa dell’emergenza, la diffusione di queste pratiche è avvenuta senza il rispetto delle dovute tutele per i lavoratori e, purtroppo, non si sono viste particolari battaglie sindacali in merito a questa violazione dei contratti.
Innanzi tutto mettiamo in campo alcune definizioni per distinguere il telelavoro e lo smartworking. In questo articolo utilizzeremo il termine telelavoro per indicare quella modalità che prevede la semplice remotizzazione del posto di lavoro rispetto all’ufficio: la gestione del flusso di lavoro rimane la stessa che si avrebbe in ufficio così come permane un orario fisso ed eguale per tutti i lavoratori. Per smartworking, invece, intendiamo una modifica anche del flusso di lavoro e della gestione del tempo di lavoro. Il dipendente lavorerà così seguendo dei progetti, gestendo autonomamente il tempo da dedicare alle varie fasi, e deciderà, con maggiore o minore grado di autonomia a seconda della realtà aziendale e del proprio potere contrattuale, anche il proprio orario di lavoro.Se il telelavoro si limita a remotizzare la postazione dalla scrivania dell’ufficio al portatile sul tavolo della cucina, lo smartworking prevede anche un cambio di paradigma nella gestione dei flussi di lavoro e, in parte, della capacità decisionale.
Chi si trova a svolgere le proprie mansioni in regime di telelavoro ha vissuto negli ultimi anni tutta una serie di situazioni oggettivamente svantaggiose. In molti casi, non essendo l’azienda preparata alla remotizzazione delle postazioni, si è scaricato il costo dell’operazione sui dipendenti stessi: utilizzi di dispositivi di proprietà personale per il lavoro, innalzamento della spesa per consumo elettrico e riscaldamento della casa trasformata in luogo di lavoro, utilizzo di linee dati a proprie spese. Tutto questo senza che vi fosse una contropartita in termini di aumenti di salario.
Un altro svantaggio per i lavoratori è in termini di salute fisica e benessere mentale: la mancanza di postazioni di lavoro in casa realizzate tenendo conto di criteri di ergonomicità, e quindi di corretta postura, spesso già carenti in molti uffici, finisce per danneggiare l’apparato muscolo-scheletrico. In pochi hanno uno spazio in casa da dedicare a una postazione realizzata con criteri sensati – il classico studiolo domestico – e in molti si sono trovati a lavorare sul tavolo della cucina, con sedie non adeguate ad otto e più ore di seduta, spesso di fianco al partner anch’esso in telelavoro e ai figli in DaD. Se allo stress dell’esplosione della sindemia si aggiunge il malessere di lavorare in un ambiente non adeguato e una bella lombosciatalgia dovuta a una sedia scomoda non si ricava un quadro roseo.
Nel parlare di telelavoro bisogna anche tenere conto che l’oppressione di genere si ripercuote anche in questo ambito. Per molte donne la casa non è il luogo del riposo ma è il luogo del lavoro di cura, fondamentale per la riproduzione sociale. Alle mansioni lavorative remotizzate dal telelavoro si aggiungono così le mansioni del lavoro di cura: badare alla prole, che durante i periodi di picco della pandemia si trovava in didattica a distanza, preparare pasti, tenere la casa in ordine. Per le donne per cui il lavoro era un’occasione di uscire da situazioni di abuso domestico, anche se solo per qualche ora al giorno e nell’ambito dei rapporti lavorativi, trovarsi costrette al telelavoro ha significato non potere allontanarsi.
Vi è, comunque, anche l’altro lato della medaglia: lavoratrici e lavoratori sottoposti a mobbing in ufficio che sono riusciti a darsi una tregua dalle continue aggressioni di capi e di colleghi, pur mantenendo il posto di lavoro, lavoratrici che sono riuscite a tutelarsi da situazioni di violenza sessuata attuata nei luoghi di lavoro mantenendo il salario. In una società complessa la semplificazione non è possibile.
In alcune realtà più strutturate che hanno fatto ricorso al telelavoro per i propri dipendenti si è poi aggiunto il ricorso a forme di telecontrollo estremamente invasive. Questo è avvenuto in quanto le aziende, in molte realtà impiegatizie, hanno fatto ricorso alle stesse forme di controllo, spesso capillare e asfissiante che in ufficio viene messo in atto dal padrone o da suoi delegati.
Per ovviare all’impossibilità di controllare a vista i dipendenti alcune realtà hanno fatto installare sui computer usati in remoto, in questo caso molto spesso di proprietà dell’azienda, software in grado di rilevare l’attività degli utenti e stilare report ad uso dei manager delle risorse umane.
Questi sistemi di sorveglianza sono spesso molto più pervasivi e subdoli di quelli messi in campo in ufficio. Avvisano i manager se non si compiono determinate azioni che indicano che si sta lavorando entro un dato lasso temporale, prendono screenshot a caso dello schermo in modo che i controllori possano vedere se non ci si distrae su altri siti, i sistemi più avanzati analizzano il comportamento generando report con metriche per segnalare chi, come e quando si distrae e rallenta il flusso di lavoro. In questo modo si possono individuare i dipendenti meno produttivi e sanzionarli.
Sono sistemi che nella loro pervasività servono a far sentire l’occhio del padrone sulla nuca di ogni singolo lavoratore, per altro isolato dai suoi pari e impossibilitato a formare quella rete di complicità che permette di coprire piccole deviazioni dagli obblighi di lavoro, sottoposto a un controllo spersonalizzante, continuo, con una dimensione che si vuole leviatanica.
Paradossalmente questi sistemi, che pure vengono implementati da manager con la fissa delle metriche di produttività, vanno in alcuni casi a detrimento della produttività stessa. Dipendenti frustrati, che finiscono per cercare scappatoie di tutti i tipi, che si rifiutano – giustamente – di assumersi qualsiasi responsabilità creativa nella gestione del lavoro, abituati e costretti a rigidi protocolli spesso farraginosi e idioti, alla prima occasione se ne vanno.
È uno dei motivi dietro alla Great Resignation, il fenomeno che negli USA negli ultimi mesi sta vedendo moltissimi lavoratori abbandonare i propri posti di lavoro appena hanno abbastanza soldi da parte per campare senza lavorare per qualche mese. La produttività o la qualità del lavoro interessa però, spesso, meno della possibilità di attuare un controllo capillare.
Il rapporto capitalistico è un rapporto che si vuole totalitario. Le grandi concentrazioni industriali negli opifici nel corso dell’Ottocento nascono con lo scopo di concentrare e controllare meglio la forza lavoro che prima lavorava, anche se per lo stesso padrone, al telaio domestico nei processi di produzione diffusa. L’introduzione delle macchine con automatismi sempre maggiori è servita a disciplinare la forza lavoro ai ritmi imposti dalla direzione.
Avere le maestranze inurbate, che lavorano in luoghi predisposti, significava, allora, spezzare quel legame con la terra che permetteva di avere una sussistenza fuori dei rapporti mercantili. L’inurbamento e l’industrializzazione sono possibili grazie alle enclosures che limitano l’accesso comunitario alle risorse agroforestali. Il rapporto tra sradicamento dalla terra e integrazione nel processo industriale non è una novità del Novecento ma è una caratteristica primaria della nascita della grande industria moderna. Il legame con l’azienda, venute meno le risorse autonome che permettono almeno di mettere qualche legume e due uova in tavola a prescindere dall’andamento dei mercati e del riflesso di questo sul proprio salario, diventa un legame totalitario. In alcuni paesi, come l’Italia, per qualche decennio hanno resistito le figure dei metal-mezzadri che però sono stati fenomeni residuali e scomparsi nel giro di pochi decenni o relegati solo a regioni con determinate specificità.
L’introduzione di sistemi di controllo per il telelavoro rimarranno in auge anche con il rientro dello stesso – rientro delle cui dimensioni sapremo solo nei prossimi anni – e verranno applicati anche in ufficio, aggiungendosi ai consueti controlli a vista e alle spiate fatte da colleghi cui non è stato spiegato come si sta al mondo.
La dimensione del controllo è fondamentale in un sistema che tende al totalitarismo e la possibilità di controllare fin nelle pieghe più microfisiche dei rapporti di lavoro – quindi rapporti di potere e dominio – è il sogno di molti manager. Nel corso degli anni però la concentrazione industriale ha permesso ai lavoratori di riconoscersi gli uni con gli altri come sfruttati accomunati dalla stessa oppressione. Il vivere dentro la fabbrica ha permesso in certi momenti di prenderne il controllo, di spezzare quel sistema di controllo che gravava sulla testa dei lavoratori.
Se la ristrutturazione industriale di fine anni ’70, che ha visto l’introduzione di sempre maggiori automatismi, ha permesso il contrattacco padronale contro le lotte che per un decennio avevano visto i lavoratori conquistare migliori condizioni di lavoro e di salario, la conseguente introduzione degli automatismi nei lavori di concetto ha seguito la stessa dinamica colpendo coloro che si ritenevano in salvo.
Il ceto impiegatizio si è a lungo ritenuto immune dalle conseguenze della cosiddetta terza rivoluzione industriale. Gli impiegati della FIAT potevano permettersi di identificarsi negli interessi dell’azienda e scendere in piazza contro i loro colleghi dei reparti ma sono stati spazzati via anche loro. I gestionali della SAP hanno fatto tante vittime come il Robogate della COMAU e stessa cosa si può dire per Solidwork e altri programmi di CAD/CAM.
Se le tecnologie per il controllo informatico capillare del lavoratore non si sono ancora diffuse è a causa dell’impreparazione stessa di molte aziende. Sono tecnologie costose – sia in termini di licenze per comprarle che di consulenze per l’implementazione e la formazione per usarle – e gli imprenditori italiani, soprattutto nelle piccolo-medie imprese, preferiscono non investire in tecnologia. Non è un caso che Confindustria sia stata una dei maggiori sponsor delle politiche del governo Draghi tese a garantire il rientro negli uffici.
Questo però per quanto tempo? Non è da escludere che nel prossimo futuro tecnologie ora abbordabili solo ad aziende strutturate non comincino ad avere costi minori. È una tendenza iscritta nel cosìddetto “capitalismo della sorveglianza”: raccogliere dati in modo capillare, metterli in relazione, elaborarli, produrre previsioni.
Cosa si può fare davanti a un sistema che si presenta come leviatano e ci vuol ridurre a monadi? In realtà, di là delle astuzie tecniche che si possono adottare a livello individuale per tutelarsi da chi vorrebbe esercitare un controllo pervasivo, la ricetta non è nuova: costruire relazioni solidali con chi condivide la propria condizione, informarsi, condividere conoscenze, organizzarsi.