Articolo pubblicato su Umanità Nova numero 9 anno 100
[Ora d’aria. I detenuti parlano fra loro]
[Voce dall’altoparlante] “Attenzione! Attenzione! La partita di calcio non verrà trasmessa”
[Detenuto #1] “In nome del popolo italiano” [segue pernacchia collettiva dei detenuti]
[Secondino #1] “Rientrate tutti nelle celle”
[Detenuto #2] “Non date retta a quello. Ci spetta un’altra mezz’ora”
[I secondini chiudono la porta che collega le celle al cortile. Urla dei detenuti e proteste sempre più veementi di quest’ultimi. I secondini si appostano sulle mura che sovrastano il cortile]
[Detenuto #3] “Vogliamo giustizia. Non siamo bestie!”
[Secondino #2] “ma che c’entra tutto questo con la partita?”
[Detenuto #4] “pure questo c’entra. E tutte le altre promesse che non avete mantenuto.”
[Secondino #3] “Ignoranti!”
[Detenuto #5] “Ignorante sei tu che stai qui pe’ 80mila lire al mese! Schiavo! Schiavo!”
[Secondino #2] “E voi che ce fate qui avanzo de fogna?!”
[Detenuto #6] “Vogliamo mantenere le nostre famiglie e vogliamo qui il giudice di sorveglianza. Capito?! Il giudice!”
[Detenuto #7] “Perchè nun ce fate i laboratori co’ tutti i miliardi che ce fregano?!”
[Detenuto #8] “Basta con i processi che durano degli anni!”
[Detenuto #9] “Meglio la morte che sto carcere.”
[Maresciallo dei secondini] “Silenzio, rientrare nelle celle. Pazienza ne ho poca. Obbedire!”
[Coro di sfottò dei detenuti] “Duce! Duce! Duce! Duce! Duce! Duce! Duce!”
scena tratta da “L’istruttoria è chiusa: dimentichi”, regia di Damiano Damiani (1971)
Il carcere è sempre stato ritenuto un luogo di punizione dove mandare chi non si fosse adeguato o normalizzato alle leggi vigenti. Il concetto di “correzione” o “educazione” dell’individuo, introdotto nel corso del XIX e XX secolo, è stato un modo per dare una parvenza di “umanità” – che tanto rincuora quelle anime belle intrise di un pietismo cristiano che farebbero impallidire uno Stirner o un Nietzsche dei bei tempi andati -, e formare individui rieducati alla paura ed alle logiche dell’attuale assetto socio-economico.
“La retorica della correzione e dell’umanizzazione delle carceri,” scrivevamo in “Carota e mercede”[1], non è altro che un tentativo squallido di nascondere lo sfruttamento e le violenze (fisiche ed economiche) verso i/le detenuti/e.”
Le strutture detentive presenti in Italia possono ospitare massimo 50mila unità. Stando quanto riportato dal Ministero della Giustizia [2], la popolazione carceraria si aggira intorno alle 61mila unità – 10mila in più della capienza che tutte queste strutture possono ospitare.
Anche se l’European Prison Observatory [3] riporta come il sovraffollamento coinvolga anche altri paesi europei come Francia, Ungheria e Romania [4], l’Italia e tutti i suoi governi hanno avuto sempre un atteggiamento di aperto e conclamato dispregio verso la popolazione carceraria.
L’ammassamento di esseri umani in una stanza – similare, oseremo affermare, a degli allevamenti di polli in batteria -, le condizioni igienico-sanitarie disastrate [5], le violenze delle guardie carcerarie [6] e lo sfruttamento economico all’interno delle strutture detentive [7] dimostrano oggettivamente come la punizione sia il punto cardine all’interno delle carceri italiane.
Cosa accade in una situazione del genere quando scoppia una pandemia
Da quando è cominciato a dilagare il Covid-19 in Italia, l’attuale governo ha emanato dapprima il D.L. n. 6 del 23 febbraio 2020 “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19”, per poi prendere ulteriori disposizioni sul contenere e gestire l’emergenza epidemiologica con un D.P.C.M. del 9 Marzo.
In una situazione di crisi del genere, i permessi premio e i contatti tra detenut* e parenti e avvocati sono stati normati attraverso l’articolo 2 comma 8 e 9 del D.L. n.11 dell’8 Marzo 2020, “Misure straordinarie ed urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attivita’ giudiziaria.”
Tale norma è stata vista giustamente come un divieto e, da questo, si è scatenata la scintilla delle rivolte susseguitesi nei giorni successivi.
D’altra parte non si capisce come i familiari e avvocati nei colloqui possano essere veicoli di infezione mentre i secondini che fanno avanti e indietro dalla galera a casa loro no. [8] L’augusta idea del governo è stata quella di limitare ulteriormente le poche occasioni di contatto con l’esterno dei detenuti “per il loro bene” eliminando del tutto la possibilità di colloquio al posto di farli svolgere in condizioni di sicurezza.
Le richieste dei/delle detenut* e dei loro familiari, fin dal principio, sono state le seguenti: ripristino dei colloqui, libertà per i/le detenut* con bassi residui di pena, maggiore accesso alle cosiddette misure alternative, fine del sovraffollamento e miglioria delle condizioni igienico-sanitarie dentro le mura carcerarie.
La risposta dello Stato non si è fatta attendere. L’intervento massiccio e violento delle forze dell’ordine ha causato sedici morti tra i detenuti: nove al carcere Sant’Anna di Modena – dove i detenuti hanno saputo che un recluso era risultato positivo al COVID-19 e l’amministrazione non aveva adottato nessuna misura di tutela -, due al Carcere della Dozza di Bologna e quattro al Carcere di Rieti. Imponenti agitazioni si sono avute nelle galere di tutta la penisola.
Le morti sono state tutte raccontate dalle veline del governo come overdosi a seguito del saccheggio delle scorte di metadone e benzodiazepine nelle infermerie cadute in mano ai rivoltosi. Una sola morte, nel carcere di Modena, è stata imputata all’inalazione dei fumi a seguito di un incendio.
Lo Stato si è rifiutato, fino a questo momento, di divulgare le generalità dei morti, i risultati autoptici e i resoconti dettagliati dell’accaduto persino ai familiari, aggiungendo l’insulto al crimine e gettando nella più cupa disperazione centinaia di persone che non sanno quale destino sia occorso ai propri cari.
Abbiamo abbastanza elementi per poter ritenere che la versione delle morti da overdose sia tutta da verificare se non direttamente una pura e semplice menzogna che serve a coprire la violenta repressione attuata dagli organi dello Stato nei confronti dei rivoltosi:
– per andare in overdose di metadone è necessario assumerne dosi massicce. La popolazione carceraria, largamente composta da sopravvissut* della guerra alla droga – il paradigma legalitario della gestione delle tossicodipendenze in voga da decenni – sanno come gestire le sostanze, specie il metadone – regolarmente distribuita dai SERT e con cui, qualunque tossicodipendente da oppiacei, ha esperienza. Risulta difficile credere che nel momento della rivolta, più di una decina di detenuti decida di suicidarsi assumendo dosi massicce di metadone o sbagli a calcolare le dosi andando in overdose accidentale. È da tenere conto come il metadone sia una sostanza che può trarre in inganno e, come tutti gli oppiacei, fa sviluppare una tolleranza; per cui un consumatore abituale può assumere dosi che ad altri risulterebbero letali. Ma è quantomeno strano che nello stesso luogo e nello stesso posto, mentre accade una rivolta, una decina di persone occorra nella stessa disgrazia [9]
– se anche si fosse verificato questo – cosa che risulta ben poco verosimile -, rimane il fatto che quattro dei nove detenuti deceduti di Modena sono morti durante le fasi di trasferimento dal carcere di Sant’Anna verso altri istituti di pena a seguito della repressione della rivolta. L’overdose da oppiacei, anche di sintesi, agisce causando una depressione respiratoria; in alcuni casi può manifestarsi ad alcune ore di distanza, accompagnata anche da altri sintesi. È quindi legittimo ritenere che questi morti siano stati caricati già privi di coscienza o in stato palesemente alterato e in stato di depressione respiratoria sui pullman della polizia penitenziaria. Come minimo saremmo di fronte a una grave omissione di soccorso con persone visibilmente non in salute caricate per un trasferimento verso un altro carcere e non portate in ospedale;
– dalle immagini che circolano è evidente un massiccio uso di lacrimogeni da parte dei reparti antisommossa. I lacrimogeni caricati con il CS sono noti per la loro letalità in concentrazione elevate in ambienti scarsamente areati[10];
– la Polizia Penitenziaria dello Stato Italiano è nota per la sua strutturale brutalità nel gestire la quotidiana non-vita dei carceri.[6] È legittimo e doveroso pensare che gli agenti, grazie alla mancanza di testimoni e alla copertura politica del governo , abbiano pensato di poter agire impunemente e ferocemente nel reprimere le rivolte.
Nella migliore tradizione della storia patria, quanto è avvenuto ha subito un immediato tentativo di insabbiamento sulle responsabilità che vanno dai secondini fino alle più alte cariche istituzionali.
I governi e le principali testate giornalistiche e televisive del paese, al cui coro si sono aggiunte le varie testate telematiche che campano di likes e condivisioni sui social network, hanno volutamente costruito negli anni il clima perfetto per il diffondersi della pestilenza del populismo penale.
Una pestilenza in rapporto simbiotico con l’ordinamento capitalistico della società: la proletarizzazione crescente di intere masse di popolazione e la necessità di mettere in qualche modo a valore o comunque gestire quell’umanità eccedente ai “normali” meccanismi di estrazione del valore dal lavoro.
La gestione capitalistica carceraria
Il crollo del patto sociale socialdemocratico, crollo dovuto alle sue fallacie interne e al tentativo di risolvere le contraddizioni del capitale definendo una cornice di compatibilità sistemica più ampia rispetto a quella del liberalismo classico, ha portato all’esclusione dall’ambito della produzione di ampie parti della popolazione. Una parte di questa popolazione si è potuta riciclare nell’economia dei servizi, sempre più spesso caratterizzata da ampi caratteri di informalità – di cui la gig economy è l’esempio più rilevante – mentre un’altra parte, sopratutto quella razzializzata, si è trovata esclusa tout court. Questa è l’umanità in eccesso rispetto alle esigenze del capitale. Va in qualche modo gestita e il paradigma di gestione è quello del deposito: detenzione amministrativa per chi non ha le carte in regola, detenzione penale per chi è rimasto inviluppato nella tela del diritto penale, che sempre più spesso è diritto penale del nemico.
Inoltre il paradigma carcerario permette di costruire un’economia, e quindi mettere a valore, questi depositi di umanità eccedente: ai carceri è legato tutto un indotto. In alcuni paesi, anche europei, esistono carceri private o a gestione privata (in Italia questo avviene solo per i CPR che sono spesso gestiti da privati) dove la forza-lavoro detenuta è costretta a lavorare a bassi salari[11] per una pletora di associazioni più o meno a scopo di lucro che forniscono servizi “rieducativi” per il “reinserimento in società dei detenuti”.
Il populismo penale fondato sulla certezza della pena, secondini e sbarre per tutt*, è la narrazione pubblica che serve a giustificare queste esigenze economiche.
La gestione emergenziale di fenomeni sociali come la microcriminalità -spesso legata al paradigma proibizionista in vigore per quanto concerne certe sostanze -, il legame tra permesso di soggiorno e contratto lavorativo, il razzismo strutturale e la necessità per le classi dominanti di alimentare continuamente il paradigma bellico sono le basi della carcerazione di massa.
A questi fattori vanno aggiunte certe specificità dell’ordinamento penale italiano quali: il processo di primo grado che ha spesso caratteri inquisitori; i giudici che ragionano nell’ottica del “tanto poi ci pensano i gradi successivi di giudizio ad assolvere”; la possibilità di passaggio da magistratura inquirente a magistratura giudicante; l’alto costo dell’assistenza legale di qualità; l’abuso della detenzione in attesa di giudizio – oltre diciassettemila i detenuti non ancora condannati [12] – ; e la diminuzione del ricorso alle misure alternative.
Da qua la condizione di sovraffollamento delle patrie galere. Alcuni potrebbero sostenere che la soluzione è quella di costruire più galere e di renderle più vivibili, nell’ottica di quella “filantropia gesuitica” già denunciata da Kropotkin [13] e propria dell’utilitarismo anglosassone. Ma la soluzione non risiede nel migliorare le gabbie ma, bensì, smantellarle e smantellare le condizioni sociali della loro esistenza.
Sofia Bolten & lorcon
[1] Umanità Nova, 1 Luglio 2019
[2] Link: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?contentId=SST250612&previsiousPage=mg_1_14
[3] L’European Prison Observatory è un progetto coordinato dalla ONG italiana Antigone e sviluppato con il sostegno finanziario del Programma di giustizia penale dell’Unione europea. Attraverso questo progetto, vengono studiate e analizzate le condizioni dei sistemi penitenziari nazionali e i relativi sistemi di alternative alla detenzione, confrontando queste condizioni con le norme e gli standard internazionali pertinenti per la protezione dei diritti fondamentali dei detenuti.
[4] “Prisons in Europe.2019 Report on Europe an prisons and penitentiary systems”, pag. 6
Link: https://www.antigone.it/upload2/uploads/docs/Prisonsineurope2019.pdf#page=6
[5] Come riportato da Rosalba Altopiedi e Daniela Ronco in “Lo “sguardo competente’ delle relazioni delle Asl redatte ai sensi dell’art. 11 dell’Ordinamento penitenziario”, “nel 18% degli istituti visitati ci sono celle in cui non sono garantiti i tre metri quadri a persona; nel 7,2% degli istituti il riscaldamento non funziona; in un terzo degli istituti (33,7%) manca l’acqua calda nelle celle, mentre nella maggioranza delle celle (51,8%) continua a non esserci la doccia. Nel 4,8% degli istituti il wc non è in ambiente separato. […] Il numero settimanale di ore di presenza dei medici per 100 detenuti varia considerevolmente tra i vari istituti visitati, a conferma della grande disomogeneità dell’offerta del servizio sanitario tra regioni e tra territori di competenza delle singole Aziende Sanitarie. […] Ampia disomogeneità si registra anche rispetto alle ore di presenza di psicologi e psichiatri.[…]”
[6] Gli ultimi esempi ufficiali sono quelli accaduti tra Settembre e Ottobre 2019 presso il Carcere di San Gimignano (Siena) e la Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino.
[7] Le aziende che assumono detenuti/e all’interno delle strutture penitenziarie ottengono un credito d’imposta per ogni “lavoratore” o “lavoratrice” assunto/a di 520 euro mensili; nel caso di detenut* semiliber*, il credito d’imposta per ogni lavoratore e lavoratrice assunt* è di 300 euro mensili.
Questo credito di imposta spetta “nei 18 mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo per i detenuti ed internati che hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro esterno; nei 24 mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo nel caso di detenuti ed internati che non hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro all’esterno.”
Link: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_3_4_4.wp
[8] Per esempio nel carcere di Sollicciano un agente penitenziario è risultato positivo al COVID-19. Vedasi “Covid-19, positivo un allievo guardia carceraria”, link: https://www.toscanamedianews.it/firenze-covid-19-positivo-tirocinante-guardia-carcere.htm
[9] si veda il sunto sulle informazioni scientifiche presenti in questo articolo: https://blog.sitd.it/2020/03/10/sugli-otto-decessi-carcere-overdose-metadone-forse-uno-eroina/ il resto dell’articolo nella ricostruzione dei fatti lascia molto a desiderare e adotta una prospettiva giustificazionista
[10] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/370336
[11] Si vedano gli articoli: “Carota o mercede” https://www.umanitanova.org/?p=10316 e “Questione carceraria e lotta di classe” https://umanitanova.org/?p=7946
[12] Link: http://wp.unil.ch/space/files/2020/02/SPACE-II_report_2018_Final_200212_rev.pdf
[13] “La prigione”, scriveva Kropotkin in “Prisons and Their Moral Influence on Prisoners”, “non previene il verificarsi di comportamenti antisociali. Anzi, ne aumenta il numero. Non migliora chi entra tra le sue mura. Per quanto possa essere perfezionata, rimarrà sempre un luogo di reclusione, un ambiente artificiale, simile a un monastero, che non farà altro che ridurre sempre più la capacità del detenuto di conformarsi alla vita di comunità. Essa non serve ai propri scopi. Degrada la società. Deve sparire. È un residuo di epoche barbare mescolato a filantropia gesuitica. Il primo compito della rivoluzione sarà quello di abolire le prigioni, questi monumenti alla ipocrisia e alla viltà degli uomini.”