Il 7 ottobre ha aperto una nuova fase del conflitto Israelo-Palestinese: l’esercito israeliano si trova coinvolto in una vastissima operazione di combattimento urbano, gli Stati Uniti sono costretti a reimpegnarsi in profondità nello scenario mediorientale, l’Iran entra come mai prima nella partita palestinese, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) cerca di capire come sopravvivere e se è veramente auspicabile riprendere sotto la propria responsabilità la Striscia, e Hamas si trova in equilibrio tra l’enorme successo di immagine – e politico – e la distruzione sul piano militare. Scopriremo se la guerra assimetrica ha le sue vittorie di Pirro.
Il 7 ottobre si è anche sbriciolato il concetto strategico israeliano. Questo concetto strategico recitava almeno cinque dogmi:
1) La guerra contro Hezbollah del 2006 ha stabilito una deterrenza: dopo aver visto il degrado militare subito dalle forze del Partito di Dio nessuna entità non statale vorrà rischiare una reazione di quel tipo.
2) Hamas è intenzionata a governare la Striscia di Gaza e a intascarsi le creste sugli aiuti internazionali – cosa che ha già ampiamente fatto in questi anni – e non ha nessuna intenzione di confrontarsi su un piano militare con Israele. Certo, ogni tanto dovrà lanciare qualche decina di razzi e accoltellare qualcuno per mantenere la propria legittimità quale rappresentante dell’oltranzismo islamista e per combattere la concorrenza della Jihad Islamica Palestinese. In tal caso basterà bombardargli qualche centro logistico o di comando, o ammazzare un paio di quadri di alto livello, come sostiene la dottrina della potatura del prato. Negli ultimi anni, sopratutto sotto i governi di Netanyahu, questo si è tradotto nello spostare le forze militari verso la West Bank in operazioni di protezione degli insediamenti della destra sionista, causando anche diversi contrasti tra potere politico e alti gradi dell’esercito.
3) È possibile aggirare la questione palestinese con una serie di accordi con gli stati arabi del Golfo e rafforzando la cooperazione con l’Egitto, tornato sotto la guida dei militari dopo la breve parentesi islamista della Fratellanza Musulmana di Morsi. Questo permetterebbe di controbilanciare il progressivo erodersi dei rapporti bilaterali con la Turchia, un tempo partner fidato e ora guidato da un partito, l’AKP, simile alla Fratellanza Musulmana, seppure con caratteristiche proprie, e, di conseguenza, simile anche ad Hamas, organizzazione che ha in Turchia il retroterra che rende disponibile parte consistente dei propri finaziamenti.
4) L’Iran è invischiato nelle lotte di potere in Iraq, che lo vedono contrapporsi non solo alle residuali forze sunnite, ma sopratutto ai correligionari sciiti guidati da Al Sadr, che contendono all’élite iraniana anche il primato entro lo sciismo, e nel rifornire gli Houti in Yemen nella guerra mediante proxy con i Sauditi, momentaneamente raffreddatasi con la mediazione cinese. Inoltre l’Iran è impegnato a puntellare il potere degli Assad in Siria. Gli stessi apparati di sicurezza iraniani, per altro, si sono dimostrati ampiamente permeabili, e questo ha permesso ai servizi israeliani di operare in profondità entro i confini nemici, portando a segno colpi ben riusciti che hanno ampiamente rallentato il programma nucleare iraniano, sia con il sistematico omicidio di tecnici e ricercatori, sia con fini operazioni di sabotaggio, come Stuxnet. È il nemico per eccellenza, ma, finché non si sarà dotato di armamento atomico, è contenibile.
5) Le capacità degli apparati di sicurezza israeliani, oggettivamente e indiscutibilmente superiori a quelle di tutti gli altri attori nel campo della signal intelligence, a cui si aggiungono – seppure parzialmente – quelle degli apparati USA, permettono di prevedere con un discreto margine di anticipo le operazioni nemiche.
Da questi articoli di fede deriva la possibilità di una strategia che permetterebbe:
1) Il contenimento dell’Iran, ovvero il blocco del programma nucleare iraniano, mantenendo quindi il primato strategico israeliano, reso possibile dall’essere dopati di una forza nucleare autonoma e di essere inseriti entro l’ombrello militare degli USA, tramite accordi con i paesi del Golfo presi sotto i buoni auspici di Washington.
2) Il mantenimento della popolazione palestinese in una posizione di subalternità, garantita sia dai dispositivi di polizia militarizzata – o meglio di esercito che esegue anche mansioni di polizia – sia tramite l’uso dell’ANP, ridotta al rango di polizia ausiliaria. La divisione tra Cisgiordania e Striscia di Gaza gioca a favore di questa disposizione, e Hamas può essere usata sia per mantenere la divisione entro la polazione palestinese, sia per governare la sopravvivenza delle masse depauperate di Gaza.
3) La subalternità della popolazione palestinese permetterebbe l’espansione delle colonie, ovvero della base elettorale del sionismo religioso degli attuali partiti di governo, mentre lo stato di guerra permanente permette di continuare ad alimentare il volano dell’economia israeliana, il settore militare-industriale e l’inestricabile matassa di interessi a esso legati.
Proprio il quinto punto degli articoli di fede è diventato il punto dolente. Perchè si, chi doveva captare informazioni ha captato che stava per succedere qualcosa, anche con un certo anticipo, ma i livelli superiori della scala gerarchica non sono stati in grado di utilizzare queste informazioni, prigionieri del proprio stesso concetto strategico.
Negli ultimi due mesi sono uscite diverse inchieste (1, 2 e 3) che mostrano come i quadri degli apparati di sicurezza israeliani abbiano sistematicamente ignorato le informazioni che arrivavano dai ranghi più bassi. Nello specifico sono state ignorate le ripetute segnalazioni dei punti di osservazione a ridosso dalla Striscia che indicavano che Hamas si esercitava a rapire civili e militari, aveva costruito modelli dei mezzi corazzati delle Israel Defense Forces (IDF), studiava come affrontarli e attaccarli, e conduceva estese missioni di ricognizione delle barriere anche con l’uso di droni.
Oltre a quello che è stato osservato, ma non preso in considerazione, c’è quanto si poteva vedere, ma non è stato visto, in quanto i sistemi adatti a rilevare certe informazioni erano stati spenti: i palloni aerofrenati con telecamere ad alta definizione che avrebbero avuto la possibilità di scrutare in profondità nel territorio della striscia erano dismessi, così come era stato bloccato il programma di sorveglianza del traffico radio delle radioline usate dagli operativi di Hamas (radioline non cifrate o con algoritmi di cifratura estremamente deboli). Già solo questi due sistemi di sorveglianza avrebbero permesso di intercettare con ore di anticipo i preparativi di Hamas, e avrebbero permesso una rapida reazione.
Questo è quanto è emerso fino a ora. Considerando che vi sono ancora interessanti dibattiti sui motivi della débâcle dello scoppio della guerra dello Yom Kippur nel 1973, per esempio sul perchè vennero ignorate le informazioni fornite direttamente da Hussein di Giordania e da Ashraf Marwan, possiamo tranquillamente immaginare che buona parte delle domande inerenti al 7 ottobre verranno consegnate al futuro dibattito storico: oltre agli allarmi sollevati dai ranghi operativi dell’intelligence israeliana e ignorati dai quadri superiori vi sono state altre informazioni ignorate o che non sono arrivate dove dovevano? È veramente possibile che l’intelligence egiziana, con tutta la sua paranoia verso la Fratellanza, non si fosse accorta di che cosa si preparava nella vicina Striscia di Gaza? E con le sue capacità di human intelligence esercitate dal Mossad con profitto da anni in tutta l’area, davvero il Mossad stesso non è stato in grado di intercettare delle informazioni cruciali?
Vi sono, a questo punto, due possibilità:
A) improvvisamente il Mossad è diventato incapace di ricavare informazioni in Medio Oriente e lo Shin Bet non è più in grado di recuperare informazioni da fonti palestinesi nei territori occupati;
B) le informazioni sono arrivate, ma sono state processate malissimo in quanto contrastavano con un concetto strategico divenuto un insieme di articoli di fede.
Si noti che queste due possibilità comprendono anche l’ipotesi, non sappiamo quanto peregrina, che l’operazione sia stata pianificata e preparata quasi esclusivamente dalla dirigenza di Hamas che opera entro la Striscia, e non da quella parte di organizzazione che vive (nel lusso, nel caso dei dirigenti) e opera in paesi disposti a ospitarli.
È probabile che la gestione politica-militare idiota del governo di Netanyahu abbia contribuito a degradare in parte anche le stesse capacità operative del dispositivo di sicurezza israeliano, banalmente imponendo i propri lacchè entro gli apparati, ma, sopratutto, è probabile si sia imposta una visione che aveva già fin troppe aree cieche. E a questo punto il problema non è più solo dell’ultimo governo, per quanto questo ci abbia messo del suo.
In sostanza quello che è successo, a nostro parere, è che Hamas è riuscita a inserirsi nel ciclo OODA – Osserva Orienta Decidi Agisci – degli apparati israeliani. Nello specifico la rottura è avvenuta tra l’osservazione e quello che doveva essere il ri-orientamento del proprio modello della realtà davanti ai nuovi dati rilevati. I dati sono stati rilevati, ma il ri-orientamento non è avvenuto: il concetto strategico, oltre a essere sbagliato, era eccessivamente radicato nella testa dei decisori: gli occhi vedono ma il cervello non processa correttamente le informazioni, la cecità non è fisica ma cognitiva.
E vedendo certe esternazioni celoduriste del governo israeliano è probabile che quel modello di realtà – che pure si è dimostrato fallimentare oltre che tragico – sia ancora ben radicato nelle teste di questi signori: basti pensare allo scontro tra David Barnea, capo del Mossad, che, pur avendo lo stesso retroterra culturale Hardalim del governo Netanyahu, è disposto a una trattativa con Hamas che metta al centro il rilascio di tutti gli ostaggi, e lo stesso premier Netanyahu, che solo dopo giorni di pressione politica e di ampie mobilitazioni popolari ha optato per la momentanea tregua che ha permesso di riportare a casa decine di ostaggi.
Al di là delle future evoluzioni della politica israeliana, che pure costituirebbero una speculazione interessante, è il caso di concentrarsi sulla questione del fallimento di un intero concetto strategico. Le capacità dell’intelligence Israeliana – e non intendiamo solo le capacità tecniche, quelle misurabili in termini di superiorità di mezzi tecnici nell’ambito della sorveglianza o della signal intelligence, ma le capacità di architettare sistemi di intelligence in cui tutte le diversità siano in un rapporto tale per cui il valore superi quello della somma delle parti discrete – sono capacità note e quasi proverbiali. Una delle spiegazioni di questa débâcle può essere formulata nei seguenti termini: per capire che cosa vuole fare il tuo nemico devi saper pensare come pensa lui, capire cosa vuole lui, e non limitarti a proiettare il tuo modello di pensiero su di lui.
La questione quindi diventa: Hamas è un attore che adotta lo stesso modello di ragionamento degli apparati israeliani, oppure è divenuto oscuro agli stessi? Gli assiomi del concetto strategico Israeliano prevedono che Hamas sia un attore razionale. Ma è lecito anche chiedersi se Hamas sia un attore razionale o se il suo universo mentale non sia radicalmente diverso da quello degli apparati israeliani e degli apparati di sicurezza di molti paesi arabi.
Oggettivamente che cosa poteva ottenere Hamas più di un successo di immagine e il rilascio di qualche centinaia di prigioneri?
Hamas sapeva benissimo che la reazione israeliana sarebbe stata devastante e avrebbe ridotto in macerie l’intera striscia di Gaza. Magari aveva scommesso che le capacità di combattimento dell’esercito israeliano fossero degradate dal fatto che lo stesso non conduceva operazioni militari di rilievo dal 2006, e quindi da 17 leve, siccome, con l’eccezione dei reparti speciali, i militari di leva hanno in questi anni condotto compiti da polizia militare e non di guerra aperta, tranne nel 2014. Se così fosse stato – e questo era anche il timore di alcuni analisti israeliani – Hamas avrebbe potuto riscuotere un alto prezzo di sangue durante le estenuanti operazioni di guerra urbana. I fatti però non sono andati in quella direzione – sinceramente era difficile ipotizzare il contrario – e le capacità dell’IDF di operare con altissima efficienza in un territorio urbano e ostile, l’incubo di diversi eserciti, si sono dimostrate non intaccate, mentre l’appoggio popolare in Israele alle operazioni militari non è venuto meno neanche a fronte delle decine di soldati caduti. Certo Hamas conserva ancora una discreta capacità militare, ma ha perso completamente l’iniziativa e ha subìto un degrado delle proprie capacità operative, che non potranno essere ricostruite in breve tempo – ammesso e non concesso che tra qualche mese esista ancora Gaza e l’IDF non sia intenta a spargere il sale sulle macerie, come vorrebbero certi elementi del governo israeliano.
Se la scommessa di Hamas era quella di un veloce allargamento del conflitto con il coinvolgimento di Hezbollah, quella scommessa si è rivelata fallimentare. Certo non è assolutamente da escludere che tale allargamento possa ancora avvenire, e anzi vi è una discreta possibilità che avvenga, sopratutto perchè potrebbe tornare utile a Netanyahu per guadagnare tempo prolungando la guerra, ma nel frattempo le capacità operative di Hamas sono state enormemente corrose.
Hamas può contare al più su un certo scollamento tra l’opinione pubblica di molti paesi occidentali e il governo israliano e su un acuirsi delle tensioni entro Israele. Ma attenzione: le tensioni si sono acuite, si, però tutto lo spettro politico israeliano è concorde nel dire che Hamas va resa inoffensiva. Il dibattito è tra chi vorrebbe farlo spianando la striscia e chi vorrebbe farlo concludendo prima una tregua che riporti a casa tutti gli ostaggi, e poi lavorando per una soluzione politica al conflitto che veda comunque Hamas messa fuori dai giochi (e se per farlo toccherrà ammazzare qualche decina di dirigenti islamisti, la cosa non verrà vista come un ostacolo).
Dopo lo shock della Guerra del Kippur vi fu una distensione dei rapporti tra Israele ed Egitto, la guerra si dispiegò all’interno di una concezione à la Clausewitz. Sadat, a differenza di Hamas, attaccò i militari israeliani sul Sinai, non mandò le proprie divisioni a massacrare centinaia di giovani a una festa o a rapire dei vecchi. La logica di fondo era completamente diversa, e mirava a un riassetto militare che aprisse a una soluzione politica, e nei fatti questo avvenne, anche se militarmente l’Egitto si trovò in gravissima difficoltà, con l’intera Terza Armata sull’orlo dell’annientamento, e anche in questo frangente, negli ultimi giorni di guerra Israele rinunciò a dare i colpi fatali all’esercito Egiziano e accettò la mediazione americana.
Sadat si dimostrò un fine stratega: ottenne un enorme successo di immagine legittimandosi come successore di Nasser, ristabilì l’onore dell’esercito, aprì una trattativa che gli permise di recuperare i territori persi nella Guerra dei Sei Giorni, spianò la strada per una partnership strategica con gli USA sganciandosi dall’ingombrante alleato moscovita, e avviò relazioni economiche non indifferenti con l’ex nemico.
Bisogna chiedersi se Hamas – o per lo meno chi nella Striscia rappresenta Hamas, ma la stessa domanda sarebbe valida per la IJP – è un attore che agisce in base agli stessi presupposti delle altre entità o se agisce veramente – e non solo sul piano della propaganda – in base a una concezione religiosa del mondo. Certo una tale ipotesi aiuterebbe a spiegare delle decisioni che appaiono irrazionali, se guardate tramite la lente dei presupposti delle altre entità coinvolte nel conflitto.
Ovviamente, allo stesso modo, bisogna chiedersi se la componente Kahanista dell’élite israeliana ragiona in termini razionali o in base a una concezione religiosa.
Chi scrive è tra coloro che hanno sempre guardato con una certa diffidenza alle spiegazioni del conflitto arabo-israeliano come scontro religioso. D’altra parte tutto si poteva dire dell’OLP tranne che fosse islamista, e di certo non si può dire che il sionismo dei fondatori di Israele fosse guidato da chissà quale visione religiosa. Ma negli anni successi alla rivoluzione islamista in Iran abbiamo potuto vedere come le religioni siano passate dall’essere oppio dei popoli – e lacrima sul volto dell’oppresso – ad anfetamine per le masse. Questo si è verificato sia con l’islamismo nei paesi di cultura musulmana, sia con l’imporsi sulla scena politica Israeliana degli eredi di Kahane, sia con l’ascesa negli USA, a partire dagli anni di Reagan, di un nuovo cristianesimo militante.
È forse giunto il momente di rivedere anche il nostro concetto, e di aggiungere alcune categorie alla cassetta degli atrezzi cognitiva con cui analizziamo il mondo.