Sfatare i miti – Berlinguer non era una brava persona

Il seguente articolo verrà pubblicato sul numero 21 anno 94 di Umanità Nova

Sfatare i miti

Berlinguer non era una brava persona

 

L’undici giugno ricorreva il trentesimo anniversario della morte di Enrico Berlinguer, segretario del PCI dal 1972 alla morte, avvenuta durante un comizio a Padova nel 1984.

La figura di Berlinguer nel corso degli anni è trascesa dal piano storico a quello mitologico, finendo per essere evocata come un santo cattolico ogni volta che un’occasione lo concede.

Figura oramai mitizzata, assunta allo stato di idolo, difficilmente può essere sottoposta a critica storica senza scatenare una marea di polemiche.

Nonostante questo, anzi, proprio per questo, è necessario sezionare la genealogia del “mito Berlinguer” per ricondurre la discussione ad un piano storico-materiale. Non tanto per perpetuare l’antica, e per certi versi nobile, arte degli spari sui carri funebri ma per capire come questa mitologia si inserisce nell’attuale stato delle cose e quale è stato il ruolo storico del segretario del PCI più amato di tutti i tempi.

Formatosi negli anni della stretta osservanza stalinista del PCI togliattiano, fin dal 1949 ricoprì importanti ruoli dirigenziali, come segretario della FGCI e di rappresentanza internazionale come segretario della federazione di tutte le organizzazioni giovanili dei partiti comunisti stalinisti. Per tutti gli anni sessanta fece carriera all’interno del partito, finendo per affiancare, nel 1969, Longo, all’epoca segretario, di cui prenderà il posto nel 1972. In questi anni vi è il suo smarcamento dalle posizioni filosovietiche più ortodosse, cosa per cui ora viene ricordato come grande innovatore. Contemporaneamente nasce la politica del compromesso storico con la DC morotea e alcuni settori del grande capitalismo italiano. È anche il periodo di grande affermazione delle COOP rosse e della creazione di quella ragnatela di interessi rappresentato dalla Legacoop e l’”imprenditoria rossa” nelle regioni del centro-nord a guida PCI.

no, non lo era proprio

no, non lo era proprio

Ma è anche il periodo delle grandi lotte sociali, quelle che partono dall’autunno caldo del 1969 e vanno avanti fino agli anni ottanta.
Lotte sociali di cui il PCI a guida berlingueriana fu tra i principali nemici, non adeguatamente ricambiato. Il PCI fin da inizio anni ’70 si pose nell’ambito della difesa dello status quo o, al più, della ricerca di uno status quo differente e più favorevole agli interessi della propria dirigenza e
di riflesso per alcuni settori della classe lavoratrice.

In questi anni il PCI da il suo sostanziale avallo alle politiche repressive dei vari ministeri dell’interno, compresa la famigerata legge Reale[1], non procede mai ad un’esplicita denuncia della strategia stragista messa in campo dallo stato italiano da Piazza Fontana in poi preferendo la divulgazione dell’oscena teoria degli opposti estremismi. Teoria, questa, che permetteva di colpire indistintamente tutto quelli che si muoveva a sinistra del PCI accusandoli di essere degli “oggettivi provocatori” al soldo della reazione e nei fatti comparandoli alle varie organizzazioni neofasciste stragiste operanti in quegli anni. L’apice di questa politica autenticamente antiproletaria in quanto tesa a colpire tutti coloro che si muovevano sul terreno dell’autonomia di classe e dell’autogestione, nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole, si raggiunge nella seconda metà degli anni ’70, grazie all’alleanza con alcuni settori del policefalo apparato dell’antiterrorismo, ovvero dei promotori del terrore di stato. E qua possiamo assistere al ministro dell’interno ombra del PCI, Pecchioli, che cede le informazioni sulla sinistr extraparlamentare, molto dettagliate e costituite da decine di migliaia di schedature, al generale Dalla Chiesa e all’approvazione dell’invio dei blindati a Bologna per sedare la rivolta del marzo 77. Inoltre dopo le crisi petrolifere vi è una forte crisi dell’economia italiana con compressioni del salario e inflazione galoppante. La risposta del PCI, il partito che in via teorica rappresenterebbe gli interessi dei decine di milioni di proletari? Adesione alle politiche di austerity volute dalla DC, stretta sul controllo dell’apparato sindacale della CGIL, blande proposte di miglioramenti della scala mobile. Timido riformismo davanti ad un pesante attacco alle condizioni di vita dei lavoratori.

Il cerchio è chiuso: il PCI si accredita per poter entrare nella stanza dei bottoni. E così sarebbe stato se non vi fosse stato l’affaire Moro, che elimina il principale interlocutore del PCI in campo democristiano. L’adesione del PCI al “partito della non trattativa” e la fine della corrente morotea dentro la DC, segnano la fine del compromesso storico e apre la strada al governo Andreotti e Cossiga prima e poi all’egemonia del PSI craxiano che perdureà per tutti gli anni ottanta.

Il PCI berlingueriano ha bisogno di riaccreditamento a sinistra e questo spiega il perchè dell’adesione al ciclo di lotte sindacali dei primi anni ottanta che ebbero il loro fulcro nella vertenza, fallimentare, alla FIAT che vedeva gli operai metalmeccanici opporsi alla ristrutturazione aziendale che prevedeva tagli decine di migliaia di posti di lavoro.

Un’esperienza, quella berlingueriana, che anche in un ottica partitica andrebbe definita come fallimentare, quindi. Figuriamoci in un ottica di classe.

In questa prospettiva è evidente che Berlinguer è stato un nemico delle istanze di classe, nella migliore tradizione stalinista (e non contateci degli strappi con l’URSS e dell’Eurocomunismo che sono stati più virtuali di quanto si pensi, dato chei cordoni della cassa del PCI fino alla fine stettero nelle mani di Mosca).

Il recupero della sua figura, la sua beatificazione laica, degli ultimi anni è puramente funzionale alla creazione di un immaginario pacificato in cui le questioni molto materiali che la barbarie capitalista ci pote davanti quotidianamente vengono sussunte in presunti questioni morali (ricorda qualcuno?) e di onestà.

In un’ottica di oratorio, rosso o bianco, Berlinguer sicuramente sarà stata una brava persona, non risulta che si sia mai intascato una mazzetta (anche se non possiamo rilevare che costui abbia sempre vissuto e campato all’interno di un apparato separato quale il PCI mentre pretendeva di parlare a nome degli sfruttati). In un ottica anarchica e di classe Berlinguer è stato sicuramente un nemico. Lo è stato allora con la sua opera e lo è ora con il mito costruito su di lui.

lorcon

[1] Il PCI votò inizialmente contro l’approvazione della legge in parlamento ma diede indicazione di votare no al referendum abrogativo proposto nel 1978

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Una vittoria annunciata

Il seguente articolo verrà pubblicato sul numero 19 anno 94 di Umanità Nova

Riflessioni sul voto in Emilia Romagna

Vittoria annunciata

Nuovamente l’Emilia Romagna si è mostrata come la regione il PD ha conseguito i migliori risultati (52,51% alle europee) elettorali e quella con meno astensionismo (30,1%)[1].

Nei fatti a livello regionale il Partito Democratico non può perdere. La struttura dell’Emilia Romagna è stata plasmata dal PCI-PDS-PD, che ha degli addentellati nel substrato materiale di prim’ordine.

L’universo Legacoop-Unipol-Unicredit è uno dei maggiori attori economici italiani. Sia nel campo dell’economia classica (industria, logistica, distribuzione) che nel campo dell’economia finanziaria (assicurazioni, banche) questa galassia è uno dei principali soggetti in Italia. E il Pd è organicamente collegato a questa consorteria: buona parte degli esponenti, basti pensare a Bersani, sono passati dai quadri direttivi della Legacoop.

È impossibile stimare quante sono le persone che, nella sola Emilia Romagna, lavorano nel o per il sistema cooperativo. Nei fatti tutti i settori economici vedono la presenza di questo raggruppamento: la grande distribuzione (Coop Estense, Coop Nord-Est), i servizi logistici (Coopservice su tutti, ma anche decine di piccole cooperative), il terzo settore (centinaia di cooperative sociali per un totale di 27mila dipendenti e un miliardo di € annui al 2013[2]), l’istruzione con i soldi erogati alle università e la gestione dei servizi all’interno di queste, il settore finanziario (Unipol-Unicredit), le costruzioni di grandi opere sia infrastrutturali che urbane (Coopsette, Orion, CMC). Parliamo comunque di centinaia di migliaia di persone che gravitano intorno a questi grandi attori. Parliamo di un giro di affari da miliardi di euro. E sopratutto parliamo di un apparato in grado di esprimere da solo buona parte della classe dirigente del paese.

A queste basi materiali bisogna aggiungere una serie di fattori “culturali”.

L’apparato di propaganda del PD in Emilia Romagna è fondamentalmente lo stesso del PCI dei tempi d’oro. Se c’è un posto in Italia dove si può studiare l’evoluzione del discorso pubblico e la pervasività dei processi di egemonia culturale messi in opera da un partito politico quello è l’Emila-Romagna. In questa regione chi vota PD è convinto di votare a sinistra. La capacità di formare un immaginario collettivo, di creare il mito di una Emilia-Romagna Felix in cui i conflitti sociali sono sussunti e risolti in positivo da un partito che controlla sia l’apparato produttivo che quello sindacale, in cui la crescita e lo sviluppo generino cicli virtuosi per tutti, è uno dei motivi per cui il PD, a fronte di una generale flessione dei voti, data dall’astensionismo aumentato del 6%, continui a tenere saldamente le redini della regione.

E mantiene, anche se meno rispetto ai tempi della FGCI, la capacità di captare e catturare forze giovanili, offrendo finanziamenti, visibilità, spazi all’associazionismo. Anche qualora questo si mostri un minimo critico la politica, sedimentata in sessanta anni di pratica di governo, è quella di fargli balenare davanti la speranza di finanziamenti e sedi e sopratutto di fargli pensare di essere tenuti in considerazione. Comprare i possibili oppositori e convincerli di essere un interlocutore affidabile è un ottimo modo di disinnescare il conflitto e di creare reti di clientela.

Nei fatti l’ER è stata per anni una delle regioni all’avanguardia per le politiche sociali, disoccupazione bassa, finanziamenti regionali ai fondi per chi ha perso il lavoro, realtà economiche in espansione in grado di assorbire la forza lavoro e di richiederne dall’estero. Poco importa che questa forza sia stata costruita sulla distruzione dell’ambiente: il tasso di cementificazione più alto d’Italia, l’aria più inquinata d’Europa dopo la Rhur (con la differenza che nella regione tedesca si produce acciaio e si estrae carbone mentre qua no), opere infrastrutturali inutili e una cifra non quantificata, ma altissima[3], di vani abitativi vuoti in quanto costruiti in eccesso rispetto alle reali esigenze.

Ma i morsi della crisi si fanno sentire anche qua: il mito della regione felice è duro a morire ma non potrà che declinare di fronte alle decine di migliaia di cassintegrate, degli esodati, dei disoccupati, di centinaia di piccole-medie imprese che falliscono o delocalizzano.

E le lotte sociali cominciano a riprendere, seppure in sordina e limitate a pochi settori, come quello delle coop logistiche. Eppur si muove, viene da dire. Ma la strada per generalizzare le lotte e mettere in discussione qui e ora la governance del PD è ancora lunga e irta di ostacoli.

Scontrarsi con il sistema di potere dell’apparato piddino significa mettersi contro ad un soggetto che controlla sia gli apparati repressivi, grazie alla presenza al governo, che l’opinione pubblica. È una sfida che non si può non cogliere e rilanciare.

lorcon

[1] http://tinyurl.com/offgho3

[2] http://tinyurl.com/lnuk6fv

[3] solo a reggio emilia sono stimati settemila appartamenti sfitti

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Il ricollocamento dell’estrema destra italiana

questo articolo apparirà sul numero 11 anno 94 di Umanità Nova

Neofascismo e Russia: un’ipotesi di studio

 Il ricollocamento dell’estrema destra italiana

È fatto oramai appurato che l’estrema destra italiana dia un forte appoggio a Putin[1]. A nostro parere vi sono due ordini di motivi che spiegano questa scelta di campo.

Innanzi tutto vi sono dei motivi di ordine ideologico: l’idea di stato forte, il corporativismo, la figura dell’uomo forte, la politica di potenza e altri topoi cari all’estrema destra ben si incarnano nella figura di Vladimir Putin. Così come la rinascita della Russia dopo un decennio, quello degli anni ’90, segnato dalla frammentazione politica ed economica creata dagli oligarchi, dal fallimentare primo conflitto in Cecenia e dalla presidenza di Eltsin, segnata, sopratutto negli ultimi anni, da una serie di figure barbine, imputabili anche all’alcoolismo del presidente, rappresenta bene l’idea di “Rinascita Nazionale”.

Anche il connubio tra il partito di Putin e la potente chiesa ortodossa, garante del tradizionalismo e della reazione in campo sociale, rappresenta una forte calamita per quei gruppi, come Forza Nuova o Militia, più vicini ad una concezione clericale del fascimo (e che infatti si rifanno al rumeno Codreanu).

Così come l’opposizione della Russia putiniana all’ipotesi statunitense di ordine globale neoliberale ma anche alla modernità, intesa in senso illuminista, è un potente richiamo per i fascisti. Da un punto di vista ideologico è, quindi, quasi naturale la preferenza per Vladimir Putin.

Ma a parere di chi scrive è necessario anche analizzare un altro aspetto: quello più materiale. Sopratutto alla luce della recente crisi ucraina che ha aperto una serie di contraddizioni all’interno dell’estrema destra europea. Ma partiamo dall’inizio.

Il neofascismo italiano nel secondo dopoguerra è stato quello che, nel panorama europeo, maggiormente si è schierato sull’asse atlantico. Al di là delle parole d’ordine terzoposizioniste è oramai palese, alla luce del materiale documentale e delle testimonianze, che le formazioni di estrema destra erano subordinate ai giochi dell’atlantismo più reazionario, ivi compreso quello della corrente dorotea della DC. Le ipotesi di colpo di stato degli anni ’60-’70 che avevano nella destra italiana la base d’appoggio erano avvallate da Washingtong, le organizzazioni stay-behind come Gladio e Rosa dei Venti erano finanziate dalla CIA. E non è un caso che quando Fiore e Morsello, successivamente fondatori di Forza Nuova, devono riparare all’estero, a causa del tentativo dello stato italiano di rifarsi una “verginità antifascista” nel quadro del compromesso tra PCI e DC, trovano asilo in Inghilterra dove, protetti dai servizi segreti di sua maestà, faranno una discreta fortuna come imprenditori immobiliari.

Ma con la fine dell’Unione Sovietica e dei suoi governi satellite tutto cambia: il neofascismo non è più necessario. Non vi è più bisogno di progetti controinsurrezionali o di controrivoluzione preventiva in senso novecentesco. L’ordine monopolare degli anni ’90 non ha più bisogno di questi personaggi che pertanto rimangono disoccupati.

Ma nel primo decennio del terzo millennio la situazione cambia. Innanzi tutto si assiste alla rinascita della Russia di cui sopra. Secondariamente l’Italia, per mano dei governi Berlusconi, molto meno atlantisti di quanto comunemente si pensi, si avvicina alla Russia, diventando uno dei maggiori partner commerciali del paese.

In quest’ottica è possibile spiegare il vero e proprio voltafaccia del neofascismo italiano. Perso il riferimento “occulto” ad ovest si girano verso est. E questa volta neanche devono nascondersi.

È noto oramai che il fascismo più che essere un’ideologia in senso proprio è un insieme di idee, o per meglio dire di miti e di parole senza referente, al servizio del miglior offerente. Negli anni ’20 delle grandi borghesie nazionali che lo usarono per soffocare le possibili rivoluzioni sociali, pur pagandone, sopratutto nel caso tedesco, loro stesso il costo. Nel dopoguerra al servizio dell’atlantismo. Ora al servizio di un altro potere, quello che ha più appeal, per ragioni ideali e monetarie.

Il caso ucraino è esemplare in quest’ottica: laddove il fascismo italiano si è schierato compattamente a fianco della Russia il fascismo ucraino si è schierato, nei fatti, con l’Unione Europea (anche se c’è da scommettere che a breve diventeranno degli alleati un po’ scomodi, con il loro chiasso folkloristico). Da un lato questo è comprensibile per le storiche rivalità tra Russia e Ucraina. Ma dall’altro mostra con evidenza come i fascisti siano fondamentalmente mercenari del capitale.

E questo al di là del fatto che il fascismo possa dichiarsi “antimperialista” o “anticapitalista”. La politica fascista storicamente si è data come imperialista e capitalista. Imperialista per evidenti ragioni, conquiste coloniali e guerre europee. Capitalista perchè nei fatti il fascismo ha rappresentato gli interessi di una parte della borghesia davanti alle lotte portate avanti dai lavoratori. E questo è ben evidente analizzando la politica di compressione dei salari e aumento dei profitti durante il ventennio in Italia o guardando al connubio tra fascismo e neoliberismo negli ultimi anni del franchismo in Spagna.

Inoltre il caso ucraino dimostra chiaramente come i nazionalismi, e i fascismi, siano necessariamente forieri di guerre. Due stati, tanto più se con politiche fortemente nazionaliste, non possono facilmente convivere confinando. E sappiamo bene chi è che ne fa le spese in questi casi.

lorcon

[1] si veda la rassegna degli orrori descritta in questo ottimo articolo di Leonardo Bianchi su Vice: http://www.vice.com/it/read/italiani-che-sostengono-putin-destra

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Gli avvoltoi e internet

Pubblico di seguito un contributo del compagno Aa. Rigorosamente anonimo, così come (quasi) rigorosamente anonimo è chi gestisce questo blog.

L’uso mediatico dei suicidi per propagandare la censura

 

Gli avvoltoi e internet

 

 

Voi vi buttate sul disastro umano
col gusto della lacrima in primo piano.
G. Gaber “Io, se fossi Dio”

 

Grande scalpore ha destato la vicenda della ragazzina di Cittadella suicidatasi. Scalpore non per il suicidio in se’, che è tra le prime cause di morte tra gli adolescenti, e questo dovrebbe far riflettere, ma per il presunto colpevole: internet e i social network.

 

 

Non è la prima volta che a seguito di un tragico fatto “di cronaca” si scatena una canea mediatica con orde di giornalisti e presunti “esperti” che lanciano appelli per un maggior controllo del web e contro l’anonimato. Tra i principali sostenitori della tesi che i social network possano essere causa di suicidio abbiamo diversi autori del gruppo La Repubblica – L’Espresso. Sarebbe interessante capire se dietro a questo vi è una semplice mancanza di comprensione di alcuni basilari meccanismi del web e della mente umana o una vera e propria malafede. In mancanza di dati sospendiamo la questione.

 

La tesi propagandata da questi “esperti” (di cosa?) sarebbe che l’anonimato on-line sarebbe pericoloso in quanto permette di lanciare accuse, insulti e quanto altro senza assumersene la responsabilità.

 

Peccato che costoro non riescano a comprendere che la possibilità di anonimato sia garanzia di libertà, che il potersi scegliere un’identità sia libertà. Libertà dalle censure (e dalle auto-censure), presenti anche in Italia, nonostante quello che sostengono questi figuri, per i quali l’anonimato è giusto solo in paesi dittatoriali. Libertà di scegliersi una maschera, un’identità, una controfigura in una società permeata da bigotto paternalismo.

 

Chi scrive non è dell’idea che il web renda automaticamente liberi, anzi è fortemente critico verso questa tesi, ma è dell’idea che un uso sociale e liberatorio delle tecnologie sia una strada da percorrere.

 

Tornando alla questione principale non possiamo non rilevare diversi punti critici della tesi spacciata a gran voce e con fiumi di inchiostro da De Benedetti & Co.

 

Intanto, si, i social network permettono l’insulto libero. Non è una novità: si basano spesso sull’azione immediata e non meditata, sull’infotaiment, sull’emotività, sulla viralità. Non è niente di nuovo e anche i media nostrani sono stati prontissimi a sfruttare questi aspetti quando faceva comodo ai loro interessi. Chi ha contribuito allo sviluppo di una cultura di questo tipo sono gli stessi che ora lanciano acuti gridi di orrore. Quindi tacciano, gli ipocriti.

 

Secondariamente no, i social network e le sue dinamiche non spingono al suicidio. Non esiste nessuna seria ricerca che affermi questo. E la correlazione causale riportata da la Repubblica del 12 Febbraio che riporta i casi di una decina di adolescenti suicidatisi e che avevano ricevuto insulti su Ask.Fm non ha senso. Non è assolutamente statisticamente rilevante e manco dimostra che vi sia un’effettiva correlazione.

 

In terzo luogo: nessuno si ammazza perchè è stato insultato da degli sconosciuti su un sito. Al massimo questa può essere una concausa. Se un ragazzino lancia richieste di aiuto su internet e su internet trova insulti la colpa è del fatto che l’ambiente che gli sta intorno, famiglia, scuola, gruppo dei pari, non è stato in grado di fornigli aiuto. Se un’adolescente si suicida lo fa perchè clinicamente depresso. E la cosa che fa veramente orrore è leggere dichiarazioni di parenti e amici che affermano “non lo sospettavamo, non potevamo immaginare”. Perchè vuol dire che vi è una totale mancanza della cultura del disagio psichico. Perchè vuol dire che non si è in grado di riconoscere i segnali di disagio negli altri. E questa non è una novità: lo stigma della “malattia mentale” continua a persistere nella nostra società. Chi dice chiaramente di avere un problema psicologico, per quanto comune come la depressione, finisce automaticamente nel ghetto dei “diversi”, degli “alienati”. Viene o iper-responsabilizzato per la sua condizione o completamente de-responsabilizzato delle sue azioni. Viene indicato come l’”incapace di intendere e di volere”. Avete mai parlato con un paziente psichiatrico istituzionalizzato? Ebbene, questo, lo stigma sociale è una delle cause di maggiore sofferenza. Spesso più delle psicosi o delle depressioni gravi. E dire che Asylum di Goffmann è stato pubblicato quasi sessanta anni fa, le opere di Foucault 40 anni fa e la legge Basaglia ha oramai 30 anni. Perle ai porci, verrebbe da dire. Dopo decenni di acuta riflessione sulla malattia mentale ci troviamo davanti a una banda di mentecatti incapaci di capire che il disagio psicologico è dovuto sopratutto a storture sociali.

 

Volete davvero porre un freno ai suicidi? Volete porre un freno al disagio psichico? Smettetela di massacrare con i tagli i Centri Psico-Sociali, le strutture di prossimità che dovrebbero dare l’assistenza immediata a chi si accorge di avere un problema, smettetela con l’approccio puramente farmacologico, pensate a che cosa non funziona in questo sistema di vita.

 

Perdersi in chiacchiere su quanto sia cattivo il web e l’anonimato è da amanti della lacrima facile e dell’emotività. Preclude il ricorso a strumenti razionali e apre le porte alle peggio censure; perchè non crediate che i disegni censori servano veramente a ridurre il numero di ragazzini che si ammazzino. Servono a colpire la dissidenza e le opinioni che non si uniscono ai cori belanti.

 

Piccola nota autobiografica:

 

Chi scrive ha iniziato navigare sul web più di dieci anni fa, quando si trovava in quell’età definita critica che è l’adolescenza. E ha sempre preferito i siti, le reti, le “community”, si direbbe ora, dove si poteva essere anonimi. Di insulti ne ha ricevuti e distribuiti molti. E no, non ha mai pensato a lanciarsi dalla finestra per questo. E questo non perchè è un ubermenshen o un duro rotto ad ogni esperienza. E manco perchè pensa che vi sia una distinzione tra reale e virtuale (anzi, è convito del contrario). Ma perchè quando aveva un problema aveva qualcuno con cui parlarne, qualcuno che l’aiutasse a razionalizzarli, qualcuno con cui confrontarsi.

 

Ed è questo, a sua opinione, che manca a chi si ammazza. Una società che genera suicidi è una società omicida. Il sistema in cui viviamo è il primo generatore di disagio, di alienazione, con le sue strutture sociali orripilanti, con la concezione dell’uomo come homo-economicus.

 

Politici, giornalistoidi, opinionisti tuttologi che chiedete censura: se volete cercare una causa per questi drammi guardatevi intorno. E guardatevi allo specchio.

 

 

Aa

 

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Le aporie della sperimentazione animale

Il seguente articolo comparirà sul numero 1 anno 94 del settimanale anarchico Umanità Nova. 

Interessi economici, disinformazione e ricerca

LE APORIE DELLA SPERIMENTAZIONE ANIMALE

Nelle ultime settimane il dibattito sulla sperimentazione animale[1] in Italia ha ripreso di vigore, alimentato dalla vicenda di Caterina Simonsen, ragazza venticinquenne, affetta da una rara malattia genetica che ha aderito ad un appello a favore della sperimentazione animale e che ha raccolto, come risposta, alcune decine di commenti a base di insulti ed auguri di morte.

Il dibattito è quindi stato spostato: dal dibattito su una questione di bio-etica, ma anche di scienza ed economia, si è trasformato in un dibattito “morale” sulla cattiveria degli “animalisti”, ribattezzati “nazianimalisti” per non farci mancare l’ennesima reductio ad hitlerium, che insultano la povera ammalata.

Il fatto che poi alcuni organi di informazione mainstream, la Repubblica su tutti, abbiano rilanciato la vicenda con articoli di una banalità impressionante ha ulteriormente impantanato la discussione.

Da questo dibattito è emerso quasi di tutto tranne i punti fondamentali per qualsivoglia discussione seria su questi temi:

  • questione etica: è eticamente giusto asservire un essere senziente e farlo vivere nel dolore per scopi di ricerca anche qualora questo permetta di salvare altre vite? Quali devono essere i legami infra-specie?

  • questione tecnico-scientifico: esistono metodologie di ricerca alternative valide quanto se non di più rispetto alla sperimentazione animale? È legittimo prevedere la possibilità che queste metodologie siano implementabili in un futuro prossimo?

  • questione economica: quali interessi economici e di potere si muovono con la sperimentazione animale? L’apparato accademico è disponibile ad utilizzare protocolli di ricerca che non prevedono l’uso della sperimentazione animale anche qualora questi si dimostrino antieconomici nel primo periodo (qualsiasi innovazione tecnologica introdotta rapidamente prevede dei costi di implementazione elevati) e sopratutto anche quando questi metodi scardinino le attuali baronie accademiche?

  • quale è stato il ruolo dei media mainstream in questa vicenda? Quale è stata la sua genealogia?

Le risposte alla prima domanda che vengono date da parte di chi è favorevole alla S.A. generalmente latitano o si riducono a qualcosa tipo “io valgo più di un topo”. Quando si chiede di giustificare questa affermazione si osserva all’esposizione delle più astruse teorie: si va dal patetico “sono nati in uno stabulario, sono nati per essere sacrificati” al sempreverde “io sono senziente e un topo no”. E questo apre un’ulteriore riflessione: intanto è facile giustificare il proprio dominio quando ci si trova già in una posizione di dominio; secondariamente le neuroscienze e il dibattito su cosa sia senziente o meno sono una questione seria ed è troppo comodo dichiararsi unilateralmente senzienti e farne da qua discendere il diritto di reificare un’altra forma di vita. Da un punto di vista squisitamente logico l’unica giustificazione a un simile comportamento è: “perchè è mia volontà”.

Qualsiasi altra giustificazione è insensata in quanto viziata da una visione di derivazione mistica del ruolo dell’uomo all’interno di un ecosistema complesso che della specie umana, figuriamoci dei singoli individui, in ultima analisi, se ne frega. Ma rispondere “perchè è mia volontà” o “è mio piacere farlo” non è una giustificazione valida per chi sente il bisogno di una giustificazione morale che possa essere universalmente accettata e di conseguenza si preferisce costruire degli abomini logici e delle speculazioni insensate sull’autocoscienza e sulle capacità senzienti. Speculazioni che però non possono decostruire questi concetti perchè nascono proprio dalla necessità di non dover definire il concetto di intelligenza pena il crollo del costrutto morale che giustifica la SA. Siamo di fronte ad un evidente caso di autogiustificazione, un gigantesco bias logico.

A parere di chi scrive questo è dovuto anche alla totale mancanza di formazione in campo epistemologico-filosofico in chi lavora nell’ambito della ricerca biomedicale e, in generale, dalla mancata consapevolezza che il confine tra filosofia e scienza è meno netto di quel che si possa pensare.

Il secondo punto è di difficile discussione in questa sede: metodologie di ricerca alternative si sono ampiamente sviluppate negli ultimi anni ed è probabile che grazie allo sviluppo delle bionanotecnologie, dell’ingegneria genetica e di altre tecnologie, come la possibilità emersa nell’ultimo lustro di stampare letteralmente dei tessuti, queste metodologie alternative prendano ulteriormente sostanza. Già adesso con l’uso delle coltivazioni cellulari in vitro e di bioreattori si potrebbe fare a meno della SA per molte ricerche. Rimane il problema di testare le risposte sistemiche di una sostanza all’interno di un intero organismo: e appunto a questo servirebbero le già citate tecnologie in corso di sviluppo.

I problemi tecnici molto probabilmente saranno superabili nel giro di pochi anni se si deciderà di puntare sulla loro risoluzione. Ma questo è un problema di ordine economico, etico e politico. Non può essere la concezione tecnica acefala finalizzata alla riproduzione di se’ stessa al momento imperante all’interno dei laboratori di ricerca a dare questa spinta. La spinta va fornita dall’esterno.

E qua arriviamo al terzo punto. Sulla sperimentazione animale si sono costruiti la carriera migliaia di ricercatori tra cui svariati baroni universitari. Costoro e i loro addentellati politici costituiscono lo zoccolo duro che oppone resistenza all’introduzione di maggiori fondi per metodologie alternative di ricerca. In un momento in cui vi è un taglio generalizzato di finanziamenti costoro vedono con estrema preoccupazione la possibilità che una quantità maggiore di fondi economici vada a dare copertura alla loro concorrenza. Il fatto che recentemente sia stata recepita una direttiva europea (la 2010/63) che stabilisce di finanziare maggiormente, rispetto a quanto fatto finora, la ricerca che non usa animali ha letteralmente gettato nel panico intere cordate di potere all’interno del mondo accademico.

Cambiare modelli di ricerca significa sia uno sconvolgimento di paradigma enorme e c’è chi ha l’interesse materiale che questo non avvenga. E questo succede anche a scapito della possibilità di costruire metodologie più efficaci nel campo della ricerca biomedicale.

Si consideri, inoltre, che una buona parte della ricerca viene fatto con il semplice scopo di produrre pubblicazioni che a loro volta produrranno punteggio nei concorsi e grant di ricerca. Alcune ricerche sono fatte semplicemente cambiando leggermente la composizione di un principio attivo, sapendo benissimo che questo avrà gli stessi effetti della molecole di partenza: ma in questo modo si giustificano i fondi per una “nuova” ricerca.

È qua che entra in campo la mobilitazione politica e sociale intorno a questi temi: per spingere nella direzione di espandere altre metodologie chi lavora nell’ambito della ricerca e chi controlla i cordoni della borsa sarà solo la costruzione di rapporti di forza in tal senso.

È, inoltre, necessaria una più ampia operazione culturale che rifletta intorno al rapporto scienza-tecnica-società. Per quanto molti ricercatori amino dipingersi come scienziati in una torre di avorio intenti nell’edificazione delle “magnifiche sorti e progressive” la ricerca scientifica è immersa nella relazioni sociali e ad esse contribuisce. Dal momento stesso in cui la ricerca è asservita all’interesse materiale di un gruppo ristretto di persone essa va incontro ad una serie di problemi: da un lato diventa uno strumento finalizzato allo sfruttamento, dall’altro degrada al livello di tecnica, pregna di ragione strumentale, efficace sul breve periodo ma non efficiente sul lungo. Alla lunga ne risente lo stesso processo scientifico in quanto alcune ricerche e alcuni metodi scientificamente funzionali vengono cassati in quanto non funzionali alla riproduzione dei rapporti di potere esistenti. I problemi sollevati dalla scuola di Francoforte, specialmente da Adorno e Horkheimer con la loro opera “La dialettica dell’illuminismo”, permangono e vanno necessariamente affrontati.

Punto fondamentale, a mio parere, è la necessità di un superamento dialettico dell’impasse creato dalla degenerazione della razionalità in ragione strumentale e in tecnica acefala. E questo sarà possibile solo tramite un’adeguata riflessione su questi temi e la costruzione di rapporti di forza in grado di promuovere un cambiamento. E questo vale per tutti gli ambiti della ricerca, non solo quelli che prevedono l’uso della SA. Il dominio tecnico sul mondo va scardinato e non in ragione del ritorno a una concezione tradizionalista e antimoderna ma in ragione di un suo superamento che sappia conservare ed ampliare le conquiste tecnologiche ottenute, onde usarle per una reale liberazione dallo stato di necessità di sempre più persone oltre che per la costruzione di un diverso rapporto con l’ecosistema. E questo può avvenire solo insieme alla costruzione di un’etica che si sappia intrecciare e sostenere reciprocamente con questo cambiamento, un’etica basata sul mutuo appoggio e su legami di solidarietà e non di dominio.

Dopo questo doveroso excursus, arriviamo all’ultimo punto: come i media hanno affrontato questa vicenda. Chi scrive non si stupisce affatto che, togliendo alcuni buoni esempi, sia mancata completamente una decente riflessione sulla questione: è oramai fatto noto che il giornalismo italiano è totalmente incapace di esprimere qualcosa in qualsiasi ambito. Sopratutto quando si parla di argomenti che tocchino temi complessi il giornalista medio va in totale confusione. Oltre a questo bisognerebbe addentrarsi nei rapporti esistenti tra redazioni e certe cordate esistenti nel mondo accademico. Ma in mancanza di dati sospendiamo il giudizio su questa questione rilevando, senza stupore alcuno, la totale mancanza di trasparenza.

È comunque doverosa una riflessione su come per l’ennesima volta si sia potuto assistere alla mobilitazione di ampie forze nel diffondere memi a favore della sperimentazione animale e tendenti ad appiccicare etichette riduttive nei confronti di chiunque provasse a portare una visione critica.

Infotaiment, condivisione di informazioni su base emozionale e spettacolarizzazione sono stati gli ingredienti base per questa zuppa insipida. Per qualunque persona abituata ad osservare i processi informativi tipici del web è evidente come il caso della Simonsen, di se’ nulla di particolare, data l’abitudine all’insulto presente su certi social network, sia stato gonfiato ad arte da una serie di opinion-maker che l’hanno trasformato in un caso “virale”. E tutto questo in spregio ad una qualsiasi riflessione minimamente razionale sulla vicenda.

Abbiamo potuto assistere ad una sequela di personaggi che dall’alto dei loro profili su Facebook si producevano in spettacolari florilegi di luoghi comuni rendendo evidente come la battaglia su questo tema, come su molti altri, dovrà essere in buona parte una battaglia culturale.

lorcon

[1] Per comodità, e volendo evitare polemiche, in questo articolo ho deciso di usare il termine sperimentazione animale e non vivisezione. Spesso, da parte di chi è favorevole alla S.A., viene contestato il termine vivisezione ma i due termini, Treccani alla mano http://www.treccani.it/vocabolario/vivisezione/, coincidono. È inutile dire che il termine “vivisezione” è maggiormente di impatto rispetto a “sperimentazione animale” ed è chiaro perchè c’è chi spinga perchè venga usato il secondo termine. La lezione orwelliana sul linguaggio è stata introiettata da molti.

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occhio

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Genealogia della violenza poliziesca

PREMESSA: In anteprima il mio pezzo che apparirà sul numero 33 anno 93 di Umanità Nova. 02_repression.sizedIl pezzo, scritto di getto qualche giorno fa mentre ero in preda al demone della polemica, nasce dall’esigenza di analizzare da un punto di vista materialista, di classe e antiautoritario i motivi che hanno portato ad un aumento spropositato dell’uso della violenza da parte della polizia statunitense e al suo dotarsi di mezzi militari degni di un esercito. L’articolo vuole anche essere una critica a quel non-pensiero moralista, ignorante e bigotto, tipico della sinistra italiota in merito alla questione della violenza negli USA. Ogni volta che succede un fatto di sangue dobbiamo subirci le minchiate dei vari Zucconi su quanto siano brutte e cattive le armi e quanto sia immorale la violenza. E queste stupende pensate del think-tank de la Repubblica altro non sono che pensate funzionali al mantenimento dello stato delle cose.

Follow the money

GENEALOGIA DELLA VIOLENZA POLIZIESCA

Negli ultimi decenni negli Stati Uniti abbiamo potuto assistere ad un fortissimo incremento delle violenze da parte della polizia sia verso “comuni cittadini” che verso “presunti criminali”. Violenze puntualmente nascoste sotto la coperta dai media italioti, che preferiscono affrontare in modo superficiale e facilone certi aspetti della cultura statunitense.

L’ultimo caso balzato all’onore delle cronache, con una lieve risonanza sui giornali italiani, risale al 23 ottobre: due poliziotti di pattuglia a Santa Rosa (California) hanno freddato con sette colpi di pistola un ragazzino tredicenne, Andy Lopez, che girava con un’arma giocattolo[1]. Al momento non è ben chiara la dinamica dei fatti, i poliziotti sostengono che l’assassinato abbia puntato il simulacro di arma verso di loro, ma è evidente uno sproporzionato uso della forza: qualsiasi persona capisce che per fermare un ragazzino, anche realmente armato, non è necessario svuotargli addosso mezzo caricatore di proiettili Full Metal Jacket nove millimetri. Le cronaca statunitensi degli ultimi anni sono piene di fatti simili, in molti casi ancora più paradossali: solo negli scorsi mesi abbiamo potuto leggere di parlatici ammazzati dalla polizia perchè resistevano a sfratti, famiglie intere torturate a colpi di Taser (uno storditore elettrico inizialmente classificato come non-letale e ora riclassificato come semi-letale), disabili in carrozzella ammazzati perchè “sembrava che avessero un coltello in mano”, ragazzi uccisi in casa durante raid anti-droga, generalmente basati su delazioni anonime, condotti con squadre tattiche (SWAT) alla ricerca di due piante di marjuana [2]. Per non parlare della lunga sequela di torture e abusi, anche sessuali, nei carceri, per minori e no. O delle violenze, che fanno molto meno notizia, perchè le vittime sono generalmente criminali comuni di bassissima estrazione sociale, che avvengono nei ghetti delle grandi città e nelle centrali di polizia.

I singoli stati e il governo federale si stanno svelando per quello che sono: spietati killer seriali.

A parere di chi scrive questi temi non si possono affrontare con piglio moralistico o con la malsana idea delle singole mele marce nella polizia. È necessaria un’operazione che ricostruisca genealogicamente i meccanismi sociali dietro a questi epifenomeni.

L’aumento della militarizzazione della società statunitense è da ricercarsi nelle politiche economiche e sociali portate avanti negli ultimi 40 anni. Con Nixon partì la War on Drugs, la politica di inasprimento delle pene per reati legati a detenzione, consumo, produzione e spaccio di stupefacenti. Politica che portò all’aumento esponenziale della popolazione carceraria, senza far diminuire la diffusione di droghe, sopratutto pesanti. Questa politica venne successivamente rafforzata da Reagan, di pari passo con l’imposizione dell’ordine neo-liberista: dalla guerra alla povertà si passa alla guerra ai poveri. Lo smantellamento di tutti i baluardi del welfare state statunitense, fino agli anni ’70 difeso sia da Democratici che da Repubblicani, la distruzione della sanità pubblica a favore di quella privata (e della finanziarizzazione della assicurazioni mediche), la diminuzione dei salari minimi, la completa distruzione delle organizzazioni dei lavoratori, la gestione della città con la creazione di centri urbani iper-blindati, come la down-town losangelina, la ghettizzazione dei poveri[3], la diminuzione delle case popolari, la suburbanizzazione del ceto medio, hanno portato ad uno sfarinamento del tessuto sociale delle comunità o alla sua cattura all’interno di dinamiche di stampo speculativo e corporativo.

Tutto questo è dovuto passare, giocoforza, per la creazione di rapporti di forza in grado di supportare l’ordine neo-liberista. E i rapporti di forza sono anche di natura militare: ecco una delle cause di un corpi di polizia ipertrofici e iper-armati. Altra causa si deve ricercare, a mio parere, nel famoso apparato industriale-militare statunitense. La vera lobby delle armi non è quella di chi supporta il diritto costituzionale di formare milizie popolari armate e detenere e portare armi ma quella che fornisce un quantitativo enorme di tecnologie militari a governo federale e governi statali. E e non parliamo solo di armi leggere ma di armamenti pesanti e della tecnologia logistica necessaria a gestire forze armate: si consideri la sproporzione tra unità combattenti e addetti alla logistica, squilibrata verso le seconde; per non parlare del settore del military hi-tech, cuore pulsante della concezione bellica contemporanea di degli USA[4]. Questo complesso militare-industriale prospera grazie alla diffusione di guerre, interne ed esterne, di dispositivi carcerari, di militarizzazione dello spazio urbano. La gallina delle uova d’oro degli ultimi dieci anni è stata costituita dalle così dette armi non-letali, poi riclassificate in semi-letali; un poliziotto odierno negli USA è armato di: pistola, taser, spray OC, manganello o tonfa. Un armamento ridondante, per non parlare di tutta la pletora di istruttori, generalmente liberi professionisti, per un singolo uomo e che costa migliaia di dollari per singolo agente alle casse pubbliche. Soldi che vanno a rimpinguare i conti delle varie aziende fornitrici. Inoltre anche le più sperdute contee rurali si stanno dotando di forze tattiche, le squadre SWAT, dotate di armamento pesante. E ultimamente di mezzi blindati: il progressivo ritiro dai teatri di guerra afghani e irakeni ha prodotto un surplus di mezzi blindati per trasporto truppe, sovente armati (APC), che i dipartimenti di polizia e gli sceriffi si stanno affrettando a comprare[5]. Quale incredibili minacce debbano affrontare nelle zone rurali della Virginia non è dato a sapersi, ma intanto altre consistenti fette della spesa pubblica finiscono nelle casse private (al di là del costo del mezzo, che va alle casse federali, bisogna calcolare istruzione dell’equipaggio e manutenzione).

Altro passaggio fondamentale nella militarizzazione della società USA è stato dettato dall’infame Patrioct Act fortemente voluto da una maggioranza trasversale durante la presidenza di Bush II (per inciso: avete mai notato come nella politica statunitense il potere sia familiare? Kennedy, Bush, Clinton…) che ha fatto stracci di decenni di conquiste in campo di “diritti civili” permettendo internamenti a tempo indefinito senza processo, torture, spionaggio senza mandato o con mandato segretato. Queste politiche sono state riprese dall’attuale presidente Obama, come ben dimostra il caso PRISM, che, alla faccia delle promesse fatte durante due campagne elettorali, ha in inasprito la stretta autoritaria sulla società. A parere di chi scrive anche la proposta di parte democratica di ulteriori restrizioni sul diritto di possedere e portare armi va inserito in questo contesto, inoltre svolge la funzione di eccellente specchietto per “allodole liberal”.

La riforma della sanità, la così detta Obamacare, è stata una cura palliativa ed attualmente bloccata nella sua fase attuativa. Nei fatti a decine di milioni di residenti sul suolo statunitense è proibito l’accesso ad una sanità decente, con evidente guadagno delle assicurazioni e della sanità privata (generalmente facenti parti degli stessi gruppi di affaristi).

Tornando al punto della violenza poliziesca è evidente che la presenza di uno stato, che per definizione avoca a se’ il monopolio della violenza, che punta tutto sulla militarizzazione della società crea quelle che, in ambito militare, sono definibili “danni collaterali”. Il ragazzino, il disabile, il piccolo coltivatore di marjuana, sono le vittime collaterali della più ampia guerra condotta dallo stato contro non solo i poveri e gli esclusi ma contro i lavoratori in generale. Perchè non dimentichiamoci che il capitale e lo stato giocano in fase di attacco nel tentativo di disciplinare maggiormente la forza lavoro per aumentare il saggio di profitto.

La violenza poliziesca, negli USA come in Grecia o in Italia, si potrà eliminare solo con l’eliminazione delle cause ultime della sua riproduzione, ovvero le strutture gerarchiche.

La critica morale alla violenza, tanto cara ai commentatori italiani presenti negli USA, Zucconi[6] in testa, non porta assolutamente a niente. Sviscerare, anatomizzare, studiare e comprendere le dinamiche sociali è più che mai necessario in questi tempi. La sinistra istituzionale statunitense schierandosi totalmente a favore del neoliberismo ha letteralmente svenduto gli interessi del proletariato e del sottoproletariato urbano e rurale, che si è gradualmente avvicinato a quella oscena schiera di malfattori ultraconservatori, cristiani o laici, primi garanti, e spesso diretti gestori, della miseria e dell’alienazione di decine di milioni di individui. Altra chiave del successo di costoro è che con gli sfruttati condividono lo stesso linguaggio, mentre la sinistra si è persa nei voli pindarici del politically correct, genericamente bollato come insieme “stronzate da liberals” dalla working class (per inciso: i contenuti dei dibattiti della “sinistra” americana spesso sono stronzate da liberals). La scomparsa di forti movimenti di base, la famosa New Left degli anni ’60, generalmente libertaria, falcidiati dalla repressione, la conversione della già orrida sinistra istituzionale in garante del neoliberismo, l’onnipresente spirito dell’etica del lavoro protestante hanno letteralmente maciullato le condizioni di vita di milioni di persone [7].

Ampio può essere il terreno per l’intervento anarchico in queste situazioni. Ammesso che l’anarchismo americano riesca a liberarsi dalle visioni ultra minoritarie dell’anarchist-lifestyle già denunciato da Boockin. Con tutte le sue contraddizioni la diffusione di movimenti di stampo libertario come i vari Occupy e la ripresa, sia quantitativa che qualitativa, del sindacalismo radicale dell’IWW, che è stato capace di infilarsi nel settore dei “non garantiti”, lavoratori di Fast-Food e imprese di pulizia in testa, la ripresa di lotte ecologiche condotte da comunità locali con metodologie libertarie fanno ben sperare.

lorcon

note:

[1] http://tinyurl.com/policekills

[2] per un aggiornato elenco: http://www.policestateusa.com/

[3] per una disanima del rapporto tra militarizzazione degli spazi urbani statunitensi e povertà, nello specifico del caso losangelino: Mike Davis, Città di Quarzo, Manifesto Libri, 2008

[4] per una veloce introduzione alla concezione di guerra contemporanea statunitense e alla dottrina RMA: Alessandro dal Lago, Le nostre guerre, Manifesto Libri, 2010 e Carlo Jean, Rivoluzione Negli Affari Militari, Società Italiana di Storia Militare, 2013 (disponibile gratuitamente su scribd)

[5] http://tinyurl.com/policeapc

[6]Noto per i suoi articoli sul fenomeno della violenza che sembrano scritti da un serbatoio di melassa. Speriamo che non faccia come un famoso serbatoio di melassa a Boston, nel 1919.

[7] Si legga a tal proposito l’esemplare: Joe Bageant, La Bibbia e il fucile, cronaca dall’America profonda, Bruno Mondadori, 2010

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La rivoluzione è un processo, non un evento

Il seguente articolo è in uscita sul numero 25 di Umanità Nova, settimanale anarchico.

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“L’Egitto sta vivendo una seconda rivolu…” – “La rivoluzione è un processo, non un evento!”

Sono state settimane convulse in Egitto, con il presidente della repubblica Morsi, esponente di spicco della Fratellanza Musulmana, deposto dall’esercito in seguito a gigantesche mobilitazioni che hanno visto milioni di persone scendere in piazza in tutto il paese e violentissimi scontri con la polizia e i sostenitori della Fratellanza.

Le mobilitazioni contro il governo islamista, nominalmente moderato ma sostenuto fino agli ultimi giorni anche dai gruppi islamisti più oltranzisti, duravano oramai da mesi e si erano poste come sostanziale proseguimento delle proteste del 2011 che portarono alla caduta del trentennale governo di Mubarak e che avevano innescato il processo tuttora in corso. Ma, pur avendo mantenuto un carattere di massa per tutto il tempo, solo nell’ultimo mese sono riuscite a coinvolgere attivamente una quantità enorme di persone, anche al di fuori dei grandi centri urbani del Cairo, Alessandria, e Porto Said, provocando un’accelerazione dei processi politici che hanno poi portato alla destituzione di Morsi da parte dell’esercito. Accelerazione dovuta sia a quello che è stato evidentemente un “buon lavoro politico” da parte di chi nell’ultimo anno ha continuato ad animare piazza Tahir e gli altri centri nevralgici della contestazione sia alla crescente delusione in cui sono incorsi molti di coloro che avevano votato Morsi, accattivati dal suo volto di islamista moderato e pragmatico. Delusione che ha delle precise basi materiali: il tasso di inflazione ha ripreso a salire, con una previsione di crescita del 8,5% per l’anno corrente, a fronte del 7,1% del 2012, anche se rimane lontano il tragico aumento del 18% del 2008, dovuto alle speculazioni sulla commodities, le materie prime, alimentari che avevano fatto da locomotore per l’aumento generalizzato dell’inflazione in buona parte del continente africano; la disoccupazione al 12,5%; il 40% della popolazione che vive appena sotto o sopra del limite di povertà; la svalutazione del 14% della moneta nazionale nei confronti del dollaro statunitense; in questo contesto è aumentato ulteriormente il divario tra classi sociali, che aveva già portato a grosse manifestazioni contro le trattative, bloccate da qualche mese, in corso tra Fondo Monetario Internazionale e governo Morsi a proposito della ristrutturazione necessaria per ottenere prestiti e che avrebbe massacrato le già precarie condizioni di sopravvivenza delle classi popolari E non dimentichiamo che in queste classi la Fratellanza aveva (e ha) una parte consistente della base, grazie alla creazione, negli ultimi decenni di welfare parallelo a quello statale. A questo va aggiunto il fatto che per quanto moderato Morsi rimane pur sempre un islamista e in tanti nel suo partito vorrebbero volentieri imporre la Sharia come fonte principale del diritto, in un paese dove si è sempre sentita la forte influenza del clero islamico e in cui è presente una delle culle del pensiero teologico sunnita (con i suoi annessi addentellati nell’economia), l’università islamica del Cairo. Inoltre Morsi ha tentato più volte di avocare a se’ poteri piuttosto ampli, giustificando l’ampliamento delle sue prerogative con la necessità di tenere a bada un apparato amministrativo e giudiziario ancora vicino all’ex despota Mubarak. Il mix tra una crisi economica di cui non si intravede facile soluzione, dato il legame del paese con l’economia europea a sua volte in forte crisi, instabilità istituzionale e attacchi alle “libertà civili” è stato l’innesco per l’insurrezione delle scorse settimane.

In un tale quadro di instabilità l’intervento dell’esercito è stata la logica conseguenza. Come in molti altri paese della regione l’esercito gioca un ruolo importantissimo, nonostante il turn over a furia di pensionamenti forzati tra gli alti ufficiali imposto da Morsi. L’esercito egiziano ha pertanto destituito Morsi, ma non l’ha arrestato come si pensava nelle prime ore, e ha nominato il presidente della corte costituzionale Capo dello Stato ad interim. Un procedimento simile a quello adottato con la caduta di Mubarak.

E analizzando il ruolo delle forze armate emergono altri importanti attori: gli Stati Uniti d’America e lo stato di Israele. Con gli USA esistono accordi per miliardi di dollari di aiuti militari all’esercito egiziano e con Israele esistono, fin dalla fine degli anni settanta, decenti relazioni da un punto di vista diplomatico e militare. Questo aggiunge complessità al quadro.

Da un punto di vista della politica estera vi è una sostanziale continuità tra Mubarak, Morsi e l’esercito. La Fratellanza Musulmana di Morsi è risultata piuttosto simpatica agli USA e non ha avuto particolari problemi a creare buone relazioni con il governo israeliano. L’Egitto rientra a pieno titolo, con la buona compagnia dell’Arabia Saudita e degli stati del Golfo, nel blocco dei paesi musulmani filo statunitensi e che si contrappongono al blocco dei paesi a maggioranza islamica vicini al blocco Sino-Russo come la Siria e l’Iran. Poco hanno da blaterare i nostrani imbecilli che vedono l’ennesimo complotto giudaico-americano ai danni dei musulmani nella caduta di Morsi. Gli statunitensi hanno appoggiato la Fratellanza Musulmana fintanto che questa è stata in grado di assicurare un “buon governo”, nell’ottica di Washington e Tel Aviv. Dal momento che il governo egiziano si è trovato ad essere squalificato e rischiava di trasformarsi, con la sua permanenza a fronte della rabbia popolare, in un fattore di instabilità dell’area è stato dato l’avvallo al golpe militare. Poco dopo alcuni alti esponenti statunitensi stessi hanno dichiarato pubblicamente che potrebbero rivedere il finanziamento all’esercito del Cairo. Ma non ci si deve trarre in inganno dato che probabilmente si tratta di un segnale molto semplice: gli Stati Uniti e il loro alleato israeliano vorrebbero vedere ripristinata una situazione di stabilità, quindi sarebbe meglio che i militari non si abituassero a detenere in modo smaccato il potere politico ma garantiscano un ritorno alla normalità “democratica” con nuove elezioni. Contemporaneamente l’esercito ha fatto saltare un paio di tunnel nella zona di confine, che rifornivano la Striscia di Gaza. Tanto per dare un segnale di amicizia ad Israele, sulla pelle della popolazione palestinese.

Altro paese che gioca un importante ruolo in Egitto (e in generale in Nord Africa) è l’Italia: anche se negli ultimi anni vi è stato un calo degli investimenti rimane il secondo partner commerciale egiziano nell’import/export di prodotti energetici e una delle più importanti banche italiane, l’Intesa San Paolo, sta penetrando nel sistema bancario egiziano. Non è un caso, infatti, che la Fratellanza Musulmana abbia stretto dei buoni legami con il Partito Democratico, e conseguentemente con il mondo “cooperativo” particolarmente attivo nel settore costruttivo, e con le altre principali forze politiche italiane, anche grazie alle sue ramificazioni presenti in Italia tra la piccola borghesia di origine immigrata e i suoi figli nati in Italia, come i Giovani Musulmani Italiani, strettamente legati al clero egiziano da un lato e alla galassia piddina dall’altro.

Una situazione, comunque, ancora molto fluida e aperta, e che dimostra che le così dette Primavere Arabe sono state l’avvio di un processo che ha portato le masse popolari arabe a tentare di prendere un ruolo da protagoniste nella determinazione dei processi politici. Senza le mobilitazioni di massa non sarebbe stata possibile la caduta di Mubarak e di Morsi, e il segnale che queste mobilitazioni ci mandano è che la popolazione non vuole più subire spontaneamente questo o quel dominio. Non è aria di rivoluzione, certamente, ma è segnale di un cambiamento che potrebbe anche avere sbocchi rivoluzionari, a lungo termine.

lorcon

Note: i dati economici sull’Egitto sono ottenuti principalmente da: http://tinyurl.com/n93ml8q e http://tinyurl.com/lpj54pd. Sui rapporti tra Fratellanza Musulmana, Hamas, Israele e USA si veda anche l’articoli “Novembre Nero”, apparso sul numero 37 dell’anno 92 di Uenne: http://tinyurl.com/kzsdapu

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Le delizie del sistema penale USA‭ – intervista

Approfondimento su Anarres, trasmissione di Radio Blackout, sul tema delle carceri e delle politiche disciplinari e carcerarie nella società statunitense.

2013-05-24-carceri-usa-lorcon

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