Il seguente articolo è stato pubblicato su Umanità Nova numero 12 anno 101 da me e da J.R. Non ha la pretesa di essere un lavoro esaustivo ma bensì un lavoro compilativo e di meta-analisi per fornire alcune informazioni su temi poco dibattuti e conosciuti alle nostre latitudini.
Le vicissitudini del Myanmar (Birmania) sono di difficile lettura se si tenta di analizzarle esclusivamente da un punto di vista di equilibri tra forze interne o, peggio ancora, usando la lente d’ingrandimento e concentrandosi solo sulle questioni di conflitto fra gruppi etnici.[1] Pur nella tragedia di esodi di massa, vessazione verso le minoranze religiose e le attuali risposte armate alle proteste contro il colpo di Stato, crediamo sia estremamente importante analizzare la questione birmana con una chiave di lettura geopolitica.
La denuncia sic et simpliciter di un regime è un atto dovuto ma non aiuta ad inquadrare il problema rispetto alle cause primarie, che a nostro avviso sono e rimangono indissolubilmente legate a ragioni economiche internazionali. Nella guerra giocata sul piano della competizione economico-finanziaria a farne le spese sono sempre le popolazioni locali ed i governi nazionali sono strumenti di attuazione di programmi neoliberisti, con la sola differenza che se in occidente i colpi di stato non sono accettabili in altre parti del mondo fanno parte della prassi.
La proposta di analisi avanzata in questo articolo fa riferimento alla combinazione di elementi esogeni che dagli anni ’90 hanno indotto una accelerazione nella latente crisi interna del paese. Vengono presi in considerazione tre fattori decisivi: il posizionamento geografico del paese, l’espansionismo cinese e la fisiologica instabilità politica birmana. Non abbiamo qui la pretesa, in poche righe, di poter esporre con la dovuta completezza una questione tanto complessa, quel che ci preme è però riuscire ad inquadrare il conflitto sociale in atto all’interno di uno schema molto più ampio della sola questione etnica. Se mai il conflitto interetnico va inquadrato all’interno degli espedienti utilizzati per impoverire ed allontanare le popolazioni locali da zone ad altissimo interesse economico e commerciale.
L’ipotesi che sintetizza i tre fattori poc’anzi esposti ruota attorno alle rotte commerciali cinesi e a tutto il portato di infrastrutture e zone economiche speciali (ZES) che hanno storicamente fatto la fortuna della superpotenza asiatica.[2] Le ZES, sulla cui utilità per le popolazioni locali c’è ancora una consistente coltre di dubbi, hanno svolto un ruolo centrale non solo nella propulsione dell’economia cinese post maoista, ma è stata “adottata” anche in altri paesi asiatici. Attraverso il programma di cooperazione economica della subregione del Grande Mekong (GMS-ECP), un modello di integrazione e sviluppo regionale fortemente voluto della Banca Asiatica di Sviluppo (ADB) e partito all’incirca dalla metà degli anni ’90, alcune aree strategiche sono integrate nell’iniziativa cinese One Belt, One Road.[3] Nella fattispecie l’operazione di integrazione economica riguarda il Myanmar e la Cambogia, dei quali il primo è geograficamente a ridosso di aree cinesi densamente industrializzate (provincia di Yunnan) e il secondo in posizione favorevole per quanto riguarda gli scali marittimi, affacciandosi sul trafficatissimo golfo di Tailandia.
Quando si parla di integrazione economica, va solitamente intesa con l’aggettivo implicito “verticale”, dal momento che integrare un paese all’interno di un processo economico, il più delle volte, significa rimuovere gli ostacoli economico-legislativi affinché lo Stato integrato diventi una propaggine “economicamente attiva” di un processo più ampio, cioè fornisca supporto logistico, manodopera e suolo al minor costo possibile o semplicemente si lasci attraversare dai flussi economici e commerciali senza aver nulla a pretendere. Questo copione si ripete praticamente invariato da quando è stato concepito il sistema di parassitismo chiamato colonialismo, in tutte le sue versioni.
Se osserviamo la nascita delle ZES birmane, ad un certo punto noteremo un accentuato parallelismo con quelle cinesi, soprattutto negli ultimi anni. Il progetto per la realizzazione di aree speciali in Myanmar è iniziato con le ZES di Thilawa e Dawei negli anni ’90. La prima è un porto fluviale internazionale per container, interamente di proprietà di Hutchison Port Holdings (HPH) a sua volta controllata di Hutchison Whampoa Limited (HWL), società con sede ad Hong Kong che, tra gli altri, controlla anche il porto di Taranto (Taranto Container Terminal – TCTI). La seconda è un centro di produzione di gomma e legno di teak oltre che di prodotti agricoli che vengono esportati in Cina, India e Thailandia. La Kyaukphyu SEZ, poi, si presenta com un’altra immensa area portuale, costata circa 7,3 miliardi di dollari, finanziata da partecipate dello Stato cinese che ne detiene una quota del 70% e la gestione per cinquant’anni. In questo porto il petrolio proveniente dal medio oriente, pompato attraverso un oleodotto di più di 700 chilometri attraverso l’entroterra montuoso della Birmania fino alla provincia cinese dello Yunnan. La quarta ZES, la Myitkyina Economic Development Zone (nota anche come Namjim Industrial Zone) è in fase di realizzazione e nasce praticamente in contemporanea della ZES di Yunnan. Situata geograficamente a Nord, Myitkyina, capoluogo della regione birmana del Kachin, è un importante snodo commerciale – autostradale e ferroviario – delle merci con la Repubblica Popolare Cinese è attualmente uno dei punti caldi degli scontri e delle proteste contro il colpo di stato militare. Chi trae un grande vantaggio da queste istallazioni è proprio la Cina, perché i porti danno accesso al mare consentendo alla flotta mercantile e militare cinese di bypassare lo Stretto di Malacca; il Myanmar rappresenta l’accesso preferenziale all’Oceano indiano di Pechino.
Unitamente a queste dinamiche in accelerazione c’è tutto il sistema di prestiti e finanziamenti tra il FMI e la ADB, che storicamente hanno stritolato svariati paesi asiatici “inducendone” trasformazioni in chiave neoliberista, cioè la testa di ponte dell’integrazione economica di cui sopra. Il gioco è stato rodato e perfezionato negli anni fin dal “miracolo cileno”: deregulation da un lato, privatizzazioni nel caso di paesi socialdemocratici o semplice svendita del territorio in tutti gli altri. Sfruttando qualsiasi espediente che metta un paese nelle condizioni di chiedere aiuto economico il meccanismo scatta e da quella morsa non è facile svincolarsi.
La crisi asiatica esplosa tra il 1997-2008 ha evidenziato la debolezza indotta dalla dipendenza dai finanziamenti esteri a breve termine, sottolineando la funzione della liquidità in dollari come protezione contro l’instabilità finanziaria. D’altro canto legare più o meno ufficialmente la propria valuta al dollaro si è dimostrato, più che spesso, un pessimo affare.[4] La liquidità di emergenza è stata ottenuta dal FMI in quella che è stata percepita come un’esperienza tutt’altro che felice. Condizioni gravose sono state imposte ai contraenti, come tassi di interesse elevati, il che ha solo aggravato la crisi dato l’elevato livello di indebitamento delle imprese asiatiche. Il Fondo agiva come grimaldello per aprire i mercati dei paesi in crisi agli investimenti esteri, ovviamente nell’interesse dei suoi principali azionisti, in particolare degli Stati Uniti.
Il governo giapponese nel 1997 ha proposto un Fondo Monetario Asiatico per fornire una fonte alternativa di finanziamento di emergenza, l’idea è stata però respinta dal Tesoro degli Stati Uniti e dal FMI. Dopo la crisi, i paesi asiatici hanno risposto raddoppiando i loro sforzi per accumulare riserve in dollari, questo però li ha solo esposti a perdite di capitale dovute alle variazioni dei tassi di cambio alimentando gli squilibri globali con vere e proprie emorragie di liquidità.[5] In questo pandemonio è entrata la Cina letteralmente in scivolata, coinvolgendo il territorio birmano direttamente nei suoi interessi economici.
Da qui la necessità impellente di un solo interlocutore per portare avanti il balzo cinese verso l’occidente ed i suoi mercati. Non è peregrina l’ipotesi di un sostegno cinese al colpo di stato per garantire una certa stabilità (costi quel che costi) e potersi così accaparrare tutto lo spazio di agibilità necessario alle sue mire espansionistiche. Non si deve poi tralasciare che le alte sfere della giunta militare hanno – storicamente ed oggi più che mai – le mani in ricchi affari e speculazioni, da partecipazioni in società di trasporti e di gestione portuale ai possedimenti immobiliari e minerari e chi più ne ha più ne metta. L’esercito è inscindibilmente legato alla società del Myanmar, non solo ha le proprie scuole, ospedali ed un sistema di produzione alimentare ma la sua élite è sposata con potenti famiglie, creando un tessuto integrato che è quasi impossibile da disfare.[6]
Il dominio dei militari va oltre la potenza di fuoco del suo mezzo milione di soldati, i cui attacchi alle minoranze etniche si sono intensificati durante il mandato del generale Min Aung Hlaing. Le due holding più potenti del paese sono sotto il comando dell’esercito, controllando una vasta fortuna che include giada, legname, porti e dighe. Il Tatmadaw (esercito birmano) si è inserito nelle banche, nelle assicurazioni, ospedali, palestre e media. Non è un caso che la rete mobile Mytel sia stata la prima ad essere riattivata dopo che le telecomunicazioni sono state interrotte a livello nazionale dal colpo di stato: Mytel è in parte di proprietà dei militari. L’esercito è il più grande proprietario terriero del paese, cosa non desueta se per esempio si guarda all’Egitto o alla Libia. Appare quindi chiaro che la Cina, così legata a meccanismi di acquisizione tipo il land grabbing, non possa che rivolgersi a chi gestisce la maggioranza del capitale terriero e può decidere di acquisire tutto il resto.
Va inoltre sottolineato come la particolare posizione geografica del Myanmar faccia assumere a questo paese un ruolo rilevante per la politica estere cinese, per motivi di ordine sia commerciale sia militare. L’apparato militare dello stato cinese è numericamente impressionante e negli ultimi anni ha avuto un forte impulso verso un rinnovamento in termini qualitativi ma storicamente manca della capacità di proiezione militare. La Cina è bloccata a nord dalla potenza russa, ad est dal Giappone, dotato di forze armate non cospicue ma moderne e, sopratutto, sede di importantissimi siti aeronavali statunitensi. A sud ha il Vietnam, paese con cui non ha rapporti distesi e che negli anni si è avvicinato alla sfera statunitense. La capacità di penetrazione e insediamento in Myanmar garantisce sia di poter aggirare questi possibili blocchi piroettandosi direttamente verso il golfo del Bengala – ponendo quindi anche una minaccia in termini militari verso uno dei grandi rivali della Cina: l’India – sia la possibilità di sganciare i flussi di merce in entrata ed in uscita dal passaggio per il Mar Giallo e per la regione degli Stretti. Questo significa poter esportare più agilmente verso i paesi dell’Africa Occidentale, paesi dove la Cina intrattiene importantissimi rapporti commerciali sia per quanto riguarda lo scambio di merci sia per quanto riguarda i progetti infrastrutturali, sia per importare materie prime energetiche dal Medio Oriente: da qua si capisce la necessità della classe dominante cinese di mantenere strettissimi rapporti con la giunta militare birmana.
Le proteste contro la giunta militare sono viste dalla Cina come una diretta aggressione nei suoi confronti. Un Myanmar che si rendesse autonomo dall’influenza cinese o che, peggio ancora, decidesse di stringere rapporti con gli Stati Uniti sarebbe una sconfitta strategica per la Cina. La Cina da anni oltre a costruire una propria capacità di gestione dei flussi commerciali punta a presentarsi come alternativa politica ed ideologica alle liberal-democrazie occidentali. Forte del suo oggettivo successo nella gestione dello sviluppo da paese agricolo a potenza industriale si propone come partito dell’ordine a livello globale. Essendo stata in grado di attuare politiche di sviluppo economico di stampo neoliberale senza, al contempo, cedere quote di sovranità ad enti sovranazionali o a potenze straniere, di darsi una struttura di riproduzione capace di fornire manodopera di massa con alti livelli di specializzazione e dotata di forte autodisciplina e di capacità di autorganizzazione, tagliando così sui costi manageriali,[7] cerca ora di proporre questo modello come modello di sviluppo per altri paesi che con essa vorranno condividere una sfera di interessi in comune.
Purtroppo molti vedono la Cina solamente come produttore di paccottiglia di massa a basso costo da esportare all’estero. È un errore enorme. Se l’Inghilterra ci ha messo un secolo dal passare dalla produzione manifatturiera di pezze di tessuto di bassa qualità, accumulando però una fortuna, e di merci per alimentare il commercio triangolare all’esportazione di acciaio di alta qualità per corazze navali e ferrovie, la Cina in trenta anni è passata dal produrre pezzi di plastica e di metallo di bassa qualità a fare concorrenza agli Stati Uniti nel campo delle ricerca dell’intelligenza artificiale, delle biotecnologie, dei processi produttivi di nuova generazione. Si pensa che la produzione elettronica cinese sia importante per le caratteristiche di massa nella produzione di smartphone e si ignora come la Huawei faccia concorrenza alla Cisco Systems e alla Juniper Networks nella costruzione e nella vendita di router, firewall fisici e switch di alta fascia, insomma degli apparecchi che permettono la gestione delle dorsali di trasmissione dei dati. Parte integrante della strategia di espansione cinese è quella di esportare queste tecnologie e la capacità di gestione.
Per rimanerre sul Myanmar è interessante prendere in esame il Safe City Project,[8] ovvero un insieme di tecnologie per “Smart City” in grado di creare in breve tempo un sistema di sorveglianza di massa. Questo genere di progetti vanno a fornire governi di paesi relativamente poveri di sistemi tecnologici all’avanguardia, in grado sia di poter fornire utilità di scala per lo sviluppo economico – infrastrutture digitali – sia capacità di sorveglianza e controllo altrimenti non ottenibili. Ci sarebbe da aprire un dibattito su quanto poi questi sistemi funzionino ma intanto sono tra i volani dell’espansione di un moltitudine si soggetti economici, più o meno istituzionali.
Per altro la relazione tra Cina e Myanmar sul terreno delle tecnologie digitali è a doppio binario poiché quest’ultimo paese gode della presenza di miniere di terre rare, fondamentali per la produzione di motori elettrici e semiconduttori. Intendiamoci: la Cina estrae più dell’85% di questi minerali a livello globale, quindi non necessita certamente delle risorse del vicino meridionale ma, siccome parliamo di materie prime non distribuite in maniera eguale sulla superficie terrestre e, al contempo, fondamentali per la produzione tecnologica, controllare l’1,7% in più delle estrazioni è una notevole leva sul mercato globale di queste materie.[9]
Ufficialmente la Cina si presenta come potenza in grado di dare gli strumenti per uno sviluppo armonioso, una riproposizione della propaganda da Conferenza di Bandung, di fornire infrastrutture all’avanguardia a paesi terzi cui le potenze occidentali non hanno interesse a fornirle. Le centinaia di morti lasciati sul selciato dal Tatmadaw con l’attivo supporto della Cina ci dicono a chiare lettere che la realtà è ben diversa. La stessa cosa ce lo dicono i lavoratori degli sweatshop delle zone industriali cinesi, i contadini espropriati delle campagne, gli oppositori costretti all’esilio o al carcere, gli ecosistemi devastati. L’armonia proposta da Pechino è repressione di qualsiasi istanza di autonomia di classe e di emancipazione sociale in nome di uno sviluppo capitalistico spacciato per sviluppo armonioso. In definitiva nulla di particolarmente diverso rispetto allo sviluppo capitalistico ed al contemporaneo sviluppo dello Stato che abbiamo visto alle nostre latitudini. Per quanto gli indefessi imbecilli o i prezzolati propagandisti difensori della classe dominate cinese accusino chiunque critichi in termini anticapitalisti la Cina di essere un baizuo – termine dispregiativo assimilabile al nostrano “buonista” – i fatti mantengono una testa dura.
J. R. & Lorcon
NOTE
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Per ragioni di carattere storico e scientifico preferiamo precisare che l’utilizzo della locuzione “etnico” o “etnia” in questo giornale viene utilizzato come categoria culturale ed antropologica, non annoverando tale termine ad alcun concetto di razza, il quale è assolutamente e incontrovertibilmente inesistente e fittizio.
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Una Zona Economica Speciale (ZES) è un’area all’interno o al di là dei confini nazionali amministrata secondo regole speciali. Sono disponibili in diverse forme, che in Myanmar includono zone franche e zone di promozione, nonché il potenziale per la creazione di altri tipi di zone secondo necessità.
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SEZs and Value Extraction from the Mekong: A Case Study on the Control and Exploitation of Land and Labour in Cambodia and Myanmar’s Special Economic Zones.
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Cfr. JR, “Una metafora dei disastri del capitalismo moderno-1”, Umanità Nova. https://www.umanitanova.org/?p=12788 .
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Cfr. Barry Eichengreen, “Regional Financial Arrangements and the International Monetary Fund”, ADBI Working Paper Series November 2012, https://www.adb.org/sites/default/files/publication/156249/adbi-wp394.pdf .
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Cfr. Annah Beech, “Myanmar’s Army Is Back in Charge. It Never Truly Left”, New York Times, feb.2.2021.
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Arrighi Giovanni, “Origin and dynamics of the chinese ascent” in “Adam Smith in Beijing – Lineages of the twenty-first century”, Verso Books, London-New York 2007.
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https://www.reuters.com/article/us-china-rare-earths-myanmar-idUSKBN2BI1HR . Si noti che l’ineguale distribuzione di queste risorse è tale per cui la Cina con l’85% di estrazione globale di questi elementi occupa, ça va sans dire, il primo posto nella classifica del produttori seguita dall’Australia con appena il 10% e dal Myanmar stesso con appena l’1,7 %.