Il seguente pezzo è stato pubblicato su Umanità Nova numero 1 anno 98 (immagini via Discard Images)
I moti di piazza in Iran sembrano acquisire sempre più una caratteristica insurrezionale. Le proteste, iniziate nella città di Mashhad contro il carovita e inizialmente spinte dai settori conservatori dell’estabilshment con lo scopo di mettere in difficoltà il governo riformista di Rouhani sono rapidamente diventate una mobilitazione di massa generalizzata contro non solo l’attuale governo ma contro la Repubblica Islamica in generale.
Fonti locali riferiscono della diffusione di slogan contro il clero sciita, contro la Guida Suprema, l’Ayatollah Khameni, e contro le strutture militari espressioni della ierocrazia. Viene riferita anche la presenza di parole d’ordine contro l’interventismo iraniano in Medio Oriente, sopratutto in Siria. Mentre scriviamo diverse fonti riportano di almeno una ventina di morti negli scontri causati dagli interventi repressivi.
Se l’ondata di proteste del 2009 fu concentrata sopratutto nella capitale e fu partecipata sopratutto da giovani, tra cui moltissimi studenti e studentesse universitarie, e fu segnata spiccatamente da questioni di ordine politico l’attuale ondata di mobilitazioni di massa hanno caratteristiche sia politiche, l’opposizione alla stessa forma della stato così come stabilita dalla presa del potere da parte del clero in poi, che economiche: se Rouhani è moderatamente riformista in campo sociale da un punto di vista economico è invece esplicitamente un neoliberale e le politiche messe in atto dal suo governo hanno portato a un ulteriore impoverimento dei ceti popolari. Al contempo non è riuscito a garantire che tiepide e lente riforme in campo sociale, troppo poco per un paese dove la popolazione giovanile è in crescita e tollera sempre meno il soffocante controllo clericale.
Tutta la frazione riformista della classe dominante persiana negli ultimi anni si è spostata sempre più verso le posizioni di Rouhani, cautela estrema nelle riforme sociali e forte propensione per il neoliberismo, e così facendo ha provocato una profonda delusione tra coloro che li avevano appoggiati alle urne, votandoli spesso in un ottica di meno peggio.
Il fatto che le proteste stiano coinvolgendo anche città storicamente fedeli al clero – tra cui la città di Qom, in cui si trova uno dei principali santuari sciiti – dimostra come la disaffezione verso la Repubblica Islamica sia sempre maggiore.
Il mix tra le mancate riforme in campo sociale e la pluriennale compressione dei salari reali ha creato le basi dell’attuale ondata di mobilitazioni. A questo punto eventi come le rivelazioni sulle ruberie da parte delle fondazioni legate al clero – fondazioni che possiedono buona parte dell’industria e della proprietà fondiaria del paese – o l’aumento del prezzo delle uova hanno fatto semplicemente da catalizzatori. Chi ha evocato la mobilitazione di piazza con l’obiettivo di fare le scarpe ai propri avversari politici – come ha fatto la fazione conservatrice della classe dominante persiana – ha evocato uno spettro che ovviamente non è in grado di controllare.
Le timide aperture da parte di alcuni esponenti del governo alle manifestazioni – che andrebbero ascoltate purché si mantengano nell’alveo della legalità – altro non sono state che la giustificazione all’omicidio di stato di una ventina di dimostranti in tutto il paese mentre il gran capo dei boia, il Presidente della Corte Rivoluzionaria di Theran, ha dichiarato che gli arrestati potranno essere accusati di avere “dichiarato guerra a dio”, accusa che prevede la pena di morte e che è sempre stata usata dal governo islamico per eliminare senza troppe spiegazioni, grazie a una definizione di reato estremamente vaga, gli oppositori politici, come avvenne anche a seguito delle proteste del 2009. Nel frattempo il governo aumentato la censura sul web e limitato ulteriormente l’accesso a Internet nel tentativo di rendere più difficoltosa la comunicazione tra i manifestanti e la fuoriuscita di notizie verso l’estero.
In Iran circa dodici milioni di persone vivono al di sotto della soglia di povertà. La particolare forma di assistenzialismo iraniano, basata sulle fondazioni religiose, riesce ad assistere circa la metà di questa massa di diseredati. Nonostante le distribuzioni con prezzi calmierati dei beni di prima necessità attuate da queste fondazioni, che hanno lo scopo di mantenere il controllo delle masse proletarizzate, i salari reali sono stati costantemente erosi negli ultimi anni.
Nel frattempo l’Ayatollah Khamenei, Guida Suprema del paese, e il presidente della Repubblica, Rohani, teoricamente rappresentati di due frazioni avverse, all’unisono accusano le solite potenze straniere di essere dietro alle mobilitazioni. Non abbiamo dubbi sul fatto che anche i nostrani apprendisti stregoni della geopolitica, quelli che, insomma, si eccitano con l’idea di appoggiare certi stati – e certe borghesie nazionali – in nome dell’antimperialismo, si metteranno a ripetere questa canzoncina a pappagallo.
Forse non sono edotti del fatto che l’espansione delle mobilitazioni di massa – sopratutto se con carattere insurrezionale – preoccupano non solo gli alleati diretti di Teheran, come la Russia e la Cina, ma anche la stessa Unione Europea, Italia e Germania in testa, che con l’Iran ha eccellenti, e in espansione, rapporti commerciali.
USA, Israele e Arabia Saudita sicuramente possono guardare con maggiore simpatia a tutto ciò che mette in difficoltà il paese che considerano come principale nemico ma solamente chi ha la testa imbottita dalla propaganda può pensare che le mobilitazioni di massa in Iran siano causate da qualche oscura manovra estera e non il risultato di anni di politiche economiche che hanno attaccato le condizioni di vita delle classi popolari e di una repressione sociale che dura da decenni.
Per altro la classe dominante Saudita vive nel terrore perenne che le contraddizioni interne al paese esplodano definitivamente e se le mobilitazioni di massa in Iran andranno avanti comincerà a temere il famigerato contagio rivoluzionario.
Davanti a questa possibilità le borghesie nazionali sono disposte a mettere da parte le proprie rivalità per concentrarsi, insieme, nell’assoggettamento del proletariato. La storia immediatamente seguente alla sconfitta irakena nella Prima Guerra del Golfo ben lo dimostra: dopo un decennio di guerre ininterrotte, prima con l’Iran e poi con il Kuwait e la NATO, il proletariato irakeno insorse contro i propri massacratori, immediatamente coloro che combattevano Saddam Hussein decisero che era meglio che rimanesse al comando affinché potesse reprimere l’insurrezione.
Una delle cause dello scontento da parte di coloro che in questi giorni combattono per le strade persiane è il costante drenaggio di fondi verso la spesa militare, drenaggio necessario per mantenere ed espandere quella gigantesca macchina da guerra costruita da Theran che ha permesso all’Iran di espandere, o consolidare, la propria influenza in Iraq e Siria.
Sia mai che anche le classi popolari di altri paesi – come l’Arabia Saudita o lo stesso Israele – decidano che si sono stancante di pagare per il mantenimento degli strumenti del proprio stesso asservimento.