Il seguente articolo comparirà sul numero 1 anno 94 del settimanale anarchico Umanità Nova.
Interessi economici, disinformazione e ricerca
LE APORIE DELLA SPERIMENTAZIONE ANIMALE
Nelle ultime settimane il dibattito sulla sperimentazione animale[1] in Italia ha ripreso di vigore, alimentato dalla vicenda di Caterina Simonsen, ragazza venticinquenne, affetta da una rara malattia genetica che ha aderito ad un appello a favore della sperimentazione animale e che ha raccolto, come risposta, alcune decine di commenti a base di insulti ed auguri di morte.
Il dibattito è quindi stato spostato: dal dibattito su una questione di bio-etica, ma anche di scienza ed economia, si è trasformato in un dibattito “morale” sulla cattiveria degli “animalisti”, ribattezzati “nazianimalisti” per non farci mancare l’ennesima reductio ad hitlerium, che insultano la povera ammalata.
Il fatto che poi alcuni organi di informazione mainstream, la Repubblica su tutti, abbiano rilanciato la vicenda con articoli di una banalità impressionante ha ulteriormente impantanato la discussione.
Da questo dibattito è emerso quasi di tutto tranne i punti fondamentali per qualsivoglia discussione seria su questi temi:
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questione etica: è eticamente giusto asservire un essere senziente e farlo vivere nel dolore per scopi di ricerca anche qualora questo permetta di salvare altre vite? Quali devono essere i legami infra-specie?
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questione tecnico-scientifico: esistono metodologie di ricerca alternative valide quanto se non di più rispetto alla sperimentazione animale? È legittimo prevedere la possibilità che queste metodologie siano implementabili in un futuro prossimo?
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questione economica: quali interessi economici e di potere si muovono con la sperimentazione animale? L’apparato accademico è disponibile ad utilizzare protocolli di ricerca che non prevedono l’uso della sperimentazione animale anche qualora questi si dimostrino antieconomici nel primo periodo (qualsiasi innovazione tecnologica introdotta rapidamente prevede dei costi di implementazione elevati) e sopratutto anche quando questi metodi scardinino le attuali baronie accademiche?
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quale è stato il ruolo dei media mainstream in questa vicenda? Quale è stata la sua genealogia?
Le risposte alla prima domanda che vengono date da parte di chi è favorevole alla S.A. generalmente latitano o si riducono a qualcosa tipo “io valgo più di un topo”. Quando si chiede di giustificare questa affermazione si osserva all’esposizione delle più astruse teorie: si va dal patetico “sono nati in uno stabulario, sono nati per essere sacrificati” al sempreverde “io sono senziente e un topo no”. E questo apre un’ulteriore riflessione: intanto è facile giustificare il proprio dominio quando ci si trova già in una posizione di dominio; secondariamente le neuroscienze e il dibattito su cosa sia senziente o meno sono una questione seria ed è troppo comodo dichiararsi unilateralmente senzienti e farne da qua discendere il diritto di reificare un’altra forma di vita. Da un punto di vista squisitamente logico l’unica giustificazione a un simile comportamento è: “perchè è mia volontà”.
Qualsiasi altra giustificazione è insensata in quanto viziata da una visione di derivazione mistica del ruolo dell’uomo all’interno di un ecosistema complesso che della specie umana, figuriamoci dei singoli individui, in ultima analisi, se ne frega. Ma rispondere “perchè è mia volontà” o “è mio piacere farlo” non è una giustificazione valida per chi sente il bisogno di una giustificazione morale che possa essere universalmente accettata e di conseguenza si preferisce costruire degli abomini logici e delle speculazioni insensate sull’autocoscienza e sulle capacità senzienti. Speculazioni che però non possono decostruire questi concetti perchè nascono proprio dalla necessità di non dover definire il concetto di intelligenza pena il crollo del costrutto morale che giustifica la SA. Siamo di fronte ad un evidente caso di autogiustificazione, un gigantesco bias logico.
A parere di chi scrive questo è dovuto anche alla totale mancanza di formazione in campo epistemologico-filosofico in chi lavora nell’ambito della ricerca biomedicale e, in generale, dalla mancata consapevolezza che il confine tra filosofia e scienza è meno netto di quel che si possa pensare.
Il secondo punto è di difficile discussione in questa sede: metodologie di ricerca alternative si sono ampiamente sviluppate negli ultimi anni ed è probabile che grazie allo sviluppo delle bionanotecnologie, dell’ingegneria genetica e di altre tecnologie, come la possibilità emersa nell’ultimo lustro di stampare letteralmente dei tessuti, queste metodologie alternative prendano ulteriormente sostanza. Già adesso con l’uso delle coltivazioni cellulari in vitro e di bioreattori si potrebbe fare a meno della SA per molte ricerche. Rimane il problema di testare le risposte sistemiche di una sostanza all’interno di un intero organismo: e appunto a questo servirebbero le già citate tecnologie in corso di sviluppo.
I problemi tecnici molto probabilmente saranno superabili nel giro di pochi anni se si deciderà di puntare sulla loro risoluzione. Ma questo è un problema di ordine economico, etico e politico. Non può essere la concezione tecnica acefala finalizzata alla riproduzione di se’ stessa al momento imperante all’interno dei laboratori di ricerca a dare questa spinta. La spinta va fornita dall’esterno.
E qua arriviamo al terzo punto. Sulla sperimentazione animale si sono costruiti la carriera migliaia di ricercatori tra cui svariati baroni universitari. Costoro e i loro addentellati politici costituiscono lo zoccolo duro che oppone resistenza all’introduzione di maggiori fondi per metodologie alternative di ricerca. In un momento in cui vi è un taglio generalizzato di finanziamenti costoro vedono con estrema preoccupazione la possibilità che una quantità maggiore di fondi economici vada a dare copertura alla loro concorrenza. Il fatto che recentemente sia stata recepita una direttiva europea (la 2010/63) che stabilisce di finanziare maggiormente, rispetto a quanto fatto finora, la ricerca che non usa animali ha letteralmente gettato nel panico intere cordate di potere all’interno del mondo accademico.
Cambiare modelli di ricerca significa sia uno sconvolgimento di paradigma enorme e c’è chi ha l’interesse materiale che questo non avvenga. E questo succede anche a scapito della possibilità di costruire metodologie più efficaci nel campo della ricerca biomedicale.
Si consideri, inoltre, che una buona parte della ricerca viene fatto con il semplice scopo di produrre pubblicazioni che a loro volta produrranno punteggio nei concorsi e grant di ricerca. Alcune ricerche sono fatte semplicemente cambiando leggermente la composizione di un principio attivo, sapendo benissimo che questo avrà gli stessi effetti della molecole di partenza: ma in questo modo si giustificano i fondi per una “nuova” ricerca.
È qua che entra in campo la mobilitazione politica e sociale intorno a questi temi: per spingere nella direzione di espandere altre metodologie chi lavora nell’ambito della ricerca e chi controlla i cordoni della borsa sarà solo la costruzione di rapporti di forza in tal senso.
È, inoltre, necessaria una più ampia operazione culturale che rifletta intorno al rapporto scienza-tecnica-società. Per quanto molti ricercatori amino dipingersi come scienziati in una torre di avorio intenti nell’edificazione delle “magnifiche sorti e progressive” la ricerca scientifica è immersa nella relazioni sociali e ad esse contribuisce. Dal momento stesso in cui la ricerca è asservita all’interesse materiale di un gruppo ristretto di persone essa va incontro ad una serie di problemi: da un lato diventa uno strumento finalizzato allo sfruttamento, dall’altro degrada al livello di tecnica, pregna di ragione strumentale, efficace sul breve periodo ma non efficiente sul lungo. Alla lunga ne risente lo stesso processo scientifico in quanto alcune ricerche e alcuni metodi scientificamente funzionali vengono cassati in quanto non funzionali alla riproduzione dei rapporti di potere esistenti. I problemi sollevati dalla scuola di Francoforte, specialmente da Adorno e Horkheimer con la loro opera “La dialettica dell’illuminismo”, permangono e vanno necessariamente affrontati.
Punto fondamentale, a mio parere, è la necessità di un superamento dialettico dell’impasse creato dalla degenerazione della razionalità in ragione strumentale e in tecnica acefala. E questo sarà possibile solo tramite un’adeguata riflessione su questi temi e la costruzione di rapporti di forza in grado di promuovere un cambiamento. E questo vale per tutti gli ambiti della ricerca, non solo quelli che prevedono l’uso della SA. Il dominio tecnico sul mondo va scardinato e non in ragione del ritorno a una concezione tradizionalista e antimoderna ma in ragione di un suo superamento che sappia conservare ed ampliare le conquiste tecnologiche ottenute, onde usarle per una reale liberazione dallo stato di necessità di sempre più persone oltre che per la costruzione di un diverso rapporto con l’ecosistema. E questo può avvenire solo insieme alla costruzione di un’etica che si sappia intrecciare e sostenere reciprocamente con questo cambiamento, un’etica basata sul mutuo appoggio e su legami di solidarietà e non di dominio.
Dopo questo doveroso excursus, arriviamo all’ultimo punto: come i media hanno affrontato questa vicenda. Chi scrive non si stupisce affatto che, togliendo alcuni buoni esempi, sia mancata completamente una decente riflessione sulla questione: è oramai fatto noto che il giornalismo italiano è totalmente incapace di esprimere qualcosa in qualsiasi ambito. Sopratutto quando si parla di argomenti che tocchino temi complessi il giornalista medio va in totale confusione. Oltre a questo bisognerebbe addentrarsi nei rapporti esistenti tra redazioni e certe cordate esistenti nel mondo accademico. Ma in mancanza di dati sospendiamo il giudizio su questa questione rilevando, senza stupore alcuno, la totale mancanza di trasparenza.
È comunque doverosa una riflessione su come per l’ennesima volta si sia potuto assistere alla mobilitazione di ampie forze nel diffondere memi a favore della sperimentazione animale e tendenti ad appiccicare etichette riduttive nei confronti di chiunque provasse a portare una visione critica.
Infotaiment, condivisione di informazioni su base emozionale e spettacolarizzazione sono stati gli ingredienti base per questa zuppa insipida. Per qualunque persona abituata ad osservare i processi informativi tipici del web è evidente come il caso della Simonsen, di se’ nulla di particolare, data l’abitudine all’insulto presente su certi social network, sia stato gonfiato ad arte da una serie di opinion-maker che l’hanno trasformato in un caso “virale”. E tutto questo in spregio ad una qualsiasi riflessione minimamente razionale sulla vicenda.
Abbiamo potuto assistere ad una sequela di personaggi che dall’alto dei loro profili su Facebook si producevano in spettacolari florilegi di luoghi comuni rendendo evidente come la battaglia su questo tema, come su molti altri, dovrà essere in buona parte una battaglia culturale.
lorcon
[1] Per comodità, e volendo evitare polemiche, in questo articolo ho deciso di usare il termine sperimentazione animale e non vivisezione. Spesso, da parte di chi è favorevole alla S.A., viene contestato il termine vivisezione ma i due termini, Treccani alla mano http://www.treccani.it/vocabolario/vivisezione/, coincidono. È inutile dire che il termine “vivisezione” è maggiormente di impatto rispetto a “sperimentazione animale” ed è chiaro perchè c’è chi spinga perchè venga usato il secondo termine. La lezione orwelliana sul linguaggio è stata introiettata da molti.